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Introduzione – Sul futuro delle rivolte arabe

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di LEONARDO PAGGI

I saggi qui raccolti provengono da un seminario su “Le radici delle trasformazioni del mondo arabo” promosso dalla Associazione per la storia e le memorie della repubblica, e svoltosi il 21-22 gennaio 2013 nella sede del Dipartimento di storia dell’Università di Firenze. Chi scrive non è “esperto” di nessuno dei temi che vengono di seguito affrontati, ma dal suo prolungato commercio con la storia del xx secolo ha tratto la convinzione che nel Mediterraneo si stia oggi giocando una partita storica non meno decisiva, per le sorti dell’Europa, di quella che Henri Pirenne descriveva nel suo Maometto e Carlomagno, e che per richiamare sul tema gli sforzi di una considerazione critica, tutto possa e debba essere fatto, anche dai non specialisti, quanto meno sul terreno dell’organizzazione e della promozione della cultura.

Obbiettivo primo del seminario era mettere in guardia sui tratti di una assai diffusa interpretazione orientalista della rottura prodottasi nel febbraio 2011. Riflettendo criticamente sulla espressione stessa di “primavere arabe”, si sottolineava come sulla base di un esplicito quanto ingiustificato accostamento con la caduta dell’Unione sovietica si salutasse come un successo del modello occidentale la crisi di regimi che avevano goduto del riconoscimento e della collaborazione pieni sia in Europa che negli Stati uniti. Da qui, i limiti ideologici di una lettura degli svolgimenti in corso in Medio Oriente e Nord Africa che assumeva come unico standard di giudizio la formazione di istituzioni democratiche di tipo parlamentare. Si interpretava, inoltre, come diretta prosecuzione della tesi dello “scontro di civiltà” l’insistenza ossessiva portata sul ruolo compattamente negativo dell’Islam, assunto come indifferenziata realtà monolitica, e considerato come insormontabile ragione di blocco e di arresto, in ragione della sua originaria e costitutiva commistione di religione e politica[1].

Nel corso del 2013 il processo del mutamento ha assunto tratti sempre più contraddittori e drammatici. E tuttavia circola nei testi che presentiamo la convinzione comune che di una grande rottura si debba continuare a parlare. Il quesito che si vuole proporre, nel filo di una riflessione storica di più lungo periodo, è se e come si siano determinate condizioni nuove per l’interruzione di un lungo ciclo di decadenza. Lo stato post-coloniale ha realizzato importanti obbiettivi di progresso: da un forte innalzamento dei livelli di istruzione ad un sensibile calo dei tassi di incremento demografico. Non ha invece avviato uno sviluppo economico auto-propulsivo, capace di impiegare le energie sociali liberate, analogo a quello che ha portato i paesi del Sud-est asiatico a inserirsi attivamente nella divisione internazionale del lavoro. La ricerca delle cause porta però gli autori dei saggi ben oltre la consueta speculazione sulle “colpe” dell’Islam. Tre sono i temi che stanno al centro del volume: a) il rapporto istituito dalle economie dei paesi arabi con il grande mutamento che si delinea nel capitalismo internazionale alla metà degli anni settanta con la fine delle Trente glorieuses; b) il complicato processo di formazione di una nuova classe dirigente; c) il forte condizionamento esercitato dagli equilibri internazionali.

1.Lasvolta compiuta da Sadat nel 1979, con cui si chiude in Egitto e in tutto il mondo arabo l’epoca del nazionalismo nasseriano cominciata nel 1956[2], non è solo un riallineamento di politica estera. Dalla metà degli anni Settanta è venuta maturando contestualmente nell’insieme dei paesi arabi una svolta non meno importante negli indirizzi di politica economica, consistente sostanzialmente nell’abbandono del modello di sviluppo che si comincia a teorizzare venti anni prima a Bandung. Dall’idea di una crescita affidata allo sfruttamento delle risorse nazionali, sulla base del protezionismo e dell’industrializzazione tramite la sostituzione delle importazione si passa progressivamente ad un pieno accoglimento delle analisi e delle ricette del Fmi e della Banca mondiale volte a privilegiare la formazione delle condizioni idonee alla penetrazione del capitale straniero: il cosiddetto market-friendly. È il prezzo che lo stato postcoloniale deve pagare alla finanza internazionale in ragione del suo enorme indebitamento. La progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, che negli anni Ottanta e Novanta caratterizza la storia dell’economia americana e di quelle europee, trova quindi precise corrispondenze nella esperienza dei paesi arabi.

