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Linee dello sviluppo economico in Medio Oriente e Nord Africa. Una prospettiva storica

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di MASSIMILIANO TRENTIN

Questo saggio intende ricostruire alcuni dei processi di sviluppo economico che hanno contraddistinto l’ultimo decennio del Medio Oriente e Nord Africa, nel corso del quale si sono formati i soggetti sociali e politici che hanno dato vita alla stagione di mobilitazioni e di conflitti iniziata nel dicembre 2010 in Tunisia. L’economia di per sé non riesce a spiegare le rivolte nel mondo arabo. Tuttavia è certo che le riforme che avrebbero dovuto liberalizzare i mercati, favorire la competitività delle imprese e la loro integrazione internazionale, hanno in realtà consolidato le posizioni di potere una élite sempre più ristretta legata a doppio filo ai vertici politici e militari dei regimi. Con la garanzia dello stato e l’avvallo delle organizzazioni economiche internazionali, si è giunti alla costruzione di veri e propri oligopoli nei settori energetici, immobiliari, finanziari e del turismo che si sono accaparrati tutti i frutti dello sviluppo. Crescita del Pil, diversificazione delle relazioni economiche internazionali e leadership delle monarchie del Golfo hanno radicalizzato i processi di espropriazione del mondo contadino, operaio ed impiegatizio in atto da almeno tre decenni ed hanno risposto alle sfide della transizione demografica con la crescita del lavoro informale e della disoccupazione[1]. L’impatto della crisi economica globale nel 2008 e 2009 non ha fatto altro che accelerare ulteriormente tali processi.

La diffusione così veloce e di massa delle rivolte testimonia che anche il Medio Oriente e il Nord Africa hanno conosciuto quei percorsi di sviluppo “per espropriazione”, già in atto da diversi decenni a livello globale[2]. E tuttavia lo sviluppo della crisi politica ha dimostrato anche la capacità dei subalterni di non restare schiacciati nei processi di esclusione, utilizzando le competenze professionali, tecnologiche e relazionali acquisite per trasformare le proprie società in nome della “karama”: dignità, intesa come realizzazione e riconoscimento della libertà e della giustizia, anche economica.

Se questo sviluppo ha dimostrato le potenzialità dei soggetti del cambiamento, ancora confuse e disorganizzate sono tuttavia le forze che intendono spingere le trasformazioni in corso nella direzione di un possibile “superamento” degli attuali modelli di sviluppo. Lo stallo costituzionale in Tunisia, il colpo di stato in Egitto, la guerra in Siria sono il segno di una lotta tra vecchie e nuove classi dirigenti, in questo caso islamiste, per il controllo delle istituzioni che hanno garantito i recenti processi di sviluppo. La difficoltà di superare l’impasse attuale deriva, forse, anche dal fatto che nessuna delle forze organizzate si è fatta ancora promotrice di un’alternativa alle politiche finora attuate. Ma questa, bisogna aggiungere, è una caratteristica che, oltre il Medio Oriente e il Nord Africa, riguarda l’intero bacino del Mediterraneo.

La crescita economica in Medio Oriente e in Nord Africa

I governi dei Paesi mena (Middle East and North Africa) sono parte integrante e attiva di un mondo globalizzato: non solo in virtù delle connessioni energetiche, finanziarie e comunicative e, purtroppo, dei conflitti armati, ma anche per quanto riguarda i processi di sviluppo economico. Ciò, a dispetto di tutte le posizioni che reclamano l’incompatibilità strutturale e teorica tra Islam (religione maggioritaria) e capitalismo (inteso come capitalismo di libero mercato)[3]. Tra il 2000 e il 2010 i Paesi mena hanno vissuto una crescita della ricchezza nazionale che non registravano ormai da decenni: il Pil aggregato dei mena è, infatti, cresciuto ad una media del 4-5 per cento l’anno[4]. Nonostante la crisi globale abbia colpito duramente la regione nel 2009, la ripresa del 2010 sembrava confermare il percorso di crescita del decennio appena trascorso. Tali percentuali sono ancor più significative poiché hanno coinvolto anche i Paesi non esportatori di energia: anzi questi ultimi hanno beneficiato di maggiore stabilità nella crescita. Infatti, durante la crisi del 2009 la diminuzione del Pil di questi Paesi è stata decisamente più contenuta rispetto agli esportatori di energia. Una parte rilevante di questo aumento di reddito aggregato è stata investita nella creazione di nuovo capitale fisso (impianti, macchinari, costruzioni), il cui tasso di crescita è salito dal 2 al 14 per cento per tutta la regione, e dallo 0,5 al 12 per cento per i pvs[5]. Oltre a quello energetico, altri settori trainanti sono stati il commercio internazionale, le attività finanziarie, il turismo e l’edilizia. Al contrario, il settore industriale-manifatturiero e soprattutto il settore agricolo hanno diminuito il loro contributo al reddito nazionale: tra il 10 e il 12 per cento del Pil nei Paesi mena non esportatori di energia[6].

L’esportazione di petrolio e gas costituisce ancor oggi la base dei processi di accumulazione nella regione e il recente decennio di crescita è stato sostenuto dall’aumento costante del prezzo del petrolio: da 35 US$ a 100 US$ tra il 2000 e il 2011, e tutte le organizzazioni internazionali prevedono nei prossimi anni prezzi stabili nella forbice tra gli 80-100 US$ al barile. Anche i prezzi del gas si sono mantenuti su valori stabili tali da permettere l’accumulo di riserve monetarie da parte dei Paesi esportatori[7]. Oltre alla domanda internazionale di energia, la regione mena ha incrementato di oltre un terzo il consumo interno: da 5.111 a 8.076 migliaia di barili di petrolio al giorno nel decennio 2000-2010, espressione questa della crescita anche dei consumi industriali e per i trasporti[8].

I Paesi mena sono anche riusciti ad attrarre quote crescenti di investimenti diretti esteri (ide) provenienti sia dalle ricche monarchie arabe del Golfo sia da investitori esterni all’area. Secondo i dati forniti dall’unctad, gli investimenti diretti esteri in entrata in Medio Oriente (qui Mashreq e Golfo) sono passati da 3,6 a 48,6 miliardi di US$ nel 2000-2011. I Paesi del Nord Africa partivano da 2,9 miliardi per poi attestarsi a 7,6 miliardi US$ nello stesso periodo. Altrettanto rilevante è l’andamento dei flussi di investimento in uscita dalla regione, poiché mostra come i Paesi arabi del Golfo e i loro fondi sovrani (Sovereign Funds) siano diventati sempre più protagonisti di primo piano dei flussi di investimento internazionali. Gli investimenti diretti esteri del Medio Oriente sono passati da 2,9 a 25,3 miliardi US$ tra il 2000 e il 2011. In Nord Africa, invece, gli investimenti diretti in uscita si sono attestati attorno al miliardo US$, concentrandosi per lo più in Libia dove l’allora leader Mu’ammar Gheddafi investì sistematicamente i proventi derivanti dalla vendita del greggio in Africa e poi in Europa non appena normalizzò le proprie relazioni con i Paesi occidentali nel 2004[9].

Con riferimento al solo bacino meridionale e orientale del Mediterraneo, l’osservatorio sugli investimenti esteri anima-mipo ha registrato tra il 2006 e il 2008 il più alto incremento di ide progettati e realizzati: i due terzi provengono da multinazionali o da grandi imprese, mentre le pmi seguono da lontano le strade già aperte dai primi[10]. La maggior parte degli investimenti diretti europei si concentra in Turchia, Marocco e Tunisia nei settori delle telecomunicazioni, del credito e della grande distribuzione commerciale. Sempre europea è la gran parte dei progetti di partnership con aziende locali, secondo i modelli del franchising, degli accordi di sviluppo e rappresentanza, e solo in minima parte prevedono processi di trasferimento tecnologico significativi. America del Nord e Golfo seguono a distanza le stesse modalità. Stati Uniti d’America e Canada concentrano gli investimenti diretti esteri per lo più nel settore energetico (Algeria, Egitto, Turchia e più recentemente in Libia) e nelle tecnologie avanzate (Israele). Infine, ma non per importanza, gli investitori dei Paesi arabi del Golfo si sono focalizzati anzitutto in Libano, Siria ed Egitto, per poi spostarsi in Marocco e Tunisia. Sono gli investimenti diretti europei e del Golfo ad aver alimentato in primis lo sviluppo del settore immobiliare e dei servizi legati al turismo internazionale, sia di lusso sia di massa, nelle coste della Turchia, del Libano, dell’Egitto come della Tunisia e del Marocco. Per quanto riguarda, invece, le produzioni e i servizi hi-tech, Israele mantiene la leadership, mentre seguono da lontano i centri urbani della costa libanese, Istanbul e i distretti di Tunisi e Casablanca.

Storicamente la maggior parte degli investimenti diretti esteri nella regione si è concentrata nel settore energetico, con l’eccezione della manifattura in Turchia e delle tecnologie avanzate in Israele. Da questo punto di vista non vi è stata alcuna tigre mediorientale sull’esempio dei Paesi dell’Asia orientale, dove i percorsi di sviluppo agro-industriale interni si sono integrati nella frammentazione dei processi produttivi delle società industriali e hanno avuto accesso ai grandi mercati di consumo del Nord America prima e dell’Europa poi[11]. Le motivazioni tradizionali per cui i Paesi mena sono rimasti ai margini delle ristrutturazioni produttive globali sono state l’instabilità politica della regione a causa dei conflitti armati e l’insicurezza che ne derivava per le attività economiche a carattere civile; la legislazione protezionista che difendeva i produttori locali e limitava la libertà d’impresa dell’investitore straniero; il limite al rimpatrio della totalità dei profitti realizzati; la carenza di infrastrutture logistiche e di trasporto efficienti che garantissero un’elevata mobilità delle merci. A ciò si aggiungeva il fattore fondamentale della forza-lavoro, particolarmente nei Paesi arabi, i cui bassi salari non compensavano la bassa produttività, almeno in comparazione con i Paesi dell’Asia orientale. I dati registrati nell’ultimo decennio sembrano, invece, porre fine alla marginalità della regione rispetto ai flussi internazionali di investimenti esteri. Come i report della Banca Mondiale e del fmi acclamavano, i Paesi mena nell’ultimo decennio hanno applicato gradualmente ma con costanza quelle riforme che li hanno resi “attraenti” agli occhi degli investitori stranieri: la regione aveva imboccato la direzione “giusta”[12].

