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Città globali. I nodi della rete del potere

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di ANDREA LIGI

Analizzare le città globali permette di situarsi al centro – nei centri – della produzione del capitalismo globale che si dispiega nel mondo contemporaneo. Permette così di cogliere i rapporti di forza, sfruttamento e dominio che da questi centri il capitale sviluppa. La città globale è in qualche maniera la sintesi estrema del mondo globale: in essa si mostrano ed esplodono tutte le contraddizioni del liberalismo totale, che si disfa delle gabbie statuali-nazionali e, poggiando sulla rete delle città globali, si impone su tutto il globo terrestre con differenti gradi di intensità. In questi centri – quelli di carattere effettivamente globale ammontano a una cinquantina –, si individuano forme di produzione terziaria interamente finalizzate a rifornire il mercato globale, nuove forme di agglomerazione economica, nuove forme di sfruttamento del lavoro, che segnalano il formarsi di nuovi modelli di accumulazione capitalistica, i quali generano nuove matrici di sfruttamento del lavoro. La città globale è il sito chiave per il dispiegarsi di questi processi: essa è sia un punto di comando di essi, sia una lente per lo studio delle dinamiche globali. Essa è anche un terreno vivo e instabile, nel quale nuove forme di lotta e pratiche di vita trovano sede.

Accentramento

È merito di studiosi come Friedmann e Sassen l’aver restituito centralità d’analisi alle grandi città del nostro tempo, a fronte dell’interpretazione predominante sul mondo globale dei primi anni Ottanta, che dava esclusivo risalto all’abbattimento delle distanze, alla dispersione delle attività economiche, al trionfo del mondo virtuale, all’inesorabile declino delle città come nodi centrali dell’economia, e così via. Friedmann e Wollf coglievano già nel 1982 che l’economia mondiale veniva sempre più gestita e controllata da un certo numero di città interconnesse le une alle altre a livello finanziario e decisionale[1]. Friedmann insisteva ancora sulle funzioni di controllo, sul potere, sull’addensamento dei quartieri generali delle grandi imprese economiche in queste città[2].

Il passo ulteriore di Saskia Sassen è quello di concentrarsi sulla produzione del potere economico globale[3]. La studiosa olandese riteneva che le trasformazioni strutturali che l’economia andava conoscendo tra gli anni Settanta e Ottanta dovessero trovare il loro fuoco nelle grandi città: esse riacquistavano così un ruolo centrale in quanto sedi di produzione, servizio, commercializzazione e innovazione nel nuovo modello economico che andava imponendosi. In esse iniziavano a prodursi in maniera sempre più massiccia i servizi alla produzione: si tratta dei servizi che si rivolgono alle organizzazioni invece che ai consumatori finali, e non solo quindi alle industrie produttive in senso proprio[4]. Questa, e non quella precedente dei servizi al consumo, è secondo Sassen la vera e propria terziarizzazione dell’economia.

In un contesto di crisi per gli intermediari economici tradizionali – principalmente le grandi banche transnazionali statunitensi – si apriva spazio per quei nuovi protagonisti dell’economia che iniziavano a offrire alla dispersione della produzione nuove forme di controllo e di profitto: negli anni Ottanta – entrando in sinergia con le tecnologie dell’informazione – esplode la finanza. La dispersione di produzione manifatturiera e la relativa espansione dell’investimento estero diretto, verificatesi nel campo dei servizi al consumo, richiedevano il tipo di controllo centrale che i servizi alla produzione riservano alle imprese, ma il vero punto di svolta si stava dando proprio per lo spazio che si era aperto al settore finanziario: alle grandi imprese servivano strumenti sempre più specializzati per essere competitive nell’economia globale. Inizia così a proliferare l’industria dei servizi, sia essa lo strumento finanziario, quello gestionale, la consulenza legale specialistica, quella pubblicitaria, e così via. Un numero sempre crescente di imprese globali, massimamente competitive, ricercano in queste ‘fabbriche’ la produzione di input sempre più raffinati: l’outsource è divenuto così negli ultimi dieci anni un metodo di produzione anche per le funzioni centrali di imprese colossali che in passato producevano autonomamente almeno questi servizi centrali. Essi non necessitano infatti di vicinanza con il cliente, ed è per questo che si registra un graduale allontanamento delle direzioni centrali di alcuni grandi colossi economici dalle città globali (tendenza questa in contrasto con il potere ‘formale’ che Friedmann vedeva andare a concentrarsi in questi centri). Nelle città globali si concentrano invece, per meccanismi di agglomerazione – in sostanza di massimizzazione della competitività e dell’efficienza – sempre più agenti finanziari, consulenti legali e pubblicitari, produttori di servizi informatici altamente specializzati. Elemento decisivo in questa corsa al migliore posizionamento rispetto al mercato economico globale, è la ricerca delle migliori infrastrutture tecnologiche disponibili. Le grandi città – e per distacco Londra, New York e Tokio – che già dagli anni Settanta offrivano le migliori infrastrutture di telecomunicazione, divengono così fin da subito i centri nei quali le imprese finanziarie, motore economico di questo meccanismo, si concentrano: in questo modo, l’investimento tecnologico in queste aree si è accresciuto sempre più, e sempre più imprese di servizi alla produzione vi si sono addensate – esse stesse hanno un bisogno massiccio di trasportare i loro servizi digitali –.

La città globale si configura insomma negli anni come una sorta di supermarket in cui circolano prodotti e innovazioni decisivi per l’economia globale, che trova in essa il suo laboratorio di ricerca. La finanza all’ingrosso è il più grande compratore di servizi alla produzione: è questo settore dell’economia a dominare il mondo globale, è per essa e in funzione di essa che si orientano e si agglomerano le altre specializzazioni, alle quali i settori altamente specializzati della finanza si rivolgono e si interfacciano per le loro attività. Nel contesto degli spazi economici aperti a partire dagli anni Ottanta, si crea così un terreno per le più profonde attività speculative, per una ricerca volta al guadagno nei più disparati campi, che si addensano nella città globale per via della serie di meccanismi ora accennati.

La Rete

Le città globali non sono soltanto in competizione l’una con l’altra: esse si costituiscono come elementi di un unico sistema, di un’unica rete globale, che è semmai in competizione con i rispettivi sistemi nazionali. Il risultato è la parziale decostruzione delle vecchie gerarchie di scala impostate su misure nazionali e la costituzione di nuove scalarità, in definitiva di un nuovo ordine mondiale.