Indiscutibili sono state le ricadute in termini di crescita (growth). Il saggio di Massimiliano Trentin individua a questo riguardo trends nettamente positivi per l’insieme dei paesi del mena (Middle East and North Africa): una progressione del Pil che si attesta tra il 4 e il 5 per cento, un aumento sensibile degli investimenti diretti esteri, un incremento della integrazione regionale, una riconferma del ruolo di intermediazione commerciale tra Est e Ovest, caratteristica tradizionale di questa area. Il modello Dubai non è riuscito invece ad innescare uno sviluppo auto propulsivo (development), basato su un incremento di produzione e di produttività nei settori industriali ad alto valore aggiunto. I tratti fondamentali sono ancora quelli di una economia di rendita.

Il dato più appariscente consiste nell’incapacità dimostrata da questi paesi di trasformare in forza propulsiva i proventi della vendita all’estero dei prodotti energetici. Sotto questo profilo i paesi arabi sono partecipi di un fenomeno assai più ampio, che include realtà assai diverse, dal Venezuela alla Nigeria, e che è stato caratterizzato come the paradox of plenty[3]. Sembra riprodursi in qualche modo lo stesso fenomeno per cui il grande afflusso di oro proveniente dai possedimenti coloniali spinge progressivamente l’economia spagnola del xvi e xvii secolo nel vicolo cieco della marginalità. Lo stato rentier, evocato in riferimento alla Libia dal saggio di Elisabetta Bini, si caratterizza per il fatto che i proventi delle esportazioni petrolifere, invece di creare nuovo sviluppo, alimentano la riproduzione di una struttura politica autoritaria ed inefficiente.

La nondipendenza dello stato da un sistema di imposizione fiscale blocca la crescita di un sistema di scelte economicamente razionali e finisce per ritardare tutti i processi di rappresentazione e di controllo politico connessi alla esistenza della tassazione. Paradossalmente il petrolio entra in contraddizione non solo con lo sviluppo ma anche con la democrazia. Lo stato rentier è uno stato “dispotico”, secondo la classica tipologia di Montesquieu, in cui è difficile costruire sia la divisione dei poteri sia la crescita di corpi intermedi nella società civile. Forse lo “stato delle masse” di Gheddafi, basato sulla rigorosa messa al bando di qualsiasi organizzazione politica, è stato il tentativo più coerente di dare una compiuta proiezione politica alla logica intimamente patriarcale dello stato rentier.

Dopo i prodotti energetici, rimesse degli emigrati e turismo sono altre due voci fondamentali di queste economie di rendita, che evidenziano nello stesso tempo tutta la fragilità e la aleatorietà dello scambio esistente tra le due sponde del Mediterraneo[4]. La politica di partenariato euro-mediterraneo lanciata dalla Ue nel 1995 a Barcellona è rimasta priva di esiti non solo per la sua impostazione rigorosamente liberista, ma perché contraddetta da una frettolosa integrazione dell’Est europeo voluta dalla Germania unificata per ricreare una sua tradizionale area di dominio economico, e dagli Stati uniti per spostare ad oriente i confini della Nato.

La speculazione immobiliare rappresenta una quarta componente di questa economia di rendita. Le sue origini risalgono all’enorme accumulazione di petrodollari che si determina già con gli shock del 1973 e 1979. Di questo nuovo potere finanziario non è solo la Beirut di Rafiq Hariri, rappresentante del potere economico saudita in Libano negli anni Novanta (berlusconianamente poi “sceso” in politica), a farne le spese[5]. Londra, Parigi, Marbella saranno investite dalla stessa febbre speculativa nel filo di una tendenza che avrà il suo punto di approdo nel collasso del mercato immobiliare del 2008. Le monarchie del Golfo si sono dotate per questa via di un crescente potere di condizionamento economico e politico che si esprime anzitutto nella promozione di un modello di sviluppo che marginalizza l’industria e l’agricoltura, mentre premia la crescita di ogni tipo di servizi. Questi stessi paesi esercitano anche un crescente potere di influenza politica, soffiando sul fuoco dell’integralismo islamico. Con una netta dissociazione tra modernizzazione e secolarizzazione, le monarchie del Golfo operano come il più potente braccio della americanizzazione economica dell’area, nello stesso tempo in cui favoriscono tutti i movimenti di regressione culturale e ideologica della tradizione islamica.[6]