La diversificazione delle relazioni economiche internazionali

Di questo periodo di crescita due sono gli aspetti che risultano particolarmente interessanti sia per il loro carattere innovativo se confrontati con i decenni precedenti sia per le conseguenze politiche che possono avere nelle trasformazioni oggi in atto: la diversificazione delle relazioni economiche internazionali e la leadership svolta dai Paesi arabi del Golfo.

I Paesi del Medio Oriente e Nord Africa sono tradizionalmente legati dal punto di visto economico, politico e strategico agli stati e ai mercati industriali, anzitutto occidentali. In epoca industriale i rapporti di scambio, cooperazione e conflitto con i Paesi europei risalgono quantomeno all’Impero Ottomano e all’esperienza coloniale. La fase postcoloniale successiva alla Seconda Guerra Mondiale vide la sostanziale continuità della preminenza commerciale e industriale europea, occidentale, a cui seguì dalla fine degli anni Settanta il legame con le Comunità europee e poi Unione Europea. A partire dagli anni Trenta del xx secolo, i Paesi mena si legarono agli Stati Uniti d’America essenzialmente per quanto riguarda le questioni energetiche e di sicurezza, mentre gli stati socialisti intervennero nella regione nelle questioni attinenti alla sicurezza e alla cooperazione industriale e agricola[13]. Sia nella fase coloniale sia in quella postcoloniale, le relazioni economiche tra la regione mena e gli altri Paesi in via di sviluppo rimasero sempre secondarie rispetto ai rapporti con le economie industriali del “Nord”: i proclami di solidarietà afro-asiatica o antimperialista dalla Conferenza di Bandung nel 1955 in poi non riuscirono a tradursi in volumi di scambio alternativi ai flussi Nord-Sud. I boom petroliferi dei lunghi anni Settanta (1969-1986) rinvigorirono le relazioni tra i Paesi occidentali e quelli mena: i Paesi produttori di energia diventarono ora anche esportatori di capitali e partner dei processi di finanziarizzazione dell’economia internazionale[14]. La spirale del debito e i dolorosi piani di aggiustamento strutturale degli anni Ottanta e Novanta consolidarono anch’essi la centralità del rapporto Nord-Sud, sebbene i processi di accumulazione si basassero ora sempre più sull’“espropriazione” delle classi popolari più che sull’inclusione e formazione di nuove classi medie: i partiti nazionalisti al potere dagli anni cinquanta e sessanta abbandonarono i propri referenti popolari delle zone rurali, di provincia e di periferia a favore dell’alleanza con gli intermediari commerciali, i finanzieri, e in parte minore gli industriali dei grandi centri urbani[15].

Ancor oggi, i Paesi europei e il Nord America rappresentano dei partner strategici per i Paesi mena. Tuttavia, dal 2000 in poi sono i Paesi asiatici e i mercati legati a Cina ed India a vedere crescere in modo esponenziale le proprie relazioni economiche con i Paesi mena. L’evoluzione delle quote regionali nell’interscambio commerciale del Medio Oriente e Nord Africa mostra come le esportazioni verso i Paesi europei ed Asia centrale (i Paesi ex socialisti) sono passate dal 4-7 per cento nel 1960-1985 al 2,5 per cento nell’ultimo decennio. Anche le importazioni dei Paesi mena dall’Europa sono calate costantemente dal 6 al 2 per cento nel 1960-2011, con l’eccezione degli anni Settanta in cui l’acquisto di macchinari e beni di consumo crebbe temporaneamente grazie alla disponibilità dei petrodollari: il terzo boom dell’ultimo decennio non ha, invece, incrementato in modo simile l’interscambio con l’Europa[16]. I mercati del Nord America (Stati Uniti e Canada) rimangono tradizionalmente marginali nelle esportazioni ed importazioni dei Paesi mena: sempre attestati attorno al 2 per cento, solo nel 1979 l’import ed export aumentarono rispettivamente fino al 4 e al 6,3 per cento. Anche l’interscambio commerciale con i Paesi dell’America Latina è rimasto sempre marginale, tra l’uno e il 3 per cento per le esportazioni e le importazioni dei mena. Di segno esattamente contrario, invece, è l’andamento dell’interscambio con i Paesi dell’Asia Orientale. Le esportazioni del Medio Oriente e Nord Africa sono aumentate dal 2 per cento nel periodo 1960-1992 fino all’11 per cento nel 2011; le importazioni dai mena dallo 0,5 per cento nel 1960-1986 fino al 12,8 nel 2011. L’interscambio tra il Medio Oriente e Nord Africa e l’Asia meridionale mostra anch’esso un’ascesa spettacolare ma il suo andamento ciclico risulta tuttavia più instabile rispetto ai vicini orientali.

Petrolio, gas e loro derivati restano il principale bene di esportazione del Medio Oriente e Nord Africa. Questi hanno favorito lo sviluppo laddove i capitali a disposizione hanno permesso la diversificazione delle attività economiche: se negli anni Sessanta e Settanta le autorità concentrarono gli investimenti sulla produzione industriale, negli anni Duemila hanno puntato sul commercio internazionale, sulla finanza e solo marginalmente sull’industria[17]. Infatti, i proventi della vendita sono stati utilizzati di recente anche per costruire nuove piattaforme commerciali, logistiche e finanziarie come Dubai, Abu Dhabi, Suez, Port Said, Tangeri e Casablanca, che hanno acquisito una vitalità economica relativamente autonoma rispetto ai mercati energetici. Nel primo decennio degli anni duemila, tra lo stretto di Gibilterra e il Canale di Suez è transitato, infatti, il 30 per cento del traffico mondiale di containers: la posizione centrale nelle rotte degli scambi internazionali, l’aumento dei prezzi dei combustibili e dei costi di assicurazione contro i rischi della “pirateria” nell’Oceano Indiano hanno facilitato lo sviluppo delle zone industriali a ridosso dei porti, che si sono così specializzati nella lavorazione ultima e nello stoccaggio delle merci asiatiche destinate sia ai mercati europei sia a quelli locali. La maggior parte di queste attività si è concentrata all’interno di Free Trade Zones o Qualified Industrial Zones, esenti da imposte doganali e dalle attività sindacali.

Ritorna dunque in auge quel ruolo di piattaforma commerciale e di porta-girevole che il Medio Oriente e il Nord Africa hanno svolto nei secoli nelle direttrici economiche Est-Ovest e Nord-Sud. Questa posizione geografica favorisce una peculiarità delle economie dell’area: ossia, la centralità dello scambio rispetto alla produzione (l’économie de circulation). Le grandi ricchezze si accumularono, infatti, grazie all’intermediazione commerciale di lunga e media distanza ancor prima che nella produzione di merci per l’esportazione[18]. La produzione di petrolio e gas per consumi industriali e di massa, costituisce, in effetti, una “novità” di poco più di un secolo nella storia del Medio Oriente e del Nord Africa; nuove “merci” che hanno imposto forti accelerazioni e crolli repentini dello sviluppo delle capacità produttive della regione, come dimostrato dai primi due boom petroliferi del 1973 e 1979. Infatti, il settore industriale e quello manifatturiero, i cui investimenti in macchinari e formazione di mano d’opera possono richiedere tempi medio-lunghi, hanno risentito negativamente dei cicli più veloci dei mercati energetici, della preferenza delle classi dirigenti mediorientali per l’importazione dall’estero di beni capitali e di consumo, nonché dell’inflazione importata con questi ultimi[19]. Inoltre, la cosiddetta “economia di rendita” basata su petrolio e gas garantiva alle autorità politiche centrali un controllo monopolistico delle risorse nazionali e dei connessi canali di distribuzione del reddito.

La recente apertura commerciale dei mercati nazionali ha favorito l’ascesa di nuove figure imprenditoriali, spesso sul crinale tra posizioni pubbliche e private che, in Egitto, Siria, Tunisia o Marocco hanno ricostituito su basi private e oligopolistiche i monopoli statali in via di privatizzazione: anche in questo caso si trattava di settori particolari quali la grande distribuzione commerciale, la distribuzione di energia elettrica e di acqua potabile, la produzione di cemento, le telecomunicazioni, il turismo e i servizi collegati. Al contrario, le piccole e medie imprese che producevano beni di consumo a basso valore aggiunto ma che occupavano la maggior parte della forza-lavoro hanno sofferto duramente la competizione delle merci asiatiche. Da qui le accuse ai regimi da parte sia delle associazioni padronali sia dei sindacati di categoria di aver “abbandonato” questi settori produttivi e di non averli sostenuti nella loro riorganizzazione produttiva a favore, invece, di pochi altri soggetti ben “connessi”[20].

Regionalizzazione e Dubai Consensus

Per ricostruire i percorsi, i protagonisti e i caratteri che hanno sostenuto un tale ciclo di sviluppo occorre focalizzarsi sull’aumento dell’interscambio tra i Paesi mena. Tra il 2000 e il 2010 i volumi del commercio al loro interno sono cresciuti di circa il doppio: dal 3 al 6,6 per cento, per le esportazioni, e dal 3,4 al 5,1 per cento per le importazioni[21].