Va rilevato, in questo senso, un cambiamento fondativo rispetto al sistema-mondo capitalistico moderno e rispetto a quelle che Fernand Braudel ha definito supervilles[5]: le città-mondo sono esistite per secoli, forse per millenni; nella modernità i centri finanziari dominanti si sono sempre estrinsecati in forma di imperi legati a un territorio (le potenti città italiane, Amsterdam e Londra con i rispettivi Stati)[6]. Seguendo Braudel, ciò creava una scala capitalistica mondiale, con un preciso centro di potere che creava una gerarchia di rapporti di forza basata sul rapporto centro-periferia, con moltissimi gradi intermedi. Al termine della Prima Guerra Mondiale Londra abdicava a New York e, in un mondo ormai definitivamente inquadrato in una geografia di Stati nazionali, nascevano molti centri finanziari importanti per le varie nazioni del primo mondo. Era questa una finanza inserita dentro le economie nazionali, spesso costruita, per quanto riguardava i suoi centri, attorno alle fortune della produzione industriale: si registrò, in specie dal secondo dopoguerra in avanti, una fioritura di centri finanziari basati su econonomie di scala prettamente regionale e dunque nazionale. In altri termini, le città si sono sempre inserite in gerarchie di scala, dove dal locale si passa al regionale e così via. Nel caso delle città mondo egemoni, queste hanno creato scale esse stesse; mai tuttavia le reti di città hanno costituito spazi e ordini multiscalari come accade nel mondo globale, nel quale le città più potenti si staccano in definitiva dalla coazione territoriale imposta loro dagli Stati per andare a creare una rete parzialmente – e in alcuni aspetti totalmente – autonoma. Mai, inoltre, si è visto il centro decentrarsi e dislocarsi in aree tra loro distanti migliaia di chilometri come accade oggi, laddove nella modernità le relazioni di potere erano di stampo prettamente gerarchico, con un centro egemonico, delle aree intermedie, e zone periferiche e subordinate, sia geograficamente sia economicamente.

A partire dagli anni Ottanta, la situazione inizia radicalmente a cambiare: l’apertura delle economie nazionali agli investitori esteri e l’esplosione delle innovazioni finanziarie accrescono la natura speculativa della finanza – e iniziano a sostituire, in quanto fonte di capitale, i sistemi delle banche commerciali nazionali maggiormente regolamentate – rafforzando la tendenza alla concentrazione in un numero limitato di centri finanziari. Si entra nell’era globale, che comporta, per le città sedi di centri finanziari, enorme accentramento di risorse. A seguito di un’immediata concentrazione nelle città di Londra, New York e Tokio, già a inizio anni Novanta è osservabile una forte espansione: le attività finanziarie e i servizi alla produzione cominciano ad addensarsi in luoghi specifici, ovvero nei centri finanziari delle città globali dei rispettivi paesi: Parigi in Francia, Francoforte in Germania, Milano in Italia, Toronto in Canada, e così via[7]. Esiti simili si sono avuti nei paesi in via di sviluppo. In ogni nazione la grande finanza tende così a concentrarsi in un unico centro: si assiste, in un decennio, al declino di centri finanziari importanti e spesso in crescita. È il caso tra gli altri di Basilea, Montreal, Melbourne, Osaka, Lione, che hanno dovuto lasciare il monopolio a Zurigo, Toronto, Sidney, Tokio, Parigi.

Nel giro di vent’anni si è così costituita una geografia di città globali, riconosciuta da un numero sempre maggiore di studiosi. L’iniziativa probabilmente più importante nello studio della rete globale è quella avviata da Peter J. Taylor all’interno del dipartimento di geografia della Loughborough University: il progetto coordinato dal geografo inglese, GaWC (Globalization and World Cities), mira a fornire, sin dalla seconda metà degli anni Novanta, delle mappature il più esaustive possibile dei nodi del potere globale, concentrandosi sulla produzione di questo potere[8]. Lo stesso Taylor muoveva nel 1997[9] dall’idea che le città globali fossero tra loro in una gerarchia di rapporti di forza, ma obiettava alla comunità scientifica la scarsità di dati empirici tramite quali poter delineare stime apprezzabili sui rapporti che legavano queste città[10]Taylor avrebbe poi adottato un metodo differente, volto a tracciare una rete di città tramite un approccio quantitativo e non più qualitativo riguardo la raccolta dei dati, secondo l’idea che non sia tanto importante delineare una gerarchia tra le città quanto che le stesse città abbiano rilevanza solamente in quanto parti della rete (Taylor 2001, 2004). Parnreiter[11] nota, probabilmente a ragione, che il concentrarsi esclusivo sulle connessioni tra le città, trascurando il grado di intensità di queste, non permette di problematizzare adeguatamente i rapporti di forza che si instaurano nella rete urbana globale, che risulta essere allo stesso tempo interconnessa e unitaria ma anche gerarchica e generatrice di fortissime forme di competizione al proprio interno. 

Ciò che si può ricavare dagli studi finora prodotti è certamente che l’economia globale è già arrivata a un livello di intensità tale da avere bisogno della rete delle città per sussistere, in una connessione sistemica che sembra prevedere al proprio interno un modello gerarchico anomalo, nel quale nessun centro è realmente autonomo. È questo un sistema nel quale vi è l’interesse ad immettere sempre più centri e nel quale del resto i centri dominanti, allo stesso tempo, consolidano posizioni di dominio. Si aggiungono allora nuovi motivi che consentono l’accentuarsi della gerarchia all’interno della rete: infrastrutture, risorse umane, informazioni, valutazioni e vendibilità dei rischi, nuove tendenze globali, innovazioni, si concentrano, si ricercano e si promuovono sempre di più in pochi centri, dai quali l’economia globale viene controllata, venduta, arricchita. Ad esempio, per quanto la rete si espanda, «la produzione dell’innovazione tende a rimanere concentrata nei centri leader, che hanno non soltanto le competenze specialistiche ma anche l’influenza per convincere gli investitori a comprare strumenti innovativi»[12]. La gestione del rischio, ossia sostanzialmente la decisione sul punto fino al quale si può speculare nel mondo della finanza, si accentra drammaticamente e per due motivi: è più facile raccogliere informazioni e accordarsi in fretta riducendo il margine d’errore; e allo stesso tempo viene sviluppata una politica di potenza – e follia – volta a impostare l’economia globale secondo binari prestabiliti. Da pochi centri si dettano insomma le linee guida per quantità enormi di transazioni finanziarie – semplificando, si potrebbe dire tutte –: è per questo motivo che il prezzo delle crisi finanziarie viene pagato a livello globale. In pratica, gli errori si riverberano[13]. In questa gerarchia anomala nessun centro ha al momento un reale vantaggio nell’esercitare un’egemonia sugli altri centri – se non per quanto riguarda una particolare specializzazione –: alle performance offerte da una città, sono necessarie quelle di un’altra, e non esiste la città globale perfetta, autonoma. Inoltre, più la rete si espande, più ogni centro trae giovamento da ciò. I centri che stanno ai livelli gradualmente inferiori della gerarchia aprono all’economia globale le risorse delle nazioni in cui si trovano.

