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Prefazione – “Il tacco del duka”

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di ELIO GERMANO

Sono entrato in contatto prima con Roma k.o., attraverso fogli sparsi che giravano clandestini sotto qualche ascella di persone per bene che agitano il malcontento di questa città. C’era dentro qualcosa di grosso, qualcosa di nostro, che c’era presa la voglia di aiutare a diffondere dappertutto perché nessuno l’aveva mai raccontato così. E faceva veramente ridere. Volevamo farne un film. Avevamo dato il nostro “sangue” (la morte non esiste) e avevamo ancora voglia di scombinare il cinema italiano con qualcosa in cui riconoscersi, qualcosa di carne, fuori da qualsiasi confezione.

Poi ho incontrato il Duka in carne e occhiali. L’occasione fu una preliminare riunione clandestina tra giovani cinematografari eversivi appunto, in un bunker di San Lorenzo che in quel momento era casa di Fuffy. Oltre la serranda a mezz’asta che faceva da porta, un nugolo di facinorosi riuniti a semicerchio su sottofondo di tanti auguri a te in tutte le lingue dai compleanni di tutto il mondo che andavano a loop da un YouTube esploso alle mode da poco. Il Duka si preparava a leggere degli estratti dal libro. Una messa pagana. Tutto intorno a noi, una serie di girandole, tric e trac e petardi terroristici inchiodati alle pareti di questo ex garage cantina di venti metri quadri adibito a monolocale, aspettavano la mezzanotte per chiudere spettacolarmente la lettura e festeggiare il compleanno di Francesco. Eravamo tutti in pericolo. Proiettati dalle parole veloci del Duka che leggeva ci siamo persi nel silenzio dei nostri immaginari. Le scene del film lisergico che ciascuno aveva in mente prendevano forma. Ricordo chiaro quest’attimo di possibilità.

Di lì a poco un capodanno indoor fuori stagione sarebbe stato sul punto di bruciare la grotta con tutti i nostri progetti dentro, fumo e fuoco ovunque, come fossimo tutti parte di un grande documento segreto da far sparire, che manco l’ispettore Gadget. Non si capisce come, ci siamo ritrovati per strada, tra colpi di tosse e respirazioni bocca a bocca, facendo cenno ai vicini in vestaglia allarmati di rientrare a casa, non era successo niente, quel post piazza Fontana alle nostre spalle era soltanto il postumo di un compleanno, succede, non s’erano spente bene le candeline.

In realtà non ho mai capito bene cosa sia successo. Era però chiaro che avremmo fatto un film incredibile, il materiale era forte ed eravamo una compagnia esplosiva.

Era altrettanto chiaro che non avremmo mai trovato i soldi per farlo. Facevamo giustamente paura.

Per non dare nell’occhio abbiamo deciso di non incontrarci più tutti insieme, ci saremmo rincontrati in ordine sparso e casuale. Tra lavori, cortei, suboccupazioni, nascite di figli. Situazioni.

Col Duka infatti poi è capitato di rincontrarci spesso, facendo finta di niente ovviamente, per ingannare i controlli del “mondo che non ci piace” che ci scruta per carpire i nostri segreti sogni eversivi. Ma i nostri occhi sanno, basta ritrovarci ogni tanto, non serve dire niente. Stiamo sopportando tutto questo solo perché non è ancora arrivato il momento, ma ce la faremo, ci ritroveremo tutti insieme e diremo tutto in modo chiaro, e allora saranno veramente cazzi loro.

Forse, segretamente anche a me stesso, mi connetto tutti i sabati alla trasmissione proprio per cercare di decifrare criptosegnali in codice dietro le parole del Tacco del Duka, per individuare la data di eventuali altri appuntamenti teknomassonici che preparino alla grande insurrezione culturale. Ho provato anche a riascoltare il podcast al contrario, è uscita fuori una canzone dei Beatles, non so come interpretare la cosa.

Il Tacco del Duka. Arriviamo al dunque.

La prendo larga: da quando sono piccolo, forse colpito da un calendario storico di Radio Onda Rossa appeso a qualche armadio di Corviale, ho sempre avuto una sola radio di riferimento. Una radio che mi assomigliava, per la sua scompostezza, per la sincerità, per la caciara, per il mondo che raccontava, quello che non ti raccontava nessuno. Mai omologata a niente, di testa sua. Di lotta. E se gli facevi uno squillo magari ti rimettevano pure la canzone da capo, così te la potevi registrare sulla cassetta. Ne sono ancora fortemente dipendente. Quel segnale che disturba è ancora oggi uno dei miei punti di riferimento. Lo stesso spirito di sempre, lo stesso veleno, poca forma, dritta, ostinata, sempre senza una lira ma sempre senza pubblicità, senza padroni, capocciona. Sì, lo ammetto, sono un adepto.