La crisi del 2008 penalizza fortemente queste economie rendendo in primo luogo ancora più aspro il problema onnipresente di una disoccupazione di massa. Il saggio di Samir Aita indugia a lungo sulle modalità di formazione e sugli effetti politici di quello che egli chiama lo “Tsunami dei giovani”, ossia dell’arrivo sul mercato del lavoro di masse di giovani destinate a rimanere senza occupazione, o tutt’al più irretite in un sistema di lavoro precario. E tuttavia sarebbe ovviamente illusorio pensare di dedurre meccanicamente da una spinta demografica o da una crisi economica le rivolte che hanno sconvolto tutta la scena politica del mondo arabo[7]. Il quadro di riferimento non può che essere il processo di lenta delegittimazione dello stato postcoloniale quale avanza per il concorso di cause diverse: la lenta dispersione del capitale simbolico accumulato nella lotta anti imperialista e nella costruzione di una identità nazionale; la progressiva contrazione dei diritti di cittadinanza, dall’educazione alla assistenza medica, resa obbligatoria dalla adozione del modello liberista che cambia in profondità i termini del ruling bargain, ossia l’iniziale patto di governo tra stato e cittadini; una crescente involuzione autoritaria delle istituzioni quale si realizza per la compresenza e l’intreccio di repressione, corruzione e cooptazione.

Più in particolare, alle origini di quel nuovo senso di “dignità” che rappresenta il denominatore comune delle rivolte arabe sembra debba essere posta una profonda degenerazione oligarchica che a partire dagli anni Novanta investe le diverse incarnazioni dello stato post-coloniale: dall’Algeria alla Libia alla Tunisia all’Egitto alla Siria. È la conseguenza di una crescente polarizzazione economica e sociale in virtù della quale, anche sulla scorta delle privatizzazioni (come nel caso russo), si accumulano nelle mani di pochissimi ricchezze enormi. Questa enorme disparità in termini di proprietà e di reddito spinge le oligarchie a difendere il proprio status di privilegio assoluto sulla base di comportamenti e strategie che condizionano sempre più da vicino il modo di essere e di apparire del potere politico.

Il fenomeno, certo non assente nei paesi di capitalismo avanzato caratterizzati dal pieno sviluppo di istituzioni parlamentari, assume nello stato postcoloniale la forma di quella che una recente sociologia politica chiama sultanistic oligarchy: ossia una struttura di governo dell’economia e della società volta a difendere e a riprodurre ai danni della collettività situazioni di enorme privilegio economico, che hanno come punto di riferimento obbligato il potere personale di un sultano[8]. Nei paesi sopra ricordati, in cui la rivolta anti-regime ha preso connotati profondi e duraturi, il sultano non solo mediava con adeguate azioni redistributive i conflitti all’interno dell’oligarchia, ma tendeva a trasformarsi in una vera e propria monarchia ereditaria. La progenie più diretta del sultano stava entrando apertamente nello spazio pubblico lottando in questo mercato tutto politico non solo per accumulare bottini personali, ma anche per garantirsi un diritto di successione di tipo dinastico. In questo senso si può dire che la rivolta contro i nuovi pascià riproduce almeno in parte la dinamica che ha portato al crollo della trentennale dittatura di Suharto, stretta nel 1998 tra gli effetti a catena della crisi economica asiatica divampata in Tailandia e l’insorgenza dal basso di una forte mobilitazione studentesca e popolare. Ma, come nel caso dell’Indonesia, l’insorgenza popolare, dopo aver abbattuto il piedistallo del sultano e della sua famiglia, fatica molto a smantellare la preesistente struttura di potere.

Le tre rivendicazioni delle rivolte: libertà, dignità e giustizia sociale, colgono quindi con precisione le radici della degenerazione oligarchica, saldando la richiesta di uno stato di diritto con quella di un nuovo modello di sviluppo: nessuna rivoluzione puramente politica riuscirà, in effetti, a interrompere il ciclo della decadenza araba. E tuttavia tardano a delinearsi soggetti politici capaci di farsi carico di questo programma.

2.La grande mobilitazione politica del 2011non si prolunga allo stato attuale nella formazione di una nuova classe dirigente. In questo senso ci sembra giusto parlare di rivolte e non di rivoluzioni. Il tema è discusso in apertura del saggio di Lucia Sorbera. Schematizzando molto rispetto ad una situazione che presenta un sistema assai articolato di differenze (dalle monarchie costituzionali di Marocco e Giordania, ai paesi in cui è ancora presente una tradizione tribale come Libia e Yemen) si può dire che continuano ad operare nel presente le due grandi forze che nel corso del Novecento si sono affermate come le vere protagoniste della scena politica del mondo arabo, peraltro in un rapporto reciproco sempre mutevole di conflitto e cooperazione: l’esercito e l’Islam politico.