I processi di trasformazione economica e riforma istituzionale nella regione mena sono stati capeggiati, promossi e sostenuti in particolare da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Grazie al rialzo dei prezzi dell’energia, tra il 2002 e il 2011 i Paesi mena esportatori di energia hanno potuto accumulare ingenti surplus finanziari: 4430 miliardi di US$, di cui 3340 sono stati spesi per le importazioni di beni e servizi. Dei 1605 miliardi di US$ di surplus della Bilancia dei Pagamenti, 901 miliardi sono stati depositati come riserve nelle rispettive Banche centrali e ben 820 miliardi US$ investiti all’estero[22]. Una parte ingente di questi proventi sono stati usati per l’acquisto di beni e servizi esteri così come per l’acquisto di titoli del debito statunitense ed europei. Questo significa che i petrodollari sono stati “iniettati” nell’economia internazionale a sostegno diretto (importazione) e indiretto (debito statale) dei livelli di produzione e consumo delle economie industriali, sia occidentali sia dei Paesi emergenti. Rispetto ai boom petroliferi precedenti, una parte ingente di questi investimenti è, però, rimasta nella regione mena: ossia, è stata usata per sostenere la crescita economica sia dei Paesi produttori sia dei Paesi non produttori di energia[23]. Di particolare interesse è stato lo sviluppo della cosiddetta economia e finanza “islamica”: sebbene ancora minoritaria rispetto agli operatori standard, la finanza islamica ha accelerato notevolmente la propria diffusione nei centri del Golfo e dei Paesi mena, con il conseguente affinamento dei propri strumenti finanziari[24].

Anche per quanto riguarda gli Aiuti allo Sviluppo (Official Development Aid, oda), i Paesi del Golfo hanno visto aumentare i propri contributi. Partendo da livelli piuttosto contenuti, il totale degli aiuti allo sviluppo nell’area mena è aumentato in modo vertiginoso: dai 7 miliardi US$ nel 2000, raggiungono le vette di 31,8 nel 2005 e 23,7 nel 2008, per poi attestarsi a 14,7 miliardi US$ nel 2011. La maggior parte degli aiuti proviene ancora dai Paesi membri del dac (Development Assistance Committee) dell’ocse, e in seconda battuta dalle Organizzazioni Economiche Internazionali, quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, soprattutto per il biennio 2000-2001. Per quanto la loro contabilità sia poco trasparente, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Turchia hanno aumentato la loro quota in modo costante fino a 5,6 miliardi nel 2008; la crisi del 2009 ha visto diminuire in generale i contributi a cui, però, è seguito un aumento significativo in occasione delle rivolte nel 2011 e nelle fasi di crisi successive. Ormai gli aiuti allo sviluppo di questi Paesi del Golfo hanno raggiunto quelli dei Paesi dac. Motore principale di questo processo rimane l’Arabia Saudita[25].

Un caso particolare è quello della Turchia governata dal partito islamista akp. La base produttiva industriale e manifatturiera della parte occidentale del Paese è orientata tradizionalmente verso i mercati europei. L’ascesa commerciale e politica delle regione produttive dell’interno anatolico, invece, ha penetrato i mercati del mondo arabo e dell’Iran, sostenendo la cosiddetta politica “neo-ottomana” e dei “zero problemi” con i Paesi vicini promossa dal governo islamista. In questo caso, dunque, sono state le esigenze di espansione commerciale a sostenere i processi di liberalizzazione e integrazione con i mercati arabi, e soprattutto siriani ed iracheni. L’ascesa turca ha comunque beneficiato dell’appoggio dei Paesi del Golfo, e del Qatar in particolare, il quale ha riconosciuto in Ankara il partner industriale, militare e diplomatico adatto a promuovere l’accesso del proprio gas verso il Mediterraneo e i mercati europei[26].

Nei decenni passati, i tentativi di integrazione economica tra Paesi arabi sono falliti, o non hanno avuto il successo sperato, perché le economie nazionali dei Paesi medio orientali e nord africani scontavano lo sviluppo speculare e non complementare delle proprie economie. Il loro carattere inward-looking, cioè orientato al soddisfacimento delle esigenze produttive e di consumo delle singole società e mercati nazionali, favorì la duplicazione delle strutture produttive piuttosto che la loro integrazione. Durante il primo e il secondo boom petrolifero degli anni Settanta, lo scambio di forza-lavoro e capitali tra i Paesi esportatori di energia, spesso poco popolosi, e i Paesi nazionalisti con una popolazione in rapida crescita ed istruita costituì un primo caso di integrazione. Tuttavia, permase il carattere inward-looking o diretto all’esportazione verso i mercati europei o nordamericani, ma non regionali[27].

Il terzo boom petrolifero ha favorito, invece, un graduale ma costante sviluppo dell’integrazione dei diversi mercati nazionali attraverso l’interscambio di capitali e lavoro nei settori dei servizi, del credito e del commercio. Per beneficiare degli investimenti e della rendita di questi flussi di capitali, la maggior parte delle autorità dei Paesi mena ha dovuto procedere alla riforma delle proprie politiche economiche nella direzione di una maggiore apertura commerciale e finanziaria[28]. La formula “Dubai Consensus” indica l’adozione consensuale da parte dei governi del Medio Oriente e Nord Africa di politiche di stampo neoliberista volte a favorire l’integrazione globale e la competitività, e sperimentate con successo a Dubai: riduzione dei dazi doganali, deregolamentazione delle attività commerciali, finanziarie e di credito, sostegno all’imprenditoria privata, liberalizzazioni e privatizzazioni[29]. In tale contesto, hanno giocato un ruolo di primo piano le diaspore egiziane, libanesi o siriane che, una volta accumulati ingenti capitali nei Paesi esportatori, hanno investito direttamente nei Paesi di origine o, grazie alle relazioni con i decision-makers del Golfo, hanno garantito nuovi flussi di investimento[30]. Ciò ha favorito sicuramente la diversificazione economica, ma ne ha condizionato altresì i caratteri. Infatti, gli investitori e i manager del Golfo hanno investito e sostenuto maggiormente la crescita di quelle attività che hanno contraddistinto il successo economico del Golfo nell’ultimo decennio, e di cui hanno maggior esperienza e capacità gestionale: il settore energetico, il commercio, le Information Technologies, il settore bancario e finanziario, il settore immobiliare, il settore del turismo di lusso[31].

Seppur ancora limitati a confronto con Europa, Asia orientale o America del Sud, l’integrazione regionale e la diversificazione delle attività interessate segnano comunque un passaggio rilevante nella storia recente della regione e si iscrivono nelle tendenze alla regionalizzazione delle economie già in atto Europa prima e in Asia e nelle Americhe poi.[32]. A differenza dell’Asia orientale, però, i settori e i soggetti trainanti dell’integrazione sono più marcatamente caratterizzati da forte liquidità ed alti profitti; sono settori che creano occupazione piuttosto limitata, si caratterizzano per alti tassi di turn-over, flessibilità salariale e, con alcune eccezioni, non richiedono formazione professionale elevata.

L’altra faccia della medaglia: lavoro e migrazioni

I processi di crescita mettono in moto trasformazioni sociali le quali generalmente generano nuovi soggetti che possono essere protagonisti di nuovi conflitti e nuovi equilibri politici. Uno dei fenomeni di maggior portata dell’ultimo decennio è stato l’incapacità di creare posti di lavoro sufficienti ad assorbire l’entrata in età lavorativa delle generazioni nate durante il boom demografico degli anni Settanta e Ottanta del xx secolo. La disoccupazione rimane, infatti, un aspetto strutturale delle economie e delle società dei Paesi mediorientali e nordafricani. Tuttavia, non tutte le aree sono state colpite in modo eguale perché i processi di crescita, diversificazione ed integrazione regionale hanno costruito una nuova geografia dell’occupazione: le aree rurali e di provincia, le periferie delle città di medie e grandi dimensioni, la generazione dei ventenni e trentenni sono i territori e gli strati sociali marginalizzati dai flussi di ricchezza e che hanno sperimentato un netto deterioramento delle proprie condizioni materiali di vita.

La disoccupazione di breve e lunga durata rimane un aspetto strutturale delle economie dei Paesi mena. Sebbene sottostimate, le statistiche ufficiali dei Paesi mena mostravano come già nel 2004, la disoccupazione si attestasse al 20 per cento in Algeria, 15 in Tunisia e 12 per cento in Marocco, Siria e Egitto[33]. Tuttavia, le tensioni tra demografia e mercato del lavoro sono registrate meglio dal Tasso di Attività Economica (tea) dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro che analizza la percentuale della popolazione presente sul mercato del lavoro (occupata o in cerca di lavoro) rispetto alla popolazione in età lavorativa: nel 2005 la Siria registrava il 63 per cento a fronte del 58 in Algeria, 55 in Libano e Tunisia, 54 in Marocco e 47 in Egitto. Questi livelli di partecipazione al mercato del lavoro sono decisamente inferiori rispetto ad altre regioni del mondo e il tasso di partecipazione femminile è tra i più bassi in assoluto: tra il 20 e il 30 per cento nei Paesi del Mediterraneo, mentre è ancora inferiore nella zona del Golfo. La situazione risulta ancora più preoccupante se si calcola il tasso di partecipazione al mercato del lavoro sulla popolazione totale: i Paesi mena si fermano al 45 per cento mentre la media mondiale si attesta al 61,2 per cento[34]. La lentezza della crescita del mercato del lavoro è frutto di processi contrastanti ma paralleli: l’estensione quantitativa e temporale della scolarizzazione; la rinuncia alla ricerca di un’occupazione da parte di molti giovani dopo la fine degli studi o dei periodi prolungati di disoccupazione; l’entrata nella cosiddetta economia/settore “informale”, i cui dati sono difficilmente registrabili, e comunque non aggiornati. Più nel dettaglio, i tassi di disoccupazione colpiscono maggiormente i giovani (15-25 anni): 24,5 per cento nel Mashreq e 25,6 nel Maghreb, a fronte del 10,2 in Asia meridionale e del 16,7 per cento in America Latina. La disoccupazione riguarda specialmente le donne con il 30,7 per cento per il Mashreq e il 33,4 per il Maghreb, rispetto ad una media mondiale del 13,5 per cento nel 2005. La disoccupazione giovanile cresce, infine, all’aumentare del livello di istruzione: i giovani diplomati e laureati rappresentano il 45 per cento dei disoccupati in Marocco, il 25,3 in Egitto, il 15,5 in Giordania e “solo” il 13 in Algeria, mentre in Siria la disoccupazione colpisce il 16,6 per cento dei diplomati a fronte dell’8,6 degli universitari[35].