Gli sviluppi in questa rete in espansione sono tutti a venire. Vi sono almeno due centri finanziari – Londra e New York – che, per quanto in connessione sistemica e in collaborazione con tutta la rete globale, si distinguono per la potenza formidabile che esprimono: l’asse di forza tra queste due città – che genera una centralità globale di produzione finanziaria e interscambio di lavoratori d’alto profilo professionale, talvolta identificata con l’espressione NYLON – è probabilmente il centro di gravità del sistema che si delinea, spesso esteso alla zona dell’Atlantico del Nord; altri siti chiave per l’economia globale in ritrovano in Cina, in Giappone, ancora in Asia sud-orientale e in America Latina. Il centro di gravità situato nell’Atlantico del Nord fissa un sistema di norme e standard per l’economia globale: la geografia della globalizzazione ha un suo centro, che detta condizioni da posizioni occidentali e in particolare dall’interno delle città globali dei primi paesi del mondo. Lo stesso Taylor ha peraltro in anni recenti aperto a nuove strade di ricerca lasciando priorità all’idea della centralità della rete, ma concentrandosi allo stesso tempo sul ruolo di alcuni assi chiave – intensivi – del mondo globale che poggiano su alcune delle città principali[14]. Questa lettura è utile a mostrare che il baricentro di questa geografia si sta spostando, come volumi, verso il Pacifico – con Hong Kong, il polo ultraliberale cinese, in prepotente ascesa a ridosso di Londra, New York e Tokio – ma che allo stesso tempo quella che Taylor definisce intensive globalization prende ancora le sue forme e sceglie le sue regole da una prospettiva anglosassone[15]. Se si segue questa lettura le prime otto città al mondo risultano insomma essere Londra e sette centri statunitensi: in questo senso il centro di gravità del sistema è effettivamente la zona dell’Atlantico del Nord – i sistemi che si orientano al globale dall’Oriente e dal Sud America fanno riferimento agli standard impartiti da questa area –. Un ruolo importante nel definire questa geografia verrà giocato dagli sviluppi a cui sarà sottoposta l’UE. I dati sull’Europa continentale mostrano una gerarchia che fatica a definirsi, con Parigi che risulta sempre in testa e Francoforte che del tutto verosimilmente si consoliderà come l’altro centro nevralgico.

La realtà è insomma quella di una centralità istituzionalizzata dei centri globali di maggiore peso, che dominano e si implementano su una rete globale in continua espansione: proprio l’interdipendenza di questi centri e la necessità dell’espansione della rete globale fanno preferire le interpretazioni che tendono a escludere possibilità di egemonie statuali-territoriali, anche nella forma duopolistica U.S.A.-Cina[16]. Si può dire insomma che nelle città globali si formano territori parzialmente slegati dalla territorialità nazionale, tramite i quali l’economia globale fa il suo gioco, spesso aggirando il nazionale, ma trovando in esso sede, appiglio, legittimità giuridica. La rete del globale – con le città globali come nodi – sfonda, aggira, riempie di nuovi contenuti, la scalarità univoca del nazionale: all’interno del territorio dello Stato nascono nuovi territori, che si proiettano sul globale saltandovi direttamente a partire da una scala economica locale, che però non si inserisce in quella dello Stato – o perché è altamente deregolamentata o perché informale, degradata, sfruttata (e perciò tantopiù costitutiva di questo tipo di economia altamente competitiva, come cercheremo di mostrare meglio in seguito) –. In ogni caso, il nazionale per come si era costruito nel corso del XX secolo, è tagliato fuori. Il primo e inevitabile ponte che senz’altro viene fornito da ogni Stato all’economia globale è quello di effettuare deregolamentazioni dell’economia nazionale: l’accentramento verso un’unica città diviene l’inevitabile conseguenza, per i benefici derivanti dall’agglomerazione. Il prezzo d’accesso all’economia globale per gli Stati è però spesso alto: una nazione perde controllo sui suoi capitali e la gran parte degli investitori che realizzano guadagni possono benissimo essere esteri. Nella rete globale iniziano così a circolare nuovi capitali a discapito di quanto rimane – tanto, in termini quantitativi la maggior parte della realtà sociale, che ne paga il prezzo – delle economie ancora locali, regionali, quindi nazionali: in questi centri, tanto più dunque in quelli di paesi arretrati o in via di sviluppo, si vede l’economia globale denazionalizzare il nazionale. Il prezzo più alto da pagare, come al solito, è per i meno abbienti. Le città dei paesi che via via si affacciano attivamente sull’economia globale, aprono ad essa i capitali nazionali, che così fortifica continuamente la sinergia della sua rete, senza che nello stesso tempo vi sia una connessione con la crescita delle economie locali coinvolte. Gli investitori dell’economia globale sono o esteri o comunque sganciati dall’economia nazionale[17]. Gli Stati insomma si slegano, almeno parzialmente, dalla loro dimensione nazionale, volgendosi a politiche basate sull’efficienza economica. Perso il monopolio della sovranità gli stati utilizzano il potere rimasto per favorire le forme più barbare di capitalismo, abbandonando ovviamente gli individui – siano essi i cittadini dell’ex stato sociale, o la nuova forza lavoro migrante e precaria –. Il danno immediato che si produce è così la rottura del legame tra crescita e consumo che aveva trovato nel secondo dopo guerra un fragile equilibrio – destinato del resto a saturarsi immediatamente,per motivi sia economici sia politici[18] –. In altri termini, il capitalismo globale riesce a svincolarsi da ogni – pur effimero – argine ad esso imposto dalla tarda modernità politica. Quella attuale risulta essere un’economia fondata su discontinuità sistemiche, e che ha tra i suoi postulati fondamentali il legame tra crescita e declino di alcuni settori rispetto ad altri: nell’economia globale si creano circuiti discontinui che tagliano fuori fette intere di economia locali e regionali per saltare direttamente a quella globale, arricchendo una piccolissima parte – il famigerato 1% – di quelli che vi partecipano, e sfruttando tutti gli altri – sia coloro che sono direttamente coinvolti nei suoi circuiti, sia coloro che ne sono esterni, poiché tutti pagano il prezzo delle nefandezze e delle crisi globali –.