Quando si esprime disappunto per la mancata formazione di un regime politico di tipo parlamentare, forse non sempre si ricorda che in Medio Oriente il costituzionalismo ha già avuto una lunga storia fatta di fallimenti. È del 1876 il primo passo compiuto dall’Impero Ottomano per una sua costituzionalizzazione sentita come premessa indispensabile di qualsiasi processo di innovazione. Ma con una traiettoria che è destinata a ripresentarsi in modi e forme diverse anche nei paesi arabi, solo attraverso lo strumento militare si affermerà la modernizzazione politica della nuova Turchia, nel filo di una evoluzione che dai giovani turchi porta, passando per la prima guerra mondiale, al kemalismo[9].

La rivoluzione egiziana del 1919 (in questo caso evidente è la formazione di un nuovo gruppo dirigente attorno alla figura carismatica di Sa’d Zaghlul) approda nel 1923 alla promulgazione di una costituzione. Ma il processo di emancipazione dal colonialismo britannico avviato su questo binario finisce presto in un vicolo cieco. Il Trattato anglo-egiziano del 1936, firmato nell’urgenza determinatasi dalla penetrazione italiana in Etiopia, ribadisce a tutti i titoli la presenza militare della Gran Bretagna e il suo pieno controllo del canale di Suez. L’India rimarrà in definitiva l’unico esempio concreto di una conciliazione riuscita tra costituzionalismo e anticolonialismo, in virtù – sostiene ora Amartya Sen – di un pluralismo millenario non riassorbibile in un’unica identità induista[10].

Con il secondo dopoguerra il nazionalismo arabo passa decisamente alla critica delle armi. L’esercito si afferma ovunque come l’unico soggetto politico capace di portare a compimento la rivoluzione anticoloniale. Nel 1952 sono gli “Ufficiali Liberi” che proclamano la repubblica egiziana, abolendo nello stesso tempo il sistema dei partiti. Nel 1954 comincia la guerra di liberazione nazionale in Algeria, con la definitiva affermazione dell’opzione militare rispetto ad altre possibili vie prospettate precedentemente dal nazionalismo algerino[11]. Nel 1958 l’esercito pone fine in Iraq alla monarchia parlamentare di Faysal e nel 1963 sono ancora colpi di stato militari che instaurano un regime Ba’th in Siria e Iraq. Arriverà poi nel 1969 anche il turno di Gheddafi. Del resto la permanente tensione militare che segna tutta la storia del Mediterraneo e del Medio Oriente dagli anni della guerra fredda fino ad oggi, fa sì che l’esercito si configuri come la struttura più capace di rappresentare il senso di identità nazionale contro le minacciose pressioni che provengono dal mondo circostante. Non è casuale che un analogo crescente strapotere dell’esercito segni tutta la politica di Israele, permanentemente monopolizzata dal problema esclusivo della sicurezza[12].

La contraddizione che per questa via andrà a segnare tutta la evoluzione politica dei paesi arabi, fino ad oggi, è quella che Anouar Abdel Malek lucidamente individuava già negli anni Sessanta in riferimento all’Egitto: “Non è possibile costruire uno stato moderno senza una ‘classe dirigente’ nel senso gramsciano del termine; proprio quella classe che il regime militare si è adoperata ad eliminare dal 1952 in poi”[13]. L’esercito si arroga con successo una funzione di supplenza nel dirigere il processo di modernizzazione del paese, finendo poi per costituire l’ostacolo al suo pieno compimento. Il circolo vizioso sembra tuttora pienamente operante.

Non meno privo di radici e di legittimità è l’altra grande forza, l’Islam politico, che oggi coesiste con il potere militare nella marginalità di nuove formazioni “laiche”. In effetti, sarebbe del tutto erroneo giudicare la profondità dei legami che nella storia del mondo arabo legano Islam e politica sulla base della svolta jihadista che si delinea negli anni Ottanta nella resistenza antisovietica dell’Afghanistan per poi esplodere il decennio dopo in Algeria, come nuova guerra civile, e in Egitto come massiccia ondata di terrorismo, e per approdare infine all’attentato dell’ 11 settembre 2001[14]. Al movimento fa da contrappunto la teoria dello “scontro di civiltà”, formulata per la prima volta tra il 1990 (Bernard Lewis) e il 1993 (Samuel Huntington), cui si accompagna un’intensa attività militare Usa, dal Golfo ai Balcani[15].

