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Perché Panebianco è razzista

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di ANNA CURCIO

→ Português

Diciamoci la verità, siamo ormai talmente assuefatti ai commenti di stampo razzista che circolano quotidianamente sui mezzi d‘informazione a proposito degli argomenti più disparati che quasi non ci facciamo più caso. Ma poi ci sono momenti in cui il discorso si palesa fino al punto che diventa insostenibile, che occorre prendere parola, mentre rabbia e indignazione hanno finalmente la meglio. Certo precarietà e sfruttamento spingono spesso le nostre vite ai margini del possibile, dove siamo sopraffatti dalla necessità della sopravvivenza quotidiana. Ma si sa, il troppo stroppia. Così quando ho letto le dichiarazioni di Angelo Panebianco a commento della legittima e sacrosanta contestazione da parte degli studenti bolognesi, dopo l’editoriale apparso lunedì su il “Corriere della Sera”, be’ ho messo da parte i miei guai e acceso il computer. Non, o non solo, in solidarietà ai lavoratori e alle lavoratrici migranti che della filosofia efficacemente e cinicamente riassunta come “Troppe ipocrisie sugli immigrati” sono le vittime designate, né semplicemente per un puro slancio etico. Prendere parola contro il razzismo imperante vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni. Perché le lotte, ben più che i professori universitari, mi hanno insegnato che combattere il razzismo vuol dire lottare per cambiare lo stato di cose presenti. Ma andiamo con ordine.

 Nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa la mattina di martedì 14 gennaio mentre si allontanava da Scienze politiche a Bologna dove era in corso la contestazione, Angelo Panebianco ha sostenuto, a mo’ di difesa, che l’editoriale del “Corriere della Sera” non “riguardava certo i profughi” ma i “flussi di forza lavoro”. Così, se fino a quel momento era stato possibile non vedere, lasciarci distrarre da altre necessità, con questa dichiarazione l’ordine del discorso prendeva la sua forma più precisa. Ne andava dunque sottolineata la matrice profondamente razzista, per evitare che ancora una volta calasse su questi temi il silenzio. La matrice di fondo del discorso è presto detta: per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziosa e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali che non possono neanche essere messi al lavoro, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e della produzione. Il razzismo, non mi stancherò mai di ripeterlo, non è un vizio ideologico dei vari Panebianco in giro per il paese, né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione del lavoro immediatamente contestuale alla produzione capitalista.

Ciò che Panebianco fa nell’editoriale contestato e poi nella replica successivamente riportata dai giornali è produrre differenze, invocare esplicitamente “interventi selettivi” in materia di immigrazione, per poi lanciarsi a stabilire una gerarchia tra migranti “buoni” e migranti “cattivi”. I primi sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticale. E soprattutto quelli che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro. È per questo allora che, senza esitazione, dico che Panebianco è razzista. Ed è razzista perché ricorre al principio della razza – che non è un attributo biologico ma una costruzione sociale di marginalizzazione e discriminazione che chiama in causa l’appartenenza nazionale, la religione e più in generale comportamenti che si presumono naturali, non solo il colore della pelle – per costruire segmenti separati e tra loro in competizione della forza lavoro: una vera e propria tassonomia razziale per cui tanto più in basso finisci, ovvero tanto più sei considerato “cattivo”, tanto più potrai essere sfruttato e sottopagato sul mercato del lavoro. Un principio davvero semplice da capire. Tanto semplice quanto politicamente problematico se svelato. Ed è per questo che la strategia delle elite politiche, in questo paese e non solo, è sempre quella di mescolare le carte, di giocare tra “accoglienza” e “convenienza”, tra profughi e “clandestini”, tra migranti “buoni” e migranti “cattivi”.

Ora, va da sé che il problema non è Angelo Panebianco in quanto tale, o meglio, il problema non è solo Angelo Panebianco, il reale problema che le dichiarazioni del professore bolognese celano ha a che fare con un più complessivo sistema di potere, che non ha colore politico, ma sostiene e legittima in modo bipartisan il razzismo, come dispositivo di sfruttamento che accompagna e sostiene il capitalismo sin dai suoi albori. Per questo, inoltre, il tentativo di Panebianco di smarcarsi dalle critiche degli studenti non funziona, perché il razzismo, come costante del capitalismo, non distingue tra fascismo e neoliberismo. Pinochet e i Chicago boys erano al contempo fascisti, neoliberisti e razzisti. E gli studenti evidentemente lo sanno meglio di lui, a meno che il professare non faccia il vago per convenienza.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. L’attualità ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. È per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse più di quanto a volte crediamo.