Sfruttamento

Con l’ingresso nell’economia globale dunque, aumentano invece che diminuire le differenze sociali, il divario tra ricchi e poveri, lo sfruttamento sistematico dei soggetti sociali. In quelli che oggi sono i centri nevralgici del nuovo mondo, si registrano altissimi livelli di polarizzazione, precarizzazione e informalizzazione nel mercato del lavoro.

La polarizzazione si registra con gradi diversi nella quasi totalità dei paesi con economie sviluppate o in via di sviluppo. Essa si concentra ovviamente nelle città globali, che si mostrano ancora come motori e specchi dell’economia globale[19]. La disuguaglianza fra le potenzialità di profitto dei diversi settori dell'economia è connaturata alle economie avanzate, e ovviamente ricchezza e povertà coabitano da sempre nelle grandi città, in stridente contrasto. Gli ordini di grandezza odierni e le modalità odierni generano tuttavia discontinuità nette e inversioni di tendenza rispetto al passato. Ciò che crea disuguaglianza dal punto di vista dei regimi occupazionali nelle città più grandi è proprio l'ascesa della finanza e in particolare quel tipo di economia basata sulla produzione di servizi. Ciò consente innanzitutto ai capitalisti di erodere i diritti dei lavoratori nell’industria manifatturiera, di smantellare solidi strumenti di protesta, di chiudere impianti produttivi efficienti grazie ai metodi di produzione globale. Le disuguaglianze tuttavia– fattore intimamente costitutivo di questo nuovo modello di accumulazione capitalistica – si accentuano tanto più nei circuiti che partecipano ai settori più ricchi dell’economia. Bisogna notare come uno degli esiti principali del mondo globale, speculare alla crescita di una popolazione ad alto reddito sia l’esplosione di molti tipi altri, nascosti, sotterranei, di attività economiche e lavoratori ritenuti superflui o marginali, ma che sono indispensabili ai primi: alla terziarizzazione reale dei servizi, alla produzione si lega un’economia dei servizi degradata, sottopagata, indispensabile alla prima. In questo contesto si creano ovviamente i massimi divari di retribuzioni tra salari alti e bassi. Gli appartenenti alla prima categoria stimolano ancor di più con le loro necessità di vita quotidiana l'occupazione degli appartenenti alla seconda: custodi, camerieri, segretari(e), fattorini, venditori ambulanti di panini, badanti, colf, e così via.

Questa polarizzazione cambia il mercato del lavoro perché si unisce a un'altra dinamica: quella della precarizzazione del rapporto di lavoro; quest’ultima riguarda, oltre che le mansioni tipicamente precarie, anche molte mansioni professionali stabili dal punto di vista contrattuale e caratterizzate da una continuità di reddito. Il mercato, e non più l'impresa, ha il ruolo predominante nello strutturare il rapporto di lavoro. La contrazione della domanda di lavoratori a medio salario – e della relativa prospettiva di specializzazione e di fare carriera –, apre sempre di più a un mercato del lavoro – oltre che precario –, transnazionale, aperto ai migranti e alle donne; il lavoro a tempo parziale e instabile diviene una realtà di fatto. In tutti i casi esposti è sempre il settore dei servizi a basso salario a soddisfare la maggior parte delle richieste di impiego.

Polarizzazione e precaricarizzazione sono cause prime dell’informalizzazione di ampi settori lavorativi nelle città globali. Dei circuiti di lavoro informale fanno parte, ad esempio, tutte le imprese che, pur con lavoratori in regola, non rispettano le norme su igiene, condizioni di lavoro, destinazioni stabilite dai piani regolatori, tassazioni e così via. L’economia informale si riplasma costantemente in relazione alle opportunità e ai vincoli creati dall’economia formale. Infatti «it is the existence of an informal economy in a context where such work is in effect regulated that makes this a distinct historical process»[20]: in sostanza ciò che è decisivo cogliere è la crescita del lavoro informale in quanto risposta efficace agli standard dettati dall’economia globale[21]. La spropositata ricchezza di coloro che determinano l’economia cittadina – e globale – attiva una serie di circuiti per i quali una sempre più vasta gamma di beni è fornita da settori informali dell’economia, che altrimenti non riuscirebbero a sussistere. Va rifiutata l’interpretazione che vorrebbe spiegare la crescita di quest'economia nel primo mondo secondo le carenze economiche dei paesi meno sviluppati e quindi sostanzialmente per via dei flussi migratori provenienti da questi stessi paesi. Per inciso, è stata la brutalità del capitalismo contemporaneo di matrice occidentale ad attivare i flussi migratori globali odierni[22]. In questo contesto è giusto allo stesso tempo insistere, come fa Mezzadra, sull’«autonomia delle migrazioni», senz’altro in questo senso: i migranti sono sì inseriti nei circuiti del capitalismo globale, che ne orienta i flussi, ma una volta forzati a entrarvi, reclamano nuovi diritti e praticano nuove forme di opposizione allo sfruttamento imposto dal capitalismo[23]. Ad esempio, nel sud-est asiatico, divenuto il maggiore motore manifatturiero del capitalismo contemporaneo, si formano imponenti nuclei di persone sradicate e abbandonate a se stesse; le lavoratrici – più produttive degli uomini perché maggiormente disciplinate e disciplinabili – vengono spesso licenziate dopo pochi anni per essere rimpiazzate da altre lavoratrici più giovani e quindi più disponibili ed efficienti, dopo essere state sfruttate sino alla perdita di una buona vista o manualità: si formano insomma nuclei di persone sradicate dai loro modi di vita abituali, disoccupate, e non più occupabili. Queste persone, vittime del capitalismo globale, reclamano presenza, e spesso emigrando vanno a esaudire l’alta domanda di lavoro marginalizzato presente nelle città del primo mondo.