La rilettura dell’Islam è il luogo in cui alla fine dell’Ottocento comincia a delinearsi in Egitto il profilo di una nascente identità nazionale e anticoloniale. Già negli anni Venti l’Islam è il referente ideale della rivolta di Abdel Krim nel Rif del Marocco come della strenua opposizione che Omar el Muktar conduce contro l’occupazione fascista della Libia fino alla sua cattura ed esecuzione nel 1931. Nel 1928 Hassan al Banna fonda in Egitto l’organizzazione dei Fratelli Mussulmani che si trasforma rapidamente in movimento di massa in quanto espressione del malcontento per l’arresto che il processo decolonizzazione sta subendo sotto la guida di formazioni politiche parlamentari[16]. Non a caso un momento chiave della crescita della organizzazione sarà la campagna di sostegno alla Intifada palestinese del 1936-1939.

La lettura che del movimento viene oggi data dalla storiografia tende a distaccarsi da una immagine stereotipa dei Fratelli Mussulmani come risposta patologica e sostanzialmente xenofoba al processo di modernizzazione/occidentalizzazione del paese. Più che su di una riaffermazione aggressiva del tradizionalismo religioso si mette l’accento sul suo essere forma della politica di massa, quale viene esplicitandosi attraverso un controllo capillare del territorio, un lavoro intenso di formazione di quadri dirigenti volto a spezzare la legge imperante del notabilato, una presenza capillare nelle organizzazioni studentesche e nei sindacati, oltre che in una diffusa azione caritativa di protezione sociale dei più svantaggiati. Vale forse la pena di ricordare anche che è stata proposta di recente una lettura gramsciana del fenomeno[17], che individua l’esistenza di un “progetto contro-egemonico” volto ad affidare la costruzione della politica di massa alla creazione di un nuovo quadro intellettuale resosi autonomo per i suoi valori e il suo sapere dal potere vigente.

In ragione del loro diffuso insediamento sociale, i Fratelli Mussulmani vanno incontro a periodiche repressioni. Il fenomeno di cui siamo stati spettatori lo scorso luglio 2013 è per molti aspetti la ripetizione di un pattern consolidato. Nel 1952 l’organizzazione appoggia il colpo di stato degli Ufficiali Liberi, ma nel 1954 Nasser inaugura una persecuzione violenta fatta di arresti torture ed esecuzioni che terminerà solo nel 1970 con la sua morte. Al lungo periodo di apertura che prende corpo con il regime di Sadat faranno seguito nuove repressioni di Mubarak in coincidenza con la svolta terroristica degli anni Novanta. Particolarmente cruenta sarà la repressione cui l’organizzazione viene sottoposta in Siria nel 1982 dal regime di Assad soprattutto nell’epicentro di Hama dove l’esercito consuma veri e propri eccidi di massa[18].

La capacità di rappresentazione dell’Islam politico non si spegne nemmeno in un paese come l’Algeria nonostante che, soprattutto a partire dalla svolta del 1965, il ricorso ai valori della tradizione si sia fatto, da parte della direzione di Boumedienne, sempre più intenso. I grandi successi elettorali del fis nascono, nella interpretazione di Benjamin Stora, dalle sue capacità di rappresentare una memoria della guerra e della storia del paese meno ufficializzata e più vicina al sentire della gente, riportando alla luce identità diverse a partire dal riconoscimento che la guerra contro i francesi fu anche nello stesso tempo una guerra civile tra algerini. In Algeria l’Islam politico rinasce, dopo le proteste sociali del 1988, come ricerca di nuove radici identitarie, oltre la narrazione astratta e autoritaria dello stato postcoloniale, sempre più lontano, in ragione della sua devastazione oligarchica, dal sentire delle nuove generazioni[19].

Un dato sembra dunque accumunare l’Islam politico, non jihadista, all’interno della storia dei diversi stati postcoloniali: la sua natura di barometro estremamente sensibile degli umori e delle aspettative della piccola borghesia e degli strati sociali più svantaggiati, in virtù della quale esso si pone nello stesso tempo come un gruppo di pressione destinato a pesare sempre in modo decisivo negli equilibri politici nazionali. Quello che non si coglie invece è la capacità di selezionare una classe dirigente all’altezza di questo sviluppo capitalistico, con soluzioni di governo adeguate alla estrema complessità della fase in corso. Morsi fallisce nel suo pur breve esperimento di governo per la incapacità di organizzare scelte alternative nella crisi economica in corso. Ma il caso egiziano, proprio perché il più complesso e avanzato, non fa che rendere più evidente un problema comune a tutti i paesi arabi, che le recenti rivolte hanno riproposto con forza: il difficile processo di costituzione di una classe dirigente come punto di raccordo tra stato e società civile, oltre la nuda contrapposizione tra la “modernità” garantita dalla forza repressiva dell’esercito e un “nazionale popolare” tramandato nel linguaggio della tradizione. Le due correnti, che si delineano nel mondo arabo della fine del xix secolo, aspettano ancora di trovare un punto di sintesi.