L’istituzione in quasi tutti i Paesi di Qualifying o Free Industrial Zones in prossimità degli snodi commerciali e logistici in Marocco, Tunisia, Egitto, Giordania e Siria avrebbe dovuto incrementare gli investimenti stranieri e, dunque, l’occupazione. Tuttavia, nonostante gli sgravi fiscali e l’assenza forzata delle organizzazioni sindacali, le qiz non hanno modificato in modo sensibile la situazione occupazionale, né hanno generato trasferimenti di tecnologia atti a sviluppare le forze produttive locali. Il caso della Giordania mostra come la maggioranza della forza-lavoro impiegata sia costituita da migranti provenienti dall’Asia meridionale o dai Paesi limitrofi poiché le condizioni lavorative e salariali non risultano appetibili per i locali, sebbene in miglioramento, e le stesse autorità giordane temono problemi nel caso di impiego dei propri cittadini[36].

Per i lavoratori, dal 1990 il livello dei salari è diminuito costantemente in termini reali. Anche il loro contributo al Pil, comprese le rimesse dall’estero, è passato dal 6,5 al 3,5 per cento tra il 1991 e il 2011[37]. In media, il salario minimo è estremamente basso: 164 US$ in Siria, 235 US$ in Marocco, 425 US$ in Turchia, e in agricoltura i salari minimi sono all’incirca la metà di questi valori. In agricoltura i salari minimi sono all’incirca la metà di questi valori e, a fronte del rincaro generale dei beni alimentari e di consumo anche nelle campagne, milioni di contadini sono emigrati in cerca di lavoro nei sobborghi di Casablanca, Algeri, Tunisi, Cairo, Suez e Port Said, Damasco, Aleppo, Amman o Aden. La polarizzazione dei redditi è accelerata durante l’ultimo decennio tanto che nel 2010 l’ilo e le Nazioni Unite registravano come il 5 per cento della popolazione del mondo arabo vivesse sotto la soglia di povertà estrema, ossia con meno di 1,25 US$ al giorno: la quota saliva, però, al 21 per cento per quelli che vivono con meno di 2 dollari al giorno[38].

Nonostante, negli ultimi decenni le politiche dei governi dei Paesi mena e delle organizzazioni internazionali abbiano puntato sulla produttività come chiave di volta per il miglioramento delle condizioni di lavoro e salariali, ad oggi non vi sono elementi che dimostrino una correlazione forte tra aumento della produttività del lavoro, dei salari e dell’occupazione. Tra il 2000 e il 2007, la produttività del lavoro è aumentata di oltre il 3 per cento in Nord Africa, mentre solo dell’1,8 e dello 0,2 per cento in Egitto e in Siria. I salari, invece, sono aumentati decisamente meno, mentre in Paesi come la Siria, in cui la produttività del lavoro soprattutto in agricoltura era già elevata, l’occupazione non è cresciuta in modo proporzionale[39].

La riduzione dell’impiego pubblico è andata in parallelo con lo smantellamento dell’intervento statale nei settori produttivi e nei servizi, e al deterioramento delle condizioni lavorative e salariali nell’economia “formale” si è accompagnato lo sviluppo delle attività economiche “informali”. Infatti, il “lavoro informale” è aumentato sia nelle attività anch’esse “informali” sia in quelle “formali”[40]. Le differenze di definizione e raccolta dati rendono difficile la quantificazione del fenomeno. Tuttavia, sulla base delle statistiche nazionali, il lavoro informale è diminuito tra gli anni Ottanta e Novanta per poi aumentare nuovamente. Secondo l’ilo, tra il 1994 e il 2000, al di fuori dell’agricoltura, il lavoro informale coinvolgeva il 55 per cento della forza-lavoro in Egitto, il 50 in Tunisia, 45 in Marocco, 43 in Algeria e 42 per cento in Siria. I settori maggiormente coinvolti sono, infatti, quelli che hanno conosciuto il maggiore sviluppo nel decennio passato: servizi, commercio, edilizia e turismo. In generale, il lavoro informale riguarda soprattutto gli uomini, con l’eccezione della Tunisia. Mentre nella maggior parte dei Paesi il lavoro informale era costituito da lavoratori in proprio, come i venditori ambulanti, in Egitto e in Tunisia la debole regolamentazione delle imprese ha permesso che la metà del lavoro informale avvenisse all’interno di attività “formali”[41]. Dal 2004 al 2008, le condizioni salariali e di lavoro, così come l’indipendenza organizzativa dei lavoratori, furono oggetto della lunga stagione di mobilitazione del mondo operaio. Sebbene limitati, i lavoratori riuscirono a ottenere sia aumenti salariali sia una maggiore libertà organizzativa e sindacale, stabilendo un “precedente” importante per le rivolte in ambito urbano e animate dalla classe media nel 2011[42].

Nei processi di sviluppo delle economie del Medio Oriente e Nord Africa, le migrazioni giocano un ruolo fondamentale, sia per la quantità di persone coinvolte sia per l’importanza delle rimesse dei migranti[43]. Nel decennio appena trascorso come nella fase attuale di crisi della regione le rimesse costituiscono, infatti, un elemento essenziale di stabilizzazione di una situazione già critica se non addirittura drammatica. Nel 2010 i migranti provenienti dai Paesi mena ammontavano ufficialmente a 18,1 milioni, ossia il 5,3 per cento dell’intera popolazione della regione. Di questi, oltre il 40 per cento sono emigrati in Europa e in Nord America, il 23 per cento si è diretto nei Paesi arabi del Golfo e ben il 31,5 si è spostato all’interno della regione mena[44]. Tra il 1998 e il 2007 i flussi migratori sono raddoppiati in concomitanza con l’entrata in età lavorativa della generazione del boom demografico, e nonostante il periodo di crescita economica della regione: le politiche restrittive attuate dai governi europei nel Mediterraneo non sono dunque servite a fronteggiare processi di tale portata. I principali Paesi di emigrazione rimangono l’Egitto, il Marocco, la Palestina, Iraq e Iran, seguiti da Algeria, Yemen, Siria, Giordania e Libano. Per quest’ultimo, nel 2010 le rimesse rappresentano addirittura il 22,4 per cento del Pil (8,2 miliardi US$), il 15,6 per la Giordania (3,8 miliardi US$), il 6,6 per il Marocco (6,4 miliardi US$), il 5,3 per la Tunisia (2 miliardi US$) e il 4 per cento del Pil per l’Egitto (7,7 miliardi US$). Particolarmente alta è la percentuale degli emigranti con alta qualificazione professionale, confermando il fenomeno della “fuga dei cervelli”: questi rappresentano il 38,6 per cento in Libano, 17 in Marocco, 14,5 in Iran, 12,5 in Tunisia, 11 in Iraq e 9,4 in Algeria.

In media, le rimesse dei migranti mena sono aumentate del 14 per cento tra il 2000 e il 2008: dai 13,1 miliardi US$ nel 2000 ai 35,4 nel 2010[45]. Anche in questo caso, però, la crisi in Europa e lo scoppio delle bolle immobiliari e finanziare nel Golfo tra il 2008 e il 2009 hanno ridotto di 18 miliardi US$ le rimesse in entrata nella regione. Se il ritorno ai livelli precedenti nell’anno successivo testimonia la ripresa economica dei Paesi del Golfo e la resilienza delle migrazioni alle crisi, i redditi delle famiglie di Tunisia, Algeria e Marocco ma anche Libano ed Egitto scontano ancora gli effetti negativi della recessione in Europa[46]. Del resto anche in precedenza le rimesse erano utilizzate per i consumi di base, la salute o l’istruzione dei familiari rimasti nel Paese di origine, oppure in attività di commercio al dettaglio o di piccola edilizia abitativa: attività che per la maggior parte rispondono alla riduzione e al deterioramento dei servizi pubblici, e che purtroppo non hanno contribuito in modo decisivo allo sviluppo e alla valorizzazione delle forze produttive nei Paesi d’origine[47].

L’altra faccia della medaglia: la vulnerabilità

La regione del Medio Oriente e Nord Africa è sempre stata particolarmente sensibile agli eventi e alle trasformazioni in corso nelle aree più industrializzate del pianeta. La sua posizione di “ponte” tra Europa, Asia e Africa ha permesso alle autorità regionali di sfruttare il ruolo privilegiato di luogo di transito e comunicazione. Con l’avvio della rivoluzione industriale in Europa, il suo contributo produttivo è però diminuito in termini relativi a fronte del potere industriale, finanziario e militare dell’area euro-atlantica[48]. L’utilizzo su scala industriale e globale del petrolio e del gas nel Novecento ha riportato in auge il ruolo produttivo del Medio Oriente e del Nord Africa. Sebbene i piani di sviluppo industriali raggiunsero risultati rilevanti negli anni Sessanta e soprattutto Settanta, essi non riuscirono a rendere le attività produttive autonome dai proventi dell’esportazione di petrolio e poi gas e, dunque, dall’andamento dei mercati internazionali energetici e dei paesi industriali consumatori: il crollo dei prezzi del greggio tra il 1983 e il 1986 comportò, infatti, la caduta rovinosa dei bilanci statali e dei relativi settori produttivi. La successiva integrazione dei settori agricoli, industriali e dei servizi all’interno dei mercati globali non ha favorito in modo significativo il rilancio di queste attività[49].

