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Postfazione – “Il tacco del duka”

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di LANFRANCO CAMINITI

Irriverente. Dissacrante. Imbarazzante. In una parola, il Duka. Un bastardo. Voi potrete pure dire che è questa l’irriducibile anima, il codice genetico, l’imprinting del punk – prendere o lasciare –, per me è solo un bastardo, e felice di esserlo. Nato da mille lombi e mille ventri: nessuna purezza di razza, nessuna etnia, nessun suolo e sangue. Figlio di nessuno perché figlio di tutti. Di tutto. Di tutto ciò che abbia a che fare con cultura, musica e politica. Con la vita.

Il matto del villaggio. Disconosciuto da tutti. Sacro per tutti. “Non prendetemi sul serio”, sembra questo il ritornello continuo delle sue mille storie impossibili, dei suoi mille aneddoti strabilianti. “Ehi, gente, vi sto prendendo per il culo.” Esilarante, in questo senso, il resoconto della presentazione a Perugia del libro Rumble bee, fra skinhead che sconsigliano il porno con Belèn e postfemministe che invece discettano di porno e l’ex detenuto che il porno lo vorrebbe fare seduta stante col tuo culo. Lui serissimo, loro fuori di brocca. “Ehi, gente, mi sto prendendo per il culo.” Gioca onesto, il Duka, non si dà delle arie, non ti fa le tre carte, non ti dà la sòla. E qui il Duka potrebbe sembrare una sorta di Lenny Bruce, il performer americano che sconquassava i cabaret e le cantine di Broadway e New York e le virtù presunte e i vizi assodati con le sue battute fulminanti e le sue oscenità e veniva perseguito da sceriffi e preti cattolici zelanti. Un ghigno e un sarcasmo per dire la verità: Simon & Garfunkel (verranno gli infantioli al Duka, per questa mia citazione) cantavano così: And I learned the truth from Lenny Bruce, cioè “ho imparato la verità da Lenny Bruce”. Ma al Duka non interessa insegnare la verità. Non è Puck, “quel folletto bugiardo e malizioso / quel bizzoso spiritello / che al villaggio spaventa le ragazze”.

Qui la storia è un’altra: “Ehi, gente, non prendetevi troppo sul serio”. E qui il Duka ti finta, ti passa tra le gambe, fa la rabona, perché non recita al “pubblico”, non sputtana sconosciuti ascoltatori, ma parla ai suoi fratelli, ai suoi compagni, al loro cuore e alla loro testa. Non c’è cinismo, cattiveria, mai; semmai tanta tenerezza. A volte il suo sorriso, che intuisci sghembo, sembra quello del gatto del Cheshire, che scompare piano piano fino a rimanere solo quello. Non prendiamoci troppo sul serio. La vita è gioia anche, sorriso, tenere aperta l’anima all’imprevisto, allo scivolone, al capitombolo. Alla rovesciata di classe. Al colpo geniale. Per dire: Astronomia operaia. Ho detto tutto.

Il Duka non sfoggia, potrebbe ma non è il suo stile. Infarcisce i suoi interventi in radio, le sue chiacchiere, il suo rumore di fondo – da dove parla il Duka, da quale spazio, da quale tempo? Non sarà come in Frequency, quel film in cui da una vecchia radio trovata per caso esce fuori una voce di trent’anni prima come fosse adesso? – di citazioni, di brani, di pagine, ma non sfoggia le cose che sa. Piuttosto, mostra, dispone. È come se facesse un banchetto, di quelli che una volta (si fa ancora?) si mettevano nelle giornate di mobilitazione, e si tiravano fuori le scatole con libri raccattati dappertutto, un po’ sgualciti, tanto maltrattati, però “fondamentali”, poggiandoli su una vecchia stoffa. Non si vendono mai, chi se l’accatta? Però, è bello sapere che c’è qualcuno che tiene assieme queste cose. Che le sa. Che un pomeriggio può raccontartele, così, tra una ricetta per un cocktail e un annuncio per una qualche serata al Forte Prenestino o all’Acrobax. E vai con le giornate del ’68 a Chicago, e vai con la storia del trombettiere di Custer. Per il Duka l’insegnamento rimane quello del monaco zen er Pocaluce – la pazienza nel leggere, la determinazione, l’accumulazione –, sapere serve all’anima, mica alle tasche, serve all’animaccia propria e altrui. Potrebbe probabilmente parlarti per ore della trilogia western di Cormac McCarthy – o dirti, che so, come il grande critico Harold Bloom, che Meridiano di sangue è un capolavoro e il giudice Holden un personaggio indimenticabile – e di Hemingway e di Graham Greene oppure di Dürrenmatt, stiamo in parti diverse del mondo per stile e tono, e del saccheggio che il cinema ha compiuto dell’uno o dell’altro. Però, nel mezzo ci metterebbe la fiction Wire che piaceva tanto anche a Obama e il capitano Kirk di Star Trek e la sua Enterprise, che gli serve per il proprio teletrasporto da Los Angeles alla Val di Susa ma anche per mescolare alto e basso – qui sta la ricetta vera che lui tiene in serbo gelosamente: un terzo di narrativa pesante, un terzo di cazzeggio pop televisivo, un terzo di militanza e una spruzzatina di lime. Shakerare bene, servire freddo.

Perché il teletrasporto non è cazzeggio ma un progetto politico, è la riduzione della distanza – distanza politica, mica chilometrica, mica tra mondi, come la tana del coniglio – tra una lotta, un conflitto, una questione sociale e una sensibilità. Il teletrasporto, l’Enterprise, a questo serve: a sentire fratelli chi lotta in Val di Susa, a stare lì come si fosse qui, a stare qui come si fosse lì, a stare assieme. Il teletrasporto è la militanza politica a chilometro zero.

La militanza – quanno ce vo’ ce vo’ – non è la rigida e severa seriosità dei gruppettari, non è lo sconsolato prendere atto che a una manifestazione ci sono “almeno 20-21 gruppi che si definiscono partito comunista di sinistra, partito comunista ancora più a sinistra, partito comunista rivoluzionario, partito comunista super rivoluzionario, partito comunista più a sinistra di tutti...”: no, finta, scarto, tacco, rabona, tutto il repertorio dei campioni: “Cazzo! È pieno di frattaglie leniniste!” – quanno ce vo’ ce vo’. Ecco la militanza. La ritrovi quando può citarti, con più raffinatezza, un’altra fiction televisiva, Breaking Bed, col professore di chimica che fabbrica e distribuisce anfetamine per raggranellare un po’ di dindi, questo è l’antilavorismo del Duka, chi glielo spiega alle frattaglie leniniste – quanno ce vo’ ce vo’.

Nell’Armata a cavallo di Babel, quando la Cavalleria rossa di Budionny arriva a liberare lo shtetl dalla controrivoluzione dell’Armata bianca che aveva massacrato il villaggio e fucila un po’ di gente in nome della rivoluzione, Gedali l’ebreo dice che capisce la differenza tra una carabina e l’altra ma vorrebbe la gioia, che rivoluzione è se non c’è la gioia. E siccome è sabato, Gedali non può rinunciare alla sinagoga, e là va a pregare. Rivoluzione o meno. Ecco, il Duka, ci fosse pure l’Armata a cavallo per le strade di San Lorenzo, non rinuncerebbe ad andare alla radio, perché è sabato, e c’è il Sego e Attila che aspettano, e gli ascoltatori pronti a salire sull’Enterprise, è giorno del Tacco.