La grande pressione che il contesto internazionale esercita sugli sviluppi dei singoli paesi non può che rendere ancora più ardua la soluzione del problema.

3. Due secoli fa la spedizione in Egitto[20] pone fine a quello che si potrebbe definire il Mediterraneo di Rostovtzeff, di Pirenne, e poi di Braudel, tutti accomunati da un approccio “interazionista”, secondo il quale i conflitti politici e militari pur assai intensi non mettono in forse il sostrato di una cultura materiale comune, che si arricchisce della forte complementarità economica delle due sponde[21]. Dopo il 1798 il Mediterraneo diventa essenzialmente il teatro dello scontro tra le potenze che muovendo da aree diverse del pianeta lottano per la determinazione dell’ordine mondiale. La “questione orientale” attraversa tutto il secolo xix come vero epicentro delle relazioni mondiali (presiedendo alla formazione del nostro stesso stato unitario), con una configurazione geopolitica che perdura nella sostanza nel secolo xx fino ai giorni nostri, allorché la questione palestinese diviene il centro-motore dello scontro.

La recente escalation cui è stata improvvisamente sottoposta la questione siriana, con la minaccia di un diretto intervento militare, e il modo di una sua momentanea composizione negoziale, hanno riproposto i termini di un conflitto Est-Ovest che da due secoli condiziona in modo ferreo qualsiasi sviluppo politico dei paesi dell’area. Quando il grande antagonista russo allenta, per sue ragioni interne, la presa sull’area, i paesi dell’occidente fanno man bassa. Mentre la Russia si chiude nelle convulsioni della sua rivoluzione (dopo essersi però spinta nel febbraio del 1916 fino a conquistare Erzurum nel cuore dell’Anatolia) Francia e Inghilterra disegnano a loro piacimento la carta del Mediterraneo post ottomano. “A peace to end all peace”, si è detto giustamente[22], riferendosi alla nascita di una serie di conflittualità interne all’area su cui torna con grande dettaglio, per quanto riguarda l’oggi, il saggio di Fred Lawson.

Le grandi vittorie del nazionalismo arabo di mezzo secolo dopo sono impensabili senza la condizione di equilibrio che si ricrea con la guerra fredda, la cui conclusione spinge però puntualmente gli Stati uniti, momentaneamente protagonisti di un ordine unipolare, nel pericoloso sogno di ricreare l’impero[23]. Torna la politica di diretta presenza militare nell’area che trova nell’occupazione dell’Iraq il suo maggiore compimento e insieme l’inizio della sua crisi. Il Medio Oriente di oggi non è più quello immaginato nel 1916 dagli accordi Sykes-Picot come un’argilla malleabile a proprio piacimento. È un mondo che, entrato in ebollizione totale, sta vivendo la piena mobilitazione delle sue componenti più diverse, in cui crudi interessi statali si affiancano a identità religiose millenarie e a quello stesso potere finanziario cosmopolita, che impone la sua legge al mondo del capitalismo avanzato. Spinte possenti verso la modernizzazione possono esprimersi attraverso il riciclaggio di valori profondamente tradizionali dando luogo ad esemplificazioni particolarmente congrue di ciò che Ernst Bloch chiamava la “contemporaneità del non contemporaneo”[24]. In questa cornice qualsiasi previsione strategica si rende estremamente aleatoria per la quantità di variabili in campo.

La distruzione dell’ordine sunnita di Saddam Hussein si rovescia in un potenziamento di tutte le forze sciite dell’area, dall’Iraq in primo luogo, alla Siria e al Libano, che in modi diversi riconoscono nella Repubblica dell’Iran il loro punto di riferimento politico e spirituale. È un passaggio decisivo per la determinazione di un nuovo equilibrio regionale fondato sulla coincidenza di interessi tra l’Iran e la Turchia di Erdogan, potenziata da uno straordinario successo economico. Due paesi mussulmani, che pur nettamente diversificati dalla storia e dal presente dei paesi arabi, contribuiscono con la loro iniziativa politica ad allentare la presa dura che gli Usa e Israele hanno stabilito con l’avventura militare del 2003[25]. È all’ombra di questa sinergia che si rafforza la presenza e il potere degli Hezbollah, l’unica forza che in virtù della sua coesione interna e della ricchezza dei suoi legami comunitari si è dimostrata capace di sfidare con successo lo strapotere militare di Israele[26].