Come analizzato in precedenza, il settore energetico e il commercio internazionale hanno trainato i processi di crescita dell’area nell’ultimo decennio, senza modificare in modo rilevante la vulnerabilità nei confronti dei Paesi consumatori: qui, infatti, risiedono tuttora le principali potenze militari, le maggiori compagnie petrolifere con le relative capacità tecnologiche, e gli istituti finanziari in cui si determinano i prezzi delle merci energetiche e del credito internazionale[50]. Infatti, sebbene in modo meno marcato rispetto al periodo tra il 1970 e il 1986, il contributo alla formazione del Pil delle rendite provenienti dallo sfruttamento di risorse naturali è passato dal 21,4 al 45 per cento nel 2000-2008[51]. Questa dipendenza ha fatto sì che la riduzione temporanea del prezzo del greggio nel 2009 (da 100 US$ al barile a circa 65 US$) sia corrisposta ad un calo dei tassi di crescita del Pil dal 5 al 2 per cento per tutti i Paesi, e dal 4,7 al 3,5 per cento per i Paesi non esportatori di greggio. Al contempo, le spese sostenute dai Paesi esportatori nel 2011 e 2012 per contenere le proteste popolari sono cresciute più velocemente dei proventi derivanti della vendita di gas e petrolio. In tal modo, il rischio di un calo o di un blocco anche temporaneo delle rendite energetiche avrebbe un impatto ancor più grave sui bilanci di questi Paesi[52].

Tuttavia, non è solo l’energia alla base della vulnerabilità dai cicli economici esterni: l’ascesa spettacolare e il successivo declino degli introiti derivanti dal turismo internazionale e delle rimesse dei lavoratori migranti spiegano l’impatto molto pesante nei Paesi mena della recessione in Nord America e in Europa nel 2008-2009, e del rallentamento dell’Asia. La crisi economica iniziata negli Stati Uniti alla fine del 2007 si è ripercossa duramente anche in Medio Oriente e Nord Africa: oltre al Pil già menzionato, tutti gli indici hanno subito un calo rilevante[53]. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la crisi negli Stati Uniti d’America si è ripercossa negativamente nella regione anzitutto attraverso la diminuzione dei consumi energetici e la contrazione del credito: un punto percentuale di contrazione del Pil degli Usa ha contribuito alla diminuzione dello 0,4 per cento del Pil dei Paesi gcc, dello 0,3 nel Mashreq e dello 0,2 nel Maghreb. La contrazione del Pil della Cina, invece, si è ripercossa negativamente soprattutto nel Maghreb (-0,2%) e ggc (-0,1%) in virtù delle loro esportazioni energetiche verso il mercato asiatico. Ma è soprattutto la recessione in Europa che ha colpito in modo rilevante le economie dei Paesi mena: un punto in meno di Pil in Europa si è tramutato in un calo dello 0,7 per cento nei Paesi del Maghreb, poiché questi concentrano il 60 per cento delle loro esportazioni verso i mercati europei, mentre i gcc registrano una diminuzione dello 0,35[54]. Per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri nell’area Mediterranea, nel 2010 si è registrato un calo del 17 per cento rispetto all’anno precedente soprattutto per i grandi progetti infrastrutturali e immobiliari: la crisi finanziaria e immobiliare che colpì il Golfo nel 2008, e Dubai in particolare, portò alla riduzione delle somme investite da una media di 80 milioni di euro a poco più di 60 milioni. Dai 15 miliardi US$ di aiuti allo sviluppo dei Paesi dac dell’ocse nel 2008 si è passati ai 7,8 e 6,7 del 2009 e 2011. Il calo è stato bilanciato da un intervento massiccio dei Paesi arabi del Golfo con 5 miliardi US$ nel 2011, sebbene anch’essi abbiano comunque subito una diminuzione nel biennio 2009-2010[55].

Nell’ultimo decennio, il settore del turismo internazionale ha conosciuto un enorme sviluppo in tutto il Medio Oriente e Nord Africa: dai 15 milioni di turisti nel 2000 si è passati agli oltre 37 milioni nel 2010. Il contributo del turismo alla formazione del Pil è in media dell’8 per cento in Nord Africa e del 4,8 per cento in Medio Oriente: Libano, Marocco, Tunisia, Giordania ed Egitto sono i maggiori beneficiari degli introiti derivanti dal turismo internazionale. Il settore ha garantito l’afflusso d’investimenti in nuova edilizia e nel restauro di molti centri storici, nonché in nuove opportunità di lavoro per la manodopera a media e bassa qualificazione professionale[56]. I lati negativi di questi processi, invece, riguardano l’impatto sull’ambiente e la specializzazione economica di questi territori quasi esclusivamente nel commercio al dettaglio e nei servizi di ricezione per turisti. La crisi globale nel 2008-2009 ha ridotto i flussi turistici ma solo in via temporanea: infatti, grazie alla riduzione dei costi imposta dagli operatori turistici per attrarre i turisti nord-americani ed europei alle prese con la recessione, già nel 2010 si registrava un aumento del 3,5 per cento in media degli arrivi, con l’Egitto che addirittura raggiungeva una crescita del 17 per cento e un aumento del 16.5 per cento degli introiti. Tuttavia, le rivolte in Tunisia ed Egitto e le ripercussioni della guerra in Siria su Libano e Giordania hanno fatto crollare nuovamente i flussi turistici e bloccato i relativi investimenti: rispetto al 2010, Egitto e Tunisia hanno registrato un calo del 45 e del 25 per cento degli arrivi nel 2011 e 2012, il Libano del 20 e il Marocco del 13,5 per cento. Si calcola che in Egitto, il calo del turismo internazionale abbia contribuito al calo del due per cento del Pil nel 2011[57].

La produzione agricola e i mercati alimentari costituiscono, però, i due ambiti maggiormente colpiti dall’intreccio tra territorio, politiche economiche e crisi globale. Ad eccezione del Golfo, tutti i Paesi mena sono economie prevalentemente agro-industriali. Gli investimenti massici durante l’epoca del nazionalismo economico (dalla metà anni cinquanta alla metà anni Settanta) si concentrarono sull’industrializzazione e sull’aumento della produzione agricola per rispondere al fabbisogno alimentare di una popolazione sempre più urbanizzata. Se agli inizi degli anni Cinquanta la popolazione urbana dei Paesi arabi si attestava tra il 20 e il 38 per cento, nel 2007 si è passati all’87 per cento in Libano, 82 in Giordania, 58 in Algeria, 55 in Marocco, 50 in Siria fino al 43,4 per cento in Egitto. Ma è nei Paesi arabi del Golfo, in Iran, Iraq e Turchia che il tasso di urbanizzazione è aumentato più velocemente, dal 4 ad oltre 5 per cento all’anno, concentrandosi nei centri urbani superiori ai cinque milioni di abitanti[58].

Le autorità pubbliche hanno effettuato molti investimenti in servizi ed infrastrutture per i grandi centri urbani, marginalizzando però sia il mondo rurale sia i centri urbani di provincia dove, infatti, è aumentata in modo più marcato la diffusione della povertà e dell’economia informale. Le zone interne rurali o minerarie come Kef e Gafsa in Tunisia, Dera’a, Homs, Hama e la Jazira in Siria, le regioni dell’ex Yemen del Sud o al confine settentrionale di Sana’a sono state abbandonate a gestire i processi di esodo rurale, disinvestimento produttivo e urbanizzazione dei centri di provincia. Negli stessi villaggi circostanti le grandi capitali di Tunisi, il Cairo, Suez, Port Said, Damasco o Aleppo, ormai parti integranti delle loro periferie, si sono insediati i migranti delle zone rurali escluse dallo sviluppo recente[59].

Quasi tutti i Paesi hanno destrutturato la produzione agricola tramite la riduzione degli investimenti pubblici in infrastrutture, nuove tecnologie e formazione del personale: l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, pilastro di molti regimi nazionalisti, venne abbandonato a favore dell’importazione di derrate alimentare dall’estero a partire dagli anni Ottanta poiché i prezzi alquanto bassi delle produzioni occidentali resero “non-concorrenziali” i costi di produzione locali. La delicatezza politica del fabbisogno alimentare rese comunque necessaria l’adozione di prezzi calmierati e di sussidi statali sulle merci importate. La privatizzazione del sistema cooperativo e lo smantellamento dei sussidi alla produzione locale avevano già comportato una riduzione della produzione agricola per i consumi interni a favore dell’esportazione, in quanto quest’ultima è decisamente più remunerativa rispetto alla vendita nel mercato locale e garantisce l’afflusso della valuta estera necessaria ad altre importazioni e al pagamento del debito pubblico estero[60]. L’aumento costante del fabbisogno alimentare nazionale ha, però, aumentato le importazioni dall’estero, esponendo la popolazione all’andamento dei mercati internazionali. Infatti, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli a livello globale tra il 2007 e 2008 si è ripercosso in maniera drammatica in Paesi come Egitto, Algeria, Libia e Giordania: l’inflazione ufficiale dei prodotti alimentari (grano, mais, olii vegetali) nel biennio 2010-2011 ha raggiunto il 17 per cento in Egitto, il 13 in Siria, il 7 in Giordania e il 5 in Tunisia. In Iran, l’inflazione ha raggiunto il 25 per cento[61].