L'informalizzazione va così vista nel contesto del cambiamento del modello di accumulazione economica: sono «le crescenti disuguaglianze fra i redditi dei consumatori e fra le potenzialità di profitto dei diversi settori dell'economia urbana, che hanno promosso l'informalizzazione di una serie sempre più vasta di attività economiche»[24]. La geografia spaziale e temporale della città è dominata dai settori legati alla finanza: ciò spinge al rialzo i prezzi degli spazi commerciali; i settori di punta tendono a concentrarsi nei distretti centrali, le comunità povere vengono anche spazialmente isolate, e la crescita di queste zone è quasi inesistente. I servizi e i beni offerti informalmente riescono ad adattarsi flessibilmente alle esigenze della popolazione e del mercato; ne sono esempio la riduzione dei prezzi, i servizi per i lavoratori a basso reddito, il crescente numero di sweatshops, la costituzione di imprese che ruotano intorno a bacini di manodopera utilizzabili informalmente. In molti casi, per queste ultime l'unica possibilità di successo è operare informalmente, anche quando la domanda di lavoro fronteggiata è già di per sé stabile o addirittura crescente: la competitività imposta dall’economia globale è insostenibile, e porta allo svilimento sociale di lavori dei quali vi era già domanda. In sintesi l’informalizzazione può essere identificata come una sorta di deregulation dal basso, essenziale all’economia globale[25].

Molti dei circuiti informali del lavoro sono attivati direttamente dalle richieste degli abitanti ricchi delle città: è in quest’ottica che va letto il fenomeno della cosiddetta gentrification: la signorilizzazione delle fasce di popolazione ad alto reddito si basa sostanzialmente sulla disponibilità di manodopera a basso costo, illegale, disposta a lavorare in condizioni non sicure. Ma non solo: intere porzioni di popolazione residenti nelle città globali si trovano a essere forzatamente gettate nella miseria e nella disperazione direttamente da processi di espropriazione messi in atto dal capitale. Nuove aree vengono valorizzate arbitrariamente e gettate nell’arena della competizione, ai danni dei poveri abitanti che vengono espropriati con motivazioni del tutto arbitrarie e non di rado attraverso modalità violente: il capitale tira così in ballo nuovi soggetti che sono costretti per sussistere a entrare nei suoi circuiti economici dal polo degradante[26]. Chi non rientra più in nessuno dei circuiti che abbiamo delineato è la classe media, la quale basava i suoi consumi su supermercati, elettrodomestici, grandi magazzini, e che infatti dalle città globali ha sostanzialmente iniziato a defluire a partire dagli anni Settanta.

La nuova economia urbana dunque non soltanto rafforza le disuguaglianze esistenti, ma innesca una nuova serie di dinamiche della disuguaglianza. Semplificando, se nel secondo dopo guerra il capitalismo era riuscito a nascondere i panni sporchi promuovendo un modello economico basato sui consumi e sulla crescita della classe media per la crescita del profitto in generale, esso si sdogana oggi da solo nella sua efferatezza, poiché la povertà e la miseria più nere diventano centrali in questa nuova geografia del potere. Come abbiamo indicato, si installano nelle città globali circuiti economici apparentemente periferici e marginalizzati dalle istituzioni, ma che hanno sede nei centri del nuovo modello economico: la perifericità, la marginalità, piombano nel centro dell’attività economica – laddove si concentra il più alto tasso di ricchezza –, il che rappresenta una netta rottura con il passato[27]. Le classi svantaggiate non vengono in nessun modo riconosciute come costitutive di questo sistema economico e vengono perciò svalorizzate con facilità dal capitale: esse vengono anzi criminalizzati, tantopiù poiché spesso costituiti da lavoro migrante. Gli Stati, nuovi attori non più sovrani, ricercano nuove alleanze con il capitale privato globale, e praticano nuove politiche di esclusione e di emarginazione verso i soggetti più sfruttati: oggi più che mai il concetto di unità nazionale si svela nella sua artificialità[28].

È così che, nella sciagura, ai soggetti che costituiscono il capitalismo globale dal basso è forse riservata una possibilità di riconoscimento maggiore, più immediata, rispetto a quella che avevano ottenuto le lotte dei lavoratori nel corso dei secoli dal XVIII al XX. Nel suo aver rinegoziato la sua alleanza con lo Stato infatti, il capitalismo globale ‘regna’ in maniera immediata su tutto il globo, ma in maniera altrettanto immediata si offre alle lotte odierne che, anche da dimensioni locali, acquistano direttamente dimensione globale, poiché su tutto il globo si estende il loro mostruoso e deforme nemico; inoltre, esso si è smascherato da solo e manca di legittimità, e tanto più di legittimità politica[29].