Ho tre programmi irrinunciabili, su tutti. Lo dico con una certa gelosia. L’ora di religione, Visionari, e Daje pure te. Dovunque mi trovo, quando vanno in onda, devo sintonizzarmi su 87.9.

Ora il caso vuole che da un po’ di tempo a questa parte, all’interno dell’ultima delle tre trasmissioni citate, in onda tutti i sabati primo pomeriggio, tra un pezzo e l’altro di reggae sempre fresco, tra una discussione e l’altra der Sego maestro di vita, con super Attila e baba Lampa Dread, che è come fossero ormai amici miei, tra un aggiornamento e l’altro dalla manifestazione settimanale, ecco con mia sorpresa arrivare la nuova rubrica: il Tacco del Duka. A ’na certa ora, immancabile, parte il collegamento.

Il Duka si collega come un vero inviato più o meno da dove si trova a casaccio e dice la sua.

Confonde un po’ le carte ma sotto sotto dice la sua sul fatto del giorno, o della settimana, o dell’anno, dice la sua su quello che je pare alla fine. Non si capisce dov’è, non si capisce cosa è vero, non si capisce bene la direzione, ma il Tacco parte. Alla maniera sua con la voce sua e le parole sue. Un reporter fuori bolla in diretta dal mondo al contrario che subiamo tutti i giorni.

Nel mio palinsesto settimanale è ormai un evento molto atteso e mi vanto con gli amici che lo conosco.

Cosa mai voglia dire Tacco non l’ho mai capito e non voglio scoprirlo, nemmeno adesso che mi trovo a scriverne la prefazione alla raccolta. Col Duka bisogna sempre mantenere del mistero.

Probabilmente sarà un termine tecnico giornalistico, tipo il coccodrillo o il fondo, la spalla. Se c’è la spalla ci sarà pure il tacco. Comunque l’ho sempre immaginato a modo mio come nel senso di un colpo basso, scomodo, inavvertito. Sarà perché almeno per strada il tacco è una cosa così, mezza infame ma risolutiva. Può arrivare agli stinchi o dove fa ancora più male e sempre da qualcuno di spalle. E toglie il fiato, ti lascia un attimo così che non capisci. È il retro della questione, la parte che non t’aspetti. E pure nel gioco del calcio, è un colpo matto, non lo controlli, la palla parte di spizzo, senza guardare, è una provocazione. Tutto istinto. Una cosa che mette a nudo chi lo fa e lascia in mutande chi lo subisce. Se sbagli ti odia la squadra intera. Sennò manda la palla dove non ti immagini e lascia tutti a bocca aperta. Ti costringe a vedere le cose da un altro punto di vista.

E poi è una cosa che non ti puoi trattenere. Il fuoriclasse non si trattiene, gli scappa.

E si vede che gli scappa il tacco al Duka, te lo snocciola sempre tutto d’un fiato, è uno sfogo. sembra che poi riprenda aria e si immerga nella vita senza parlare più fino alla settimana prossima.

Sempre surreale e imprevedibile come la vita vera, sempre parallelo ma sempre dentro tutto, sempre facinoroso, come ci piace, sempre orgogliosamente inadeguato, sempre slacciato.

E il risultato è sempre che ti ritrovi a ridere ma non ti ricordi più perché, non sai se l’hai sentito o te lo sei sognato, non sai se era scritto o era improvvisato, non sai cos’era.

Per un attimo quando finisce rimane un po’ d’eco. Passa quella balla di fieno in cui pensi al senso della vita.

È sbeffeggiatamente minatorio.

È un tacco vero, un colpo all’attacco travestito da sbaglio su sottofondo di confusione.

Un innesco. Una miccia.

Adesso comincio a capire qualcosa su quella sera a San Lorenzo.

Ora leggersi i Tacchi da soli non sarà ahimè la stessa cosa, ma questo forse in una prefazione al cartaceo è bene non dirlo. Fate conto che non l’ho detto. Poi magari non è nemmeno così, magari vedendo tutto bello scritto e riportato si potrà leggere meglio tra le righe, capire meglio il mistero, sguinzagliare la dietrologia, magari affidando a ogni lettera un numero o mettendo in fila le iniziali di tutti i capoversi, ne verrà fuori una massima di Mao Tse Tung, o il contatto per il prossimo rave illegale, o la soluzione delle soluzioni, totale e definitiva.

Qualunque sia il vostro grado di connessione a certo movimento esoterico sovversivo sotterraneo romano, allacciate le cinture e fate buon viaggio.

E visto che ci siete, senza sapere né leggere né scrivere, prestate bene attenzione a cosa e chi avete attorno quando vi accingete. Non si capisce come ma qualcosa dietro o dentro di voi potrebbe esplodere da un momento all’altro.