La crisi alimentare ha colpito i Paesi in modo diverso. Arabia Saudita e Algeria hanno sostenuto i costi aggiuntivi del sistema dei sussidi alimentari grazie alle riserve monetarie accumulate nel decennio, mentre Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti hanno assorbito i rincari grazie ai redditi già elevati dei propri cittadini. I governi dei Paesi non esportatori di energia, come Tunisia, Egitto e Siria, hanno invece accelerato lo smantellamento dei sussidi al consumo per pane e grano, come già fatto poco prima per la benzina e i combustibili per il riscaldamento: ciò nonostante tali politiche avessero evidenti effetti depressivi sui consumi e colpissero in particolare i lavoratori e gli impiegati a reddito fisso. La diminuzione del deficit del bilancio statale e il “consolidamento” delle finanze pubbliche restavano la priorità dei governi nazionali, in sintonia con le indicazioni delle istituzioni economiche internazionali[62]. A fronte delle rivolte scoppiate nell’autunno del 2010, il ricorso a misure di controllo dei prezzi, di limitazione delle esportazioni e di sostegno ai redditi in Egitto, Siria, Yemen e Tunisia si è rivelato comunque troppo tardivo e comunque insufficiente a contenere la rabbia popolare. I governi dei Paesi mena cercano tutt’oggi di controllare i prezzi dei beni alimentari ed acquistare nei mercati internazionali cereali, carne, semi e fertilizzanti. Tuttavia, il netto peggioramento delle finanze pubbliche e la diminuzione delle riserve monetarie pongono seri dubbi sulla sostenibilità nel tempo di tali politiche, mentre le istituzioni finanziarie internazionali sono tornate a sostenere le politiche market-oriented e di privatizzazione, come nel caso dei negoziati tra Egitto e imf per la concessione di nuovi crediti[63].

Conclusioni

I processi di sviluppo in Medio Oriente e Nord Africa nel primo xxi secolo si pongono in sostanziale continuità con le strutture di base dell’economia regionale in epoca contemporanea: centralità della produzione per esportazione di energia e del commercio così come la vulnerabilità agli shock provenienti dall’estero. Tuttavia, vi sono anche dei caratteri particolari, in gestazione da almeno trent’anni ma che si sono dispiegati in tutta la loro potenza durante l’ultimo decennio: la diversificazione delle relazioni economiche internazionali, la leadership esercitata dai Paesi arabi del Golfo e l’incapacità di creare occupazione sufficiente e adeguata per una popolazione giovane e istruita, ma “infelice” per l’impossibilità di vivere una vita “dignitosa” nelle sue condizioni materiali e di partecipazione politica.

Nel xx secolo l’integrazione nei mercati internazionali e la crescita del Pil basate sull’esportazione di energia e sul riciclaggio dei surplus finanziari hanno comportato il rafforzamento dei legami con i Paesi industriali occidentali. Questi ultimi non hanno mai lesinato ad intervenire con forza nelle vicende regionali per garantirsi l’afflusso costanti di tali beni. Da parte loro, la maggioranza delle élite dirigenti arabe e mediorientali ha accettato e tratto profitto da questi legami privilegiati. Considerazioni simili possono essere avanzate anche per le fasi di crescita e integrazione basate sul commercio del xix e primo xx secolo, anche quando le aperture commerciali furono concepite per rafforzare i sistemi produttivi locali: la preminenza industriale e finanziaria della zona euro-atlantica, unita alle sue capacità belliche, furono tali da rendere comunque subalterne le forze locali rispetto ai “concorrenti” europei[64].

Più di recente, l’ascesa economica dei Paesi asiatici e di altri ex-pvs ha modificato la precedente relazione per cui l’integrazione nei mercati mondiali fu sinonimo del rapporto privilegiato, e subalterno, con i Paesi occidentali. Sebbene l’integrazione dei mercati del Medio Oriente e Nord Africa nei mercati finanziari rappresenti ancora un legame strategico tra i Paesi mena e quelli occidentali, i processi di crescita e integrazione dell’ultimo decennio sono stati caratterizzati anzitutto sia dallo sviluppo interno alla regione sia dai legami con la crescita produttiva dei cosiddetti brics e dei mercati collegati. In una regione come i mena questa diversificazione delle relazioni economiche ha comportato la diminuzione del peso relativo dei Paesi europei e del Nord America, almeno dal punto di visto produttivo e commerciale. È certamente vero che i Paesi nato continuano a mantenere il primato nelle questioni attinenti la sicurezza strategica, ma le difficoltà militari e soprattutto di governo post-bellico incontrate in Iraq dal 2003, in Libano nel 2006, e più di recente in Libia e Siria, dimostrano egualmente una diminuzione delle capacità di intervento e direzione strategica[65].

Ci si trova dunque oggi di fronte ad una situazione apparentemente paradossale: da un lato, quelle attività economiche e quelle istituzioni che nel xx secolo sono stati i pilastri sia del rapporto privilegiato tra Medio Oriente ed Occidente sia dei processi di concentrazione delle ricchezze ed “espropriazione” delle fasce popolari hanno aperto oggi la possibilità di una maggiore diversificazione produttiva ed autonomia decisionale nella scelta dei propri partner economici e, in potenza, anche dei programmi di sviluppo. Tuttavia, queste potenzialità scontano diversi ostacoli: da un lato, la struttura stessa della produzione energetica e della crescita basata sulle attività commerciali e finanziarie; dall’altro la determinazione delle classi dirigenti, sia militari che islamiste, a mantenere gli attuali assetti di potere istituzionali che hanno garantito loro ricchezza e, appunto, il loro potere sugli strati subalterni.

Lungi dal favorire una diffusione generale della ricchezza nell’insieme delle società, le trasformazioni in corso hanno continuato ad avere un carattere esplicitamente “classista”: ossia, hanno finora beneficiato solo una cerchia sempre più ristretta di élite imprenditoriali e politiche[66]. Anche in altre regioni e in epoche storiche i processi di sviluppo basati sulla finanziarizzazione dell’economia hanno comportato una costante concentrazione delle ricchezze a discapito della loro diffusione a favore dei redditi più bassi, o quantomeno intermedi[67]. In Medio Oriente e Nord Africa questi processi di concentrazione della ricchezza sono esasperati dalla struttura e dalla gestione dei processi di produzione del gas e del petrolio. Negli anni Sessanta e Settanta le autorità utilizzarono i loro proventi per lo sviluppo della produzione industriale, delle relative infrastrutture e per la costruzione di un sistema di welfare, la cui diffusione popolare dipendeva in ultima istanza dall’orientamento politico dei diversi regimi. Dalla metà degli anni Settanta fino ad oggi, l’ascesa nella regione e nei Paesi occidentali delle forze conservatrici e liberiste orientò in modo prevalente i profitti derivanti dalle rendite energetiche e finanziare a favore delle classi dirigenti. Il carattere strutturalmente “accentrato” della produzione e gestione dell’energia e della finanza non poté che facilitare tali processi una volta che i nuovi gruppi dirigenti consolidarono la propria posizione ai vertici delle istituzioni statali[68]. In questo contesto, la “conquista” dello stato e delle sue leve di controllo sulle attività economiche ha sempre avuto un valore strategico per le sorti dei singoli Paesi e delle forze politiche in campo.

In modo diverso, le attività che contribuirono ad una maggiore diffusione sociale del reddito furono quelle industriali e manifatturiere, di carattere sia capitalista che cooperativo, relativamente autonome dalle rendite energetiche e finanziarie, e comunque integrate sia nei mercati nazionali che in quelli internazionali: dagli anni Venti alla metà degli anni Cinquanta si formò il grosso della cosiddetta “classe media” e della borghesia imprenditoriale araba mentre i due decenni successivi videro l’ascesa e declino della classi medie impiegatizie e statali. Queste furono anche le fasi di inclusione del mondo operaio e contadino nei moderni processi di produzione: questi alimentarono una lunga fase di lotta sindacale e politica che, se da un lato li vide subalterni nelle gerarchie di potere dei regimi nazionalisti o monarchici, dall’altro garantì a questi strati popolari maggiori redditi e accesso ai servizi sociali[69].

L’ultimo decennio di sviluppo ha dunque costruito le condizioni per un’accumulazione di capitali e una concentrazione di ricchezze senza precedenti. Ma altresì ha costruito le condizioni materiali e istituzionali in cui sono cresciuti, e contro cui si sono mobilitati, i soggetti politici che hanno animato le rivolte dalla fine del 2010. Nonostante questi processi incontrino sempre più difficoltà nel creare crescita e provochino resistenze sociali sempre più forti, né i regimi militari né quelli islamisti si sono discostati dalla combinazione di politiche economiche neo-mercantiliste e neo-liberiste adottate fino ad oggi, e ancora sostenute dai loro partner internazionali, e occidentali in particolare[70]. Non ci si può sorprendere, allora, che nel contesto di un peggioramento delle condizioni economiche e sociali dei Paesi coinvolti nelle rivolte, la conflittualità sociale e politica continui a perdurare.

 

Fonti Statistiche

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un-escwa e Arab Industrial Development and Mining Organization, in Bulletin of Industrial Statistics for Arab Countries, 2004-2010, vii Issue, July, 2012, Beirut

World Bank, World Development Indicators (wb-wdi) (2013), gdp Growth Rate, 1960-2010

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[1] Sebbene ogni Paese si contraddistingua per le proprie caratteristiche, gli elementi di base dei processi di sviluppo hanno coinvolto tutti i territori, contribuendo così a rendere comuni le rivendicazioni di maggior giustizia presenti nelle proteste. Per questo motivo, il saggio adotta una prospettiva regionale.