Lotta

Molte delle categorie sociali alle quali il capitalismo fa pagare il prezzo più alto per le sue pratiche si incontrano come abbiamo visto nella città globale, terreno vivo e instabile. In queste terre i soggetti esclusi del mondo globale trovano il campo più adatto per manifestare una presenza che cade del tutto fuori dall’ambito della politica formale, ma che non li pregiudica per ciò come marginali: parliamo infatti degli stessi soggetti che vanno a comporre in maniera costitutiva i circuiti economici delle città globali, e che si situano fisicamente nei centri del potere odierno[30].  La città globale diventa sempre più spesso un terreno nel quale essi si incontrano, consapevoli del loro ruolo all’interno della città, con l’intenzione di far valere questa consapevolezza: essa diviene direttamente un sito per le loro attività e rivendicazioni politiche, poiché il legame delle persone con il territorio per come è costituito nelle città globali è assai meno mediato dallo Stato nazionale o dalla cultura nazionale di quanto non lo sia in altri luoghi – per esempio, periferie e piccole città –. Nelle città globali, la perdita d’identità rispetto alle sue fonti tradizionali, in particolare nazione o villaggio, può generare nuove concezioni di comunità d’appartenenza, nuove spinte associative per la rivendicazione dei diritti, nuove pratiche di vita legate al luogo. Tutte le dinamiche che abbiamo visto comporre i circuiti delle città globali dall’alto e dal basso della scala economica, destabilizzano insomma l’unità territoriale-giurisdizionale di questi luoghi, dai quali viene a mancare quantomeno parzialmente l’autorità degli Stati: la città si apre a molteplici atti e rivendicazioni ‘sovrani’ sub e sovra-statuali; in questo senso, dovunque ci sia uno spazio conteso c’è una questione complessa legata a potere, diritti, pratiche di vita. In una prospettiva di lotta sembra utile parlare di diritto alla città nel modo in cui lo intende David Harvey: il diritto alla città deve essere visto come «una stazione del viaggio che conduce all’obiettivo»[31] dell’abbattimento dello sfruttamento di classe e insomma del dominio del capitale. D’altra parte, nota Harvey, il diritto alla città viene oggi praticato a piene mani dagli uomini della finanza e delle grandi corporations in combutta con gli apparati governativi alleati e complici di questo sistema. La città stessa è stata plasmata per essere il terreno costitutivo del modello di accumulazione globale: «l’urbanizzazione è quindi da intendersi come l’intreccio tra la continua produzione di un common urbano (anche nelle ‘forme differite’ di spazi e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione e distruzione da parte di interessi privati»[32]. Il tentativo di praticare questo diritto verso verso l’abbattimento e il rovesciamento dello stato di cose presente non può allora che partire dai luoghi che del capitalismo contemporaneo sono tra i nodi nevralgici, e non può accontentarsi di rivendicare diritti nei confronti di interlocutori votati esclusivamente al culto del profitto, abili da sempre – da quando il capitalismo è proliferato nel mondo – a fare concessioni, a concedere diritti, i quali dovrebbero invece essere creati e vissuti autonomamente da chi si vuole opporre allo sfruttamento, cosa che è stata resa impossibile nella modernità dall’orizzonte pratico, teorico, politico, dello Stato nazionale.

Sono gli stessi soggetti che abitano questi terreni instabili dal basso a liberarlo talvolta dalle sue maglie nazionali, e a riappropriarsene per reclamare la propria presenza: movimenti come quelli della primavera araba, degli Indignados, di Occupy Wall Street e tanti altri che abbiamo visto proliferare negli ultimi tempi – fra cui anche quello del 19O –, sono tra i segnali più potenti dell’esigenza da parte di nuovi attori globali che abitano queste città di costituirsi in pezzi di territorio autonomi, il che vuol dire rivendicare autonomia sulla pratica della propria vita contro l’imposizione che giunge dall’alto in maniera indefinita, non regolata, sregolata[33]. Questi movimenti hanno avuto come primo importante punto in comune l’esigenza di occupare degli spazi per ricercare in essi nuove forme di vita autonome, sganciate dall’imposizione proveniente dall’alto. L’allestimento di spazi di discussione, di ricreazione, di cura, di mense gratuite, segnalano l’esigenza di esplorare nuove forme di comunità, condivisione e autorganizzazione, insomma di vita, sganciate dalle logiche del dominio del capitale. Le proteste globali sono inoltre caratterizzate da un alto livello di interconnessione reciproca e da un comune modo di percepire i problemi, pur nelle profonde differenze tra i singoli movimenti. Le lotte che hanno preso il via dalla fine del 2010 nel mondo arabo e che si sono poi diffuse a livello sostanzialmente globale, si sono costantemente richiamate l’una con l’altra, inneggiando alle piazze già in lotta e trovando denominatori comuni di lotta nell’identificazione del capitalismo e della classe politica ad esso subordinata e alleata come nemici[34]. Il fatto che la molteplicità di questi attori sia collocata o possa andare a collocarsi al centro delle città globali, che come abbiamo visto sono in connessione sistemica fra loro, li pone inoltre anche logisticamente in delle reti di lotta, e fa sì che la loro presenza possa segnalarsi con ancora più forza, poiché reclamandola essi si mostrano come attori centrali per i nuovi assemblaggi entro i quali sono inseriti[35]. L’apertura che questi soggetti ricercano verso nuove forme di vita sociale all’interno della città non implica ovviamente quasi mai un loro riconoscimento istituzionale, ma ciò è forse soltanto positivo, poiché è la gente in lotta al centro di queste città ad avere i mezzi per tentare di istituire nuove forme di diritto alla vita slegate dalle logiche del capitale e quindi dello sfruttamento.



[1] J. Friedmann e G. Wolff, World City Formation: an Agenda for Research and Action, «International Journal of Urban and Regional Research», 1982, 6(3), pp. 309-344.

[2] J. Friedman, The World City Hypothesis, in «Development and Change», 1986, 17, pp. 69-84.

[3] S. Sassen, Città globali, New York, Londra, Tokio (1991), Torino, UTET, 1997.

[4] Questa definizione di servizi alla produzione si deve a H. Greenfield, Manpower and the Growth of Producer Services, NewYork, Columbia University Press, 1966. La definizione più esaustiva di Sassen è come segue: «considero i servizi al produttore e, in modo particolare, i servizi finanziari e avanzati alle corporation, come industrie che producono i beni organizzativi necessari alla realizzazione e alla gestione di sistemi economici globali. I servizi al produttore sono output intermedi, ossia acquistati dalle imprese. Riguardano l’aspetto finanziario, legale, questioni di direzione generale, innovazione, sviluppo, progettazione, amministrazione, personale, tecnologia della produzione, manutenzione, trasporti, comunicazioni, distribuzione all’ingrosso, pubblicità, servizi di pulizia per le imprese, sicurezza, immagazzinamento. Componenti centrali della categoria dei servizi al produttore sono una gamma di industrie che operano sui mercati misti di affari e consumatori: assicurazioni, attività bancaria, servizi finanziari, immobili, servizi legali, associazioni di contabilità e professionali» (S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione (2007), Torino, Einaudi, 2008); per una guida a questo settore dell’economia si veda l’opera The Service Industries Handbook, a cura di J.R. Bryson e P.W. Daniels, Cheltenham (UK), Edward Elgar, 2006.