Le rivolte arabe, e in particolare l’esplosione della guerra civile in Siria, minano alle radici questo convergenza di interessi attraverso un gioco enormemente complesso di azioni e reazioni, dominato dalla esplosione di conflitti religiosi ed etnici. La repressione della oligarchia alawita di Bashar Assad scatena una controffensiva sunnita di tipo jihadista, che si avvale di un bacino di raccolta internazionale, oltre che di uno specifico supporto economico e militare proveniente dalle monarchie del Golfo. Contemporaneamente, la riattivazione della minoranza curda spinge Ankara verso un deterioramento dei rapporti con Iraq e Iran. I gruppi religiosi (sunniti e sciiti) e le minoranze etniche (curdi e azeri) variamente distribuiti nei quattro principali stati dell’area, Siria Iraq, Turchia e Iran, entrando progressivamente in fibrillazione, fungono come detonatore dell’insieme dei rapporti diplomatici vigenti: ciascun stato mira alla preservazione del proprio ordine e della propria integrità territoriale, rinunciando ad operare nello spirito di una qualsiasi più complessa logica di sistema[27].

È questo uno degli aspetti più contraddittori della mobilitazione democratica che si apre nel 2011. Il nuovo protagonismo delle minoranze religiose ed etniche spinge alla disgregazione delle unità statali esistenti, ora attraversate da incontrollabili correnti neocosmopolite, nella prospettiva di una polverizzazione delle soggettività politiche, che evoca inevitabilmente scenari di tipo libanese. Le possibilità di intrusione e di ricatto da parte dei protagonisti del grande confronto tra Est e Ovest tendono inevitabilmente a moltiplicarsi a tutto danno degli spazi di autonoma iniziativa politica delle forze regionali.

4. Da questa rassegna di temi risulta dunque come l’intenzione del volume non sia quella di fornire chiavi di lettura, quanto, molto più modestamente, di ricordare le facce molteplici di un processo storico in atto, che andrà seguito non solo per la sua complessità, ma anche per l’estremo livello di interazione che esso presenta con la nostra storia. Solo l’interruzione della decadenza araba potrà restituire al Mediterraneo il suo volto naturale di economia e di civiltà integrata. E solo in questo Mediterraneo potrà trovare soluzione il degrado sempre più marcato che questa mondializzazione sta imponendo ai paesi dell’Europa meridionale.



[1] Emblematica di questa impostazione è la islamologia di Bernard Lewis per cui si rimanda in via riassuntiva a What went wrong?Western impact and Middle Eastern response, London, Phoenix2002. George Corm riconduce indietro nel tempo l’origine dello stereotipo orientalista e chiama in causa come capostipite Ernst Renan e la sua drastica contrapposizione tra popoli indoeuropei e popoli semitici argomentata nel 1862 al Collège de France (cfr. George Corm, Le Proche-Orient éclaté 1956-1912, Folio, Paris 2012, pp. 115-130). Dei fondamentalismi che hanno pervaso la cultura politica occidentale con la lunga serie di guerre americane iniziata nel 1990 ha tentato una utile ricostruzione Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[2] Per una rappresentazione d’insieme di questo processo storico cfr. Adeed Dawisha, Arab nationalism in the twentieth century. From triumph to despair, Princeton University Press, Princeton 2003.

[3] Terry Lynn Karl, The Paradox of Plenty. Oil Booms and Petro-States, University of California Press, Barkley 1997. Per una bibliografia più comprensiva rimando al saggio di Elisabetta Bini.

[4] David Abulafia, The great sea. A human history of the Mediterranean, Allen Lane, London 2011, sostiene che alle emigrazioni e al turismo di massa è oggi sostanzialmente affidata l’unica forma di integrazione e di unità economica del Mediterraneo.

[5] Georges Corm, Il Libano contemporaneo. Storia e società, Jaka Boook, Milano 2006.