[2] Si adotta qui la definizione di “sviluppo” formulata da Gilbert Rist: “Lo sviluppo costituisce un insieme di pratichetalvolta in apparenza contraddittorie che, per assicurare la riproduzione sociale, obbligano a trasformare e a distruggere in modo generalizzato l’ambiente naturale e i rapporti sociali con il fine di una produzione crescente di prodotti e servizi destinati, attraverso lo scambio, a soddisfare una domanda solvibile”, Gilbert Rist, Le développement. Histoire d’une croyance occidentale, Presses de Sciences Po, Paris 2001, pp. 26-36. Per il concetto di “accumulazione per espropriazione” di veda David Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo, trad. it., il Saggiatore, Milano 2003, pp. 116-150.

[3] Per una introduzione al dibattito si vedano, ad esempio, Maxime Rodinson, Islam et capitalisme, Seuil, Paris 1966; Timur Kuran, The Long Divergence: How Islamic Law Held Back the Middle East, Princeton University Press, Cambridge Mass. 2012; Elena Vezzadini, Islam and Capitalism. Considerations on the Construction of the Idea of a Western ‘Modernity’, in “Storicamente”, vol. 8, 1, 2012.

[4] World Bank, World Development Indicators, 2013 (d’ora in poi wb-wdi, 2013) gdp Growth rate, 1960-2010. La Banca Mondiale individua i “Developing States” (qui pvs) in base al Prodotto Nazionale Lordo, il che corrisponde alla maggior parte dei Paesi non esportatori di prodotti energetici.

[5] wb-wdi, 2013, Gross fixed capital accumulation growth, 1960-2011.

[6] wb-wdi, 2013, All mena sectoral contribution to gdp formation, 2000-2010; wb-wdi 2013, Developing mena sectoral contibution to gdp formation, 2000-2010.

[7] British Petroleum, Gas prices, 2000-2011, in “Statistical Review Energy”, 2012.

[8] Ivi, Oil regional consumption, 2000-2011.

[9] unctad, fdi Inflows, 2000-2011 in Trade Statistics, 2013.

[10] Anima-InvestMed, Atlas des investissements et partenariats en Mediterranée, Etude n. 15, Mai, 2010.

[11] Cfr. André Bourgey (a cura di), Industrialisation et changements sociaux dans l’Orient arabe, Cermoc, Beirut 1982; Daniel Yergin e Joseph Stanislaw, La grande guerra dell’economia (1950-2000). La lotta tra stato e imprese per il controllo dei mercati, Garzanti, Milano 2000, p. 240, 361. Per il caso particolare di Israele, cfr. J. Nitzan, e S. Bichler, The Global Political Economy of Israel, Pluto Press, London 2002.

[12] Cfr. Alan Richard e John Waterbury, A Political Economy of the Middle East, Westview Press, Boulder CO, 1996, p. 133; World Bank, International Financial Corporation, Doing Business 2011, Middle East and North Africa, Washington, November 2011; International Monetary Fund, Regional Economic Outlook, Middle East and North Africa, Washington October 2011. Qui si lodavano miglioramenti degli indici macroeconomici, quali l’inflazione, il deficit statale e della bilancia dei pagamenti, lo sviluppo dei mercati finanziari, la liberalizzazione dei mercati e la riduzione del settore pubblico.

[13] Cfr. Roger Owen, The Middle East in the World Economy, 1800-1914, I.B. Tauris, London 2009; Roger Owen e Sevket Pamuk, A History of Middle East Economies in the Twentieth Century, I.B. Tauris, London 1998; Lothar Rathmann e Manfred Voigt (a cura di), Arabische Staaten. Bilanz, Probleme, Entwicklungstendenzen,Akademie-Verlag, Berlin 1988; Massimiliano Trentin, Tra sicurezza e sviluppo. La guerra fredda nel medioriente post-coloniale, in Mauro Campus (a cura di), Sviluppo, crisi, integrazione. Temi di storia delle relazioni internazionali per il xxi secolo, Bruno Mondadori, Milano 2013, pp. 145-168.

[14] Per gli Stati Uniti d’America, cfr. Duccio Basosi, Finanza e petrolio. Gli Stati Uniti, l’oro nero e l’economia politica internazionale, Edizione Studio LT2, Venezia 2012, pp. 15-27; David Spiro, The Hidden Hand of American Hegemony, Cornell University Press, Ithaca 1998.

[15] Cfr. Karen Pfeifer, Social structures of accumulation for the Arab world: the economies of Egypt, Jordan and Kuwait in the regional system, in Terrence McDonough e David M. Kotz (a cura di), Contemporary Capitalism and its Crises
: Social Structure of Accumulation Theory for the 21st Century, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 309-354. Cfr. Harvey, La guerra perpetua, op. cit.

[16] Gli andamenti riguardano tutti i Paesi mena. Per i Paesi non esportatori di energia, i cicli commerciali sono posticipati di un biennio in quanto seguono gli sviluppi dei Paesi esportatori, wb-wdi, 2013, Merchandise exports of all mena, 1960-2010; wb-wdi, 2013, Merchandise imports of all mena, 1960-2010.

[17] Makhous Monzer, Pétrole et développement dans le monde arabe: des révolutions en chaine, L’Harmattan, Paris 2011.

[18] Cfr. Michel Chatelus, Yves. Schemeil, Towards a New Political Economy of State Industrialization in the Arab Middle East, in “International Journal of Middle East Studies”, vol. 16, 1984, pp. 257-260; Ronald Findlay, Kevin H. O’ Rourke, Power and Plenty. Trade, War and the World Economy in the Second Millennium, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2009, pp. 43-48, 364-366; Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie e capitalisme. xv-xviii siècle. 2. Les jeux de l’échange, Armand Colin, Paris 1979, pp. 118-146.

[19] Per una breve rassegna della storiografia sul ruolo del petrolio nei percorsi di sviluppo regionali, cfr. Roger Owen, One hundreds years of Middle Eastern Oil, in “Middle East Brief”, 24, 2008, Brandeis University.

[20] Cfr. un-escwa e Arab Industrial Development and Mining Organization, Bulletin of Industrial Statistics for Arab Countries, 2004-2010, vii Issue, July, 2012, Beirut, pp. 3-6; Joey Ghaleb, Industrial Policies and sme Competitiveness, escwa, Sustainable Development and Productivity Division, Beirut 2010.

[21] wb-wdi, 2013, Merchandise import-export within mena, 1960-2010.

[22] wb-wdi, 2013, mena Current account balance, 2000-2010. I Paesi mena in “via di sviluppo” seguono un andamento simile sebbene con valori compresi tra i 17 miliardi del 2000 e il picco massimo dei 68,5 nel 2008. Cfr. Shahrokh, Managing Oil Prices and Recycling Petrodollars, in “International Economic Bulletin”, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC Maggio 31, 2012.

[23] Karen Pfeifer, Petrodollars at Work and in Play in the Post-September 11 Decade,in “Merip”, 260, vol. 41, Fall 2011.

[24] Per un’introduzione si vedano Charles Tripp (a cura di), Islam and the Moral Economy. The Challenge of Capitalism, Cambridge University Press, Cambridge 2006; Rony Hamaui, Marco Mauri, Economia e finanza islamica, il Mulino, Bologna 2009.

[25] ocse 2013, oda to mena 2000-2011, qwids Query Wizard for International Development Statistics. Il caso egiziano è particolarmente significativo: le minacce europee di sospendere gli aiuti allo sviluppo come ritorsione per il colpo di stato dei militari del 3 luglio 2013 sono state vanificate dalla disponibilità saudita di colmare il possibile vuoto, oltre le decine di miliardi US$ già concessi dai gcc all’Egitto dal 2002 in poi.

[26] Cfr. Margherita Paolini, Mezzaluna calante, in “Limes”, 2, 2013, pp. 115-124; Alexander Murinson, The strategic depth doctrine of Turkish foreign policy, in “Middle Eastern Studies”,42, 6, 2006; André Bank and Roy Karadag, The Political Economy of Regional Power: Turkey under the akp, in “giga Working Papers”, 204, September 2012, pp. 15-17.

[27] Richards and Waterbury, cit. p. 55, 62.

[28] Cfr. World Bank, Economic Integration in the Mashreq, e Economic Integration in the Maghreb, Washington, October, 2010; J. Harrigan, J.R. El-Said, Aid and Power in the Arab World: World Bank and imf Policy-Based Lending in the Middle East and North Africa, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2009, pp. 10-12, 148; Bernard Hoekman e Hanaa Kheir-el-Din (a cura di), Trade Policy Developments in the Middle East and North Africa, World Bank, Washington 2000.

[29] Cfr. F. Zallio, Dopo Washington a Dubai, un nuovo ruolo europeo nel Mediteraneo?, in “ispi Med. Brief”, 9, 3 novembre, 2008; Christopher M. Davidson, Dubai: The Vulnerability of Success, Columbia University Press, New York 2008, p. 177; Karen Aggestan, Laura Guazzone et al., The Arab State and Neo-liberal Globalization, in Laura Guazzone e Daniela Pioppi (a cura di), The Arab State and Neo-Liberal Globalization: The Restructuring of State power in the Middle East, Ithaca Press, Reading 2009, pp. 325-350.

[30] Cfr. World Bank, Economic Integration in the Mashreq, Economic Integration in the Maghreb e Economic Integration in the gcc, Washington, October, 2010.

[31] Cfr. Enrst&young, Attractiveness Survey, 2012 e l’eccellente Mehran Kamrava (a cura di), The Political Economy of the Persian Gulf, Hurst&Co. London, 2012; A. H. Rehman, Gulf Capital and Islamic Finance. The Rise of the New Global Players, Mc Graw Hill, New York 2010, p. 241; Adam Hanieh, Capitalism and Class in the Gulf Arab States, PalgraveMcMillan, New York 2011, p. 85.