[5] F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo: secoli XV-XVIII, vol. 3: I tempi del mondo (1979), Torino, Einaudi, 1982.

[6] Sulla coazione territoriale imposta dagli Stati si veda ad esempio C. Tilly, L’oro e la spada. Capitale, guerre e potere nella formazione degli Stati europei, 990-1990 (1990), Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, pp. 64-67.

[7] S. Sassen, Le città nell’economia globale (1994), Bologna, Il Mulino, 20103, pp. 99-120.

[8] http://www.lboro.ac.uk/gawc/, ultimo accesso 29/12/2013.

[9] P. Taylor, Hierarchical Tendencies amongst World Cities: A Global Research Proposal, in «Cities», 1997, 14 (6), pp. 323-332, consultabile gratuitamente all’indirizzo http://www.lboro.ac.uk/gawc/rb/rb1.html, ultimo accesso 29/12/2013.

[10] Di riferimento rimanevano i lavori di Friedmann e soprattutto di Sassen. Due anni dopo ancora Taylor dava così alcune indicazioni di ricerca: «following Sassen's argument […], we focus on advanced producer services corporations where their global reach is part of their product. This reach is centred upon their networks of offices and it is this which our preliminary research has targeted. It is these offices which are in world cities and make the latter worthy of their name. We have constructed a data bank on office geographies covering 69 corporations over 263 cities. Corporations are from four sectors, accountancy, advertising, banking/finance and law, and the information for each of the cities ranges from simple presence/absence of a firm through to numbers of practitioners a corporation has located in each city» (cfr. P. Taylor, World Cities and Territorial States under Conditions of Contemporary Globalization, in «Political Geography», 2000, 19(1), pp. 5-32, consultabile gratuitamente all’indirizzo http://www.lboro.ac.uk/gawc/rb/rb9.html, ultimo accesso 29/12/2013).

[11] C. Parnreiter, Network or Hierarchical Relations? A Plea for Redirecting Attention to the Control Functions of Global Cities, http://www.lboro.ac.uk/gawc/rb/rb431.html, 14/10/2013, ultimo accesso 29/12/2013.

[12] S. Sassen, Le città nell’economia globale, cit., p. 167.

[13] Cfr. S. Sassen, Le città nell’economia globale, cit., pp. 167, 170-174. Sulla creazione di economie dell’agglomerazione riguardanti la gestione del rischio e la messa a punto di nuovi standard per l’economia globale si veda S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, (2006), Milano, Bruno Mondadori, 2008, pp. 441-463. Ciò che emerge è in ogni caso la responsabilità della grande finanza nel mobilitare la crisi, soprattutto attraverso nuove forme di speculazione, e in particolare con lo strumento derivato del credit default swap; le colpe sono spesso state fatte ricadere sulle classi meno abbienti incapaci di ripagare gli sciaguratamente celeberrimi mutui sub-prime, quando in realtà queste sfortunate persone hanno avuto l’unica colpa di subire speculazioni inverosimili alle loro spalle. Si può, in questo senso, certamente dire che nelle città globali si condensa per ‘agglomerazione’ anche il più alto grado di delinquenza, scelleratezza e follia conosciute nel mondo contemporaneo, in un tipico esempio di utilizzo barbarico della ragione, che dialetticamente – nell’acccezione di Horkeimer e Adorno – si ripiega su se stessa per creare soltanto distruzione. Uno sguardo molto acuto dentro la storia della crisi finanziaria del 2008 è quello del cronista finanziario M. Lewis, The Big Short – Il grande scoperto (2010), Milano, Rizzoli, 2011.

[14] P. Taylor, M. Hoyler, K. Pain, S. Vinciguerra, Extensive and Intensive Globalizations: Explicating the Low Connectivity Puzzle of US Cities Using a City-dyad Analysis, http://www.lboro.ac.uk/gawc/rb/rb369.html, 21/12/2010, ultimo aggiornamento del 20/9/2012, ultimo accesso 29/12/2013.

[15] «Intensive globalization has been created largely by law firms and more specialised financial services. As a process it can be interpreted as indicating globalization's origins in mid-twentieth century Americanization. As an outcome it can be interpreted as a continuing core of the globalization process. Extensive globalization has been created largely by accountancy and advertising firms. As a process it can be interpreted as the diffusion of globalization from its Americanization origins. As an outcome it can be interpreted as the worldwide incorporation of cities into globalization», The World According to GaWC 2010, http://www.lboro.ac.uk/gawc/world2010.html, ultimo accesso 29/12/2013; cfr. anche P. Taylor et al., Extensive and Intensive Globalizations, cit.).

[16] Per una visione differente si veda G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo (1994), Milano, Il Saggiatore, 2003. Quello di Giovanni Arrighi è il tentativo di maggior rilievo di inquadrare la riarticolazione contemporanea del sistema mondo capitalistico secondo un’ottica ancora sostanzialmente legata alla prospettiva del sistema-mondo moderno, e quindi letta secondo un’egemonia territoriale: Arrighi coglieva, già venti anni fa, il declino statunitense e la conseguente ascesa cinese, in un nuovo ciclo di accumulazione. Ciò che a questa imponente lettura doveva mancare era la percezione di un nuovo ‘centro’ egemonico, quello odierno della rete di città globali, un centro che si differenzia dai centri egemonici e univoci moderni per la sua molteplicità e il suo ‘decentramento’.

[17] Si pensi al caso paradigmatico della crisi messicana del ’94: i primi capitali a lasciare i mercati messicani, quando la crisi non permetteva ormai più nessun tipo di speculazione, furono quelli degli stessi investitori messicani. Intanto la povera gente ne pagava il prezzo.

[18] C. Pateman, Il contratto sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997; M. Piccinini, Cittadinanza in saturazione. Note per una critica dei diritti, in «Derive Approdi», 2003-2004, 24, pp. 119-122.

[19] Ad esempio, nell’area di New York fra il 1979 e il 1996 la disuguaglianza retributiva è aumentata di oltre il 50%; Manhattan ha il più alto grado di polarizzazione salariale tra tutte le 3200 contee degli Stati Uniti. Per un approfondimento riguardo i numeri della crescita di questa disparità, cfr. ad esempio S. Sassen, Le città nell’economia globale, cit., pp. 200-207.