[6] Il fenomeno è analizzato con finezza da Abdelwahab Meddeb, La maladie dell’Islam, Seuil, Paris 2002. Per una analisi italiana del fondamentalismo parallelo, che in misura non minore segna tutta la storia dell’area, cfr. Renzo Guolo, Terra e redenzione. Il fondamentalismo nazional-religioso in Israele, Guerini e Associati, Milano 1997. Più in generale, Zeev Sternhell Nascita di Israele.Miti, storia, contraddizioni, Baldini e Castoldi, Milano 1999.

[7] La impossibilità di una indefinita sopravvivenza del regime di Mubarak, ad onta della sua apparente stabilità, era già sostenuta da Sophie Pommier, Egypthe l’envers du décor, La Découverte, Paris 2008.

[8] Jeffrey A. Winters, Oligarchy, Cambridge University Press, Cambridge 2011, pp. 135-206. Una analisi convergente sviluppata attorno alla nozione di crony capitalism, inteso come gestione familistica della economia nazionale, che diviene causa principale della rottura tra regimi autocratici e classi medie, si trova in Melani Cammett and Ishac Diwan, The political economy of the Arab uprisings, Westview Press, Boulder (CO) 2013.

[9] Cfr. Elie Kedourie, Politics in the Middle East, Oxford University Press, Oxford 1992. Là dove come in Libano il parlamentarismo sopravvive rischia continuamente di rovesciarsi in guerra civile.

[10] Amartya Sen, L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2006.

[11] Benjamin Stora, Le nationalisme algérien avant 1954, Cnrs Editions, Paris 2010.

[12] Sul grado di militarizzazione raggiunto dal Mediterraneo cfr. il rapporto di Fabio Mini, Mediterraneo in guerra. Atlante politico di un mare strategico, Einaudi, Torino 2012.

[13] Anouar Abdel Malek, Esercito e società in Egitto 1952-1967, Einaudi, Torino 1967, p. xiii. Il tema della costituzione di un potere incapace di assorbire le espressioni della diversità culturale è ancora al centro del suo successivo volume L’Egypte Moderne. Idéologie et renaissance nationale (1975), l’Harmattan, Paris 2004.

[14] Gilles Kepel, Jihad ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma 2000. Il libro esce alla vigilia dell’attentato delle due torri.

[15] Cfr. Bernard Lewis, The roots of the Muslim rage, in “The Atlantic Monthly”, September 1990 e Samuel Huntington, The clash of civilization?, in “Foreign Affairs”, Summer 1993.

[16] Brynjar Lia, The society of Muslim brothers in Egypt. The rise of an Islamic mass movement 1928-1942, Ithaca Press, Reading, Berkshire 1998.

[17] Massimo Campanini, Karim Mezran (a cura di), I fratelli mussulmani nel mondo contemporaneo, Utet, Torino 2010.

[18] Olivier Carré e Michel Seurat, Les Frères musulmans (19828-1982) (1983), l’Harmattan Paris 2001, pp. 123 e sgg.

[19] Benjamin Stora, Les guerres sans fin.Un historien, la France et l’Algérie, Éditions Stock, Paris 2008.

[20] Henry Laurens, L’expédition d’Egypt 179-1801, Seuil, Paris 1997.

[21] Sul Mediterraneo definitivamente “disintegrato” nel corso del xx secolo insistono Peregrin Horden e Nicholas Purcell, The corrupting sea. A study of Mediterranean history, Blackwel, Oxford 2000, in particolare pp. 1-5 e 18-45.

[22] David Fromkin, A peace to end all peace. The fall of the Ottoman empire and the creation of the Modern Middle East, Henry Holt, New York 1989.

[23] Rashid Khalidi, La resurrezione dell’impero. L’America e l’avventura occidentale in Medio Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Sullo stato di caos in cui gli interventi militari Usa gettano tutta l’area del Medio Oriente vedi anche, fino al 2005, Henry Laurens, L’orient arab à l’heure américaine. De la guerre du Golfe à la guerre d’Irak, Armand Colin, Paris 2005.

[24] La tesi di un intreccio costante tra secolarizzazione e ritorno al religioso è sostenuta da Olivier Roy, L’Islam mondialisé, Seuil, Paris 2002.

[25] Alexandre Adler, Rendez-vous avec l’Islam, Hachette, Paris 2005.

[26] August Richard Norton, Hezbollah. A short history, Princeton University Press, Princeton 2007.

[27] Sulle modalità della crisi che ha investito profondamente il regime di Bashar Assad, distruggendo tutto il suo sistema di alleanze, cfr. Kristin Helberg, Brennpunkt Syrien. Einbklick in ein verschlossenes Land, Herder, Freiburg, Basel, Wien 2012.