[32] Cfr. nota 28 con John Ravenhill, Regional Trade Agreements, in John Ravenhill (a cura di), Global Political Economy, Oxford University Press, Oxford 2011, pp. 176-195.

[33] I livelli sono decisamente più alti in realtà se si tiene conto che per “occupate” si considerano anche persone che lavorano pochi giorni al mese e dunque sono comunque incapaci di provvedere al proprio sostentamento, Samir Aita, Les travailleurs arabes hors la loi. Emploi et droit du travail dans les pays arabes de la Meéditerranée, L’Harmattan, Paris 2011, p. 148.

[34] ilo, Global Employment Trends, Geneva, 2011, p. 49.

[35] Ilo, Unemployment rate by level of education, mena, Laborstats, Arabic Statistic Survey, 2011.

[36] International Trade Union Confederation, International Recognized Core Labour Standards in Jordan, Geneva, November 10, 2008; ilo Regional Office for Arab States, Decent Work Country Programme 2012-2015, Jordan, March 2012.

[37] wb-wdi, 2013, mena Labour compensation to gdp, 1990-2010.

[38] escwa (2010), Charting the progress of the Millenium Development Goals in the Arab region. A statistical portrait, Beirut.

[39] Syrian Center for Policy Research, The Socio-economic Roots and Impact of the Syrian Crisis, Damascus, 2013, p. 23.

[40] L’ilo definisce “lavoro informale” come lavoro salariato o autonomo, non regolato da contratto e da assicurazione sociale e senza rappresentanza, Measuring Informality: A Statistical Manual on the informal sector and employment, Geneva, october 31, 2013, p. 14, 31.

[41] Aita, Les travailleurs arabes hors la loi, cit. p. 107.

[42] Per un’introduzione al tema, si veda Daniela Pioppi, Il movimento operaio in Egitto prima e dopo la ‘rivoluzione del 25 gennaio’ 2011, in Massimiliano Trentin (a cura di), Linee di conflitto: il mondo arabo in trasformazione, Dossier della rivista “Afriche e Orienti”, 1-2, 2013, in corso di pubblicazione.

[43] Roger Owen, The Movement of Labor in and out of the Middle East over the Last Two Centuries; Peasants, Patterns and Policies, in George Sabbagh (a cura di), The Modern Economic and Social History of the Middle East in World Context, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 29-43

[44] ilo, Migration for decent work. Economic growth and development, Geneva, 2010 (unpublished), cit. in George Corm, The socio-economic factors behind the Arab revolutions, paper presentato al Circulo de Economia de Barcelone, 22 giugno, 2011.

[45] World Bank, Maintaining Progress Through Turmoil, in “Global Economic Prospects”, vol. 3, Washington, 2011, p. 29.

[46] George Naufal and Carlos Vargas-Silva, Migrant Transfers in the mena Region: A Two-Way Street in Which Traffic Is Changing, in Ibrahim Sirkeci , Jeffrey H. Cohen, Dilip Ratha, Migration and Remittances during the Global Financial Crisis and Beyond, World Bank, Washington DC 2012, p. 377.

[47] Si ricorda comunque come la regione mena è anche oggetto di grandi flussi migratori in entrata. Sempre nel 2010 si registrarono ufficialmente 12 milioni di immigrati, ossia il 3,5 per cento della popolazione. Tuttavia, a differenza della composizione delle migrazioni in uscita, ben il 65,3 per cento degli immigrati è costituito da rifugiati per guerre.

[48] Sevket Pamuk, The Ottoman Empire and European Capitalism, 1820-1913. Trade, Investment and Production, Cambridge University Press, Cambridge 1987, p.130-144; Robert Findlay, Kevin H. O’Rourke, Power and Plenty. Trade, War and the World Economy in the Second Millennium, Princeton University Press, Princeton (nj) 2009, pp. 43-48, 364-366.

[49] Cfr. Maria Cristina Paciello, Introduzione all’economia del mondo arabo, La Sapienza Orientale Manuali, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2010, pp. 77-79; Richards e Waterbury, A Political Economy of the Middle East, cit. p. 62, 249.

[50] Cfr. Duccio Basosi, Finanza e petrolio, cit. pp. 15-27 e i due classici di Daniel Yergin, The Prize. The Epic Quest for Oil, Money and Power, Simon and Schuster, New York 1991; The Quest: Energy, Security, and the Remaking of the Modern World, Penguin, New York 2011.

[51] wb-wdi 2013, Total natural reserves rent, mena, 1970-2010.

[52] International Monetary Fund, Regional Economic Outlook. Middle East and Central Asia, Washington DC, November 2012.

[53] Cfr. escwa, Statistical Abstract of the escwa Region, n. 30, 2011, New York; World Bank, Maintainig Progress Through Turmoil, in “Global Economic Prospects”, 3, 2011, Washington DC.

[54] imf, Regional Economic Outlook, cit. pp. 31-33; escwa, Impact of European Debt Crisis on escwa Countries, Economic Development and Globalization Division, Beirut, September 2011.

[55] Cfr. Anima-Investmed, Atlas des investissements, cit.; ocse 2013, oda to mena 2000-2011, cit.

[56] Timothy Mitchell, Worlds Apart: an Egyptian Village and the International Tourism Industry, in David McMurray e Amanda Ufheil-Somers (a cura di), The Arab Revolts: Dispatches on Militant Democracy in the Middle East, Indiana University Press, Bloomington, 2013, pp. 76-83.

[57] World Bank, Maintainig Progress Through Turmoil, cit. p. 131; imf, Regional Outlook, cit. p. 33.

[58] Cfr. un-desa 2011, Growth Rate of Urban Agglomeration, 1970-2011; Urban agglomerations by size class and potential risk of droughts.

[59] Cfr. un-desa 2011, Urban agglomerations by size class in dry land areas.

[60] Cfr. Richards e Waterbury, A Political Economy, cit. p. 146-171.

[61] World Bank, Food price inflation, mena, in “Food Price Watch”, Washington DC., April 2011; escwa, Survey of Economic and Social Development in Western Asia,Beirut 2011, p. 62.

[62] International Monetary Fund, The Political Economy of Subsidy Reform: Lessons for the mena Region, “Spring Seminars”, Washington DC, 19 April, 2012.

[63] imf, Regional Economic Outlook, cit. p. 32; Mulat Demeke, Guendalina Pangrazio, Materne Maetz, Country Response to Turmoil in Global Food Markets, in Adam Prakash (a cura di) Safeguarding Food Security in Volatile Global Markets,fao, Rome 2011, p. 199.

[64] Cfr. Sevket Pamuk, The Ottoman Empire and European Capitalism, 1820-1913. Trade, Investment and Production, Cambridge University Press, Cambridge 1987; Jacques Thobie, Ali et les 40 voleurs. Impérialisme et Moyen-Orient de 1914 à nos jours, Messidor, Paris, 1985; Paul Jabber, Petrodollars, Arms Trade and Pattern od Major Conflicts, in J. C. Hurewitz (a cura di), Oil, the Arab-Israeli Dispute and the Industrial World. Horizons of Crisis, Westview Press, Boulder CO 1976, pp. 149-164.

[65] Cfr. Pfeifer, Petrodollars at Work, cit.; Cristopher Davidson, The Persian Gulf and Pacific Area. From Indifference to Interdependence, Hurst&Co., London 2010, p. 107; i saggi relativi alla sicurezza e al regionalismo in Medio Oriente contenuti in Louise Fawcett (a cura di), International Relations of the Middle East, thd. Edition, Oxford University Press, Oxford 2013.

[66] Casi emblematici per i Paesi esportatori di energia e non sono l’Arabia Saudita e la Siria. Cfr. Steffen Hertog, Princes Brokers and Bureaucrats. Oil and the State in Saudi Arabia, Cornell University Press, Ithaca 2011; B. Haddad, Business Networks in Syria. The Political Economy of Authoritarian Resilience, Stanford University Press, Stanford 2011.

[67] Cfr. William K. Tabb, Financialization in the contemporary social structure of accumulation in McDonough e Kotz (a cura di), Contemporary Capitalism and its Crises, cit. pp. 146-167; i capitoli di Giovanni Arrighi, Geopolitica e alta finanza e Beverly J. Silver, Eric Slater, Le origini sociali delle egemonie mondiali, in Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver (a cura di), Caos e Governo del mondo. Come cambiano le egemonio e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 102, 243.

[68] Cfr. Per il nesso tra petrolio, democrazia e relazioni internazionali, si confrontino il classico Giacomo Luciani, Oil and Political Economy in the International Relations of the Middle East, in Fawcett (a cura di), International Relations of the Middle East,cit. pp. 103-126 con l’affascinante Timothy Mitchell, Carbon Democracy. Political Power in the Age of Oil, Verso Book, New York 2011.

[69] Joel Beinin, Workers and Peasants in the Modern Middle East, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 107, capitoli 3 e 5; Nazih Ayubi, Overstating the Arab State. Politics and society in the Middle East, I.B. Tauris, London 1995, pp. 196-223.

[70] Timothy Mitchell, Dreamland: The Neoliberalism of Your Desires, “Middle East Report”, n. 210, Spring 1999; Jane Harrigan, J.R. El-Said, Aid and Power in the Arab World: World Bank and imf Policy-Based Lending in the Middle East and North Africa, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2009, pp. 10-12, 148. Per gli orientameti economici delle forze islamiste, cfr. Patrick Haenni, L’islam de marché: l’autre révolution conservatrice, Paris, Seuil 2005; Ibrahim Saif e Muhammad Abu Rumman, The Economic Agenda of the Islamist Parties, in “The Carnegie Papers”, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC, maggio 2012.