[20] S. Sassen, Informalization in Advanced Market Economies, in«Issues in Development», 1997, 20, consultabile gratuitamente all’ indirizzo http://www.ilo.int/wcmsp5/groups/public/@ed_emp/documents/publication/wcms_123590.pdf, ultimo accesso 29/12/2013.

[21] Va precisato che l’economia informale è solo una branca dell'economia sommersa, che ingloba in sé anche l'attività criminale e l'evasione fiscale – alla quale a sua volta l’economia informale ovviamente contribuisce –. Per una definizione dettagliata di lavoro informale si veda M. Castells, A. Portes, World Underneath: The Origins, Dynamics, and Effects of the Informal Economy, in The Informal Economy: Studies in Advanced and Less Developed Countries, Baltimore, Johns Hopkins University Press, a cura di L. Benton, M. Castells, A. Portes, 1989, pp. 11-37; cfr. in particolare pp. 11-15.

[22] Su ciò, è stata pionieristica l'analisi di Sassen: si veda The Mobility of Labor and Capital: A Study in International Investment and Labor Flow, Cambridge, Cambridge University Press, 1988.

[23] S. Mezzadra, Capitalismo, migrazioni e lotte sociali. Appunti per una teoria dell’autonomia delle migrazioni, in I confini della libertà, a cura di id., Roma, DeriveApprodi, 2004, pp. 7-19. Sulle nuove istanze di soggettivazione che si manifestano all’interno dei movimenti migratori si veda in particolar modo R.S. Parrenas, Servants of Globalization: Women, Migration and Domestic Work, Palo Alto, Stanford University Press, 2001, nel quale la studiosa osserva immigrate filippine nelle città di Roma e Los Angeles staccarsi dalle strutture patriarcali d’origine nelle quali erano inserite, e andare a inserirsi in circuiti globali. L’opera più completa sulle migrazioni contemporanee è L'era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, a cura di S. Castles e M.J. Miller, New York, Guilford Press, 20124.

[24] S. Sassen, Globalizzati e scontenti (1998), Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 164. L'autrice elenca vari casi in cui l'economia informale non si basa sull'impiego di manodopera immigrata, che non può quindi essere ritenuta condizione necessaria, laddove essa è invece spesso ritenuta una spiegazione più che sufficiente. Non è questa la sede per soffermarsi sulla carta della rinazionalizzazione sempre giocata alla bisogna dalle istituzioni politiche occidentali con grande efficacia, nei confronti di popolazioni che hanno vissuto sotto la narrazione della nazione per secoli.

[25] S. Sassen, The mobility of labor and capital, cit., cap. VIII.

[26] Sull’espropriazione operata dal capitale nei confronti dei poveri nelle città si veda D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Milano, Il Saggiatore, pp. 35-41.

[27] Tra i primi a rilevare queste tendenze vi sono R. Ross e K. Trachte, Global Cities and Global Classes: the Peripheralization of Labor in New York City, in «Review (Fernand Braudel Center)», VI, 3, 1983, pp. 393-431. In questo lavoro gli Autori si concentravano sulla ricomposizione della classe operaia che andava imponendosi per via in particolare del mutamento delle condizioni della produzione manifatturiera. Si veda inoltre S. Sassen, Recomposition and Peripheralization at the Core, in «Contemporary Marxism», 1982, n.5, pp. 88-100, nel quale la studiosa olandese iniziava già a leggere le ragioni profonde dei cambiamenti economici.

[28] W. Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), Roma-Bari, Laterza, 2013.

[29] Non vi è in realtà nessun sovrano nell’era globale, ed è ciò a dare alle genti in lotta il vantaggio che possono tentare di sfruttare. È per questo che il capitalismo globale è deforme: esso non ha l’autorità per imporre nessuna regola, se non quelle che esso stesso crea per il piacere di infrangerle e aggirarle. Non vi è insomma nessun ordine fondato su un’eccezione, nessuno è perciò in grado di rivendicare il monopolio della sovranità.

[30] Sulla centralità di questi soggetti, si veda ad esempio A.C. Drainville, Contesting Globalization: Space and Place in the World Economy, Londra e New York, Routledge, 2004.

[31] D. Harvey, Città ribelli, cit., p. 18.

[32] Ivi, p. 106.

[33] Il tentativo teorico più importante e influente di andare oltre quella che è fondamentalmente l’articolazione della società che abbiamo conosciuto negli ultimi cinquecento anni, e cioè quella tra pubblico e privato, alla ricerca di nuove forme di interazione sociale, è quello di M. Hardt e T. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico (2009), Milano, Rizzoli, 2010; si vedano ancora D. Harvey, Città ribelli, cit., il quale riprende la concezione di comune elaborata da Hardt e Negri; S. Sassen, Imminent domain, in «Art Forum», 2012, 50 (5), la quale con un approccio differente insiste molto sulle difformità, le sconnessioni, i piani instabili sui quali la globalizzazione economica si sta costituendo, e indica perciò la molteplicità di strade percorribili in questi terreni socialmente densissimi.

[34] Su ciò M. Castells, Reti di indignazione e di speranza (2012), Milano, Università Bocconi Editore, 2013, offre un quadro di riferimento completo degli eventi che si sono succeduti.

[35] Per fare un esempio pratico, Chicago, grazie all’elevatissimo tasso di specializzazione che abbiamo visto definirsi nelle città globali, è la capitale mondiale della produzione dei futures legati al commercio agricolo: non sarebbe forse possibile immaginare delle lotte mirate da parte dei lavoratori (fattorini, camerieri, prostitute di alto livello – lo sciopero delle quali in Spagna contro le misure d’austerità varate dal governo nel marzo 2012 mandò in tilt i banchieri –, manovali, muratori, cuochi, spacciatori di cocaina, e via dicendo) che rendono possibile il funzionamento del centro finanziario di Chicago (o di un’altra città al suo posto)? Ciò causerebbe forse grossi danneggiamenti a certi settori specializzati dell’economia globale, per via della località e dell’addensamento delle specializzazioni, in considerazione del fatto che non esiste la città globale perfetta, e che nessuna di esse è autonoma. Sappiamo già, del resto, che lotte locali di vario tipo, come ad esempio quelle della logistica possono arrecare ingenti danni a potenti imprese situate a distanze anche enormi.