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Assoggettamento e lotte nelle cooperative della logistica: un quadro generale

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di CARLO PALLAVICINI

Le riflessioni sulle insorgenze nella logistica sono un tema complesso la cui trattazione richiederebbe numerosi incisi di carattere tecnico, giuridico, di cronaca nonché un tentativo di approfondimento teorico non indifferente. Il modo migliore in cui affrontare tali riflessioni è quindi quello di cercare di spacchettare l’argomento il più schematicamente possibile.

Suddivido quindi la relazione in tre punti fondamentali: il fenomeno delle insorgenze nella logistica in relazione al concetto di rappresentanza, la cornice complessiva nella quale si inseriscono e lo sviluppo, i tratti caratterizzanti di questo tipo di insorgenze. Cominciamo dal principio.

1. Le insorgenze della logistica in rapporto alla rappresentanza

Partire dal concetto di rappresentanza ci serve per arrivare ad altri due concetti chiaramente rievocati dalla battaglie della logistica: assoggettamento e soggettivazione. Rappresentanza significa crisi: significa, cioè, il tentativo di ricorrere ad un’unità ideale entro cui ricondurre la poliedricità della realtà che ci circonda. Si pensi all’eucarestia cristiana: con l’ostia si rappresenta l’assenza del corpo di Cristo, costruendo l’unità della comunità intorno a quella rappresentazione e risolvendo così la crisi dovuta a quella mancanza.

Il nostro presente politico ci interroga in mille modi circa la crisi della politica e di conseguenza rispetto alla crisi della rappresentanza. Dobbiamo ricordare come, nella società europea, questa crisi non investa solo i partiti e le strutture politiche, ma anche le forme della rappresentanza sindacale. Più del 50% dei tesserati ai grandi sindacati tradizionali sono pensionati e ciò fornisce già di per se un quadro esaustivo di tale crisi della rappresentanza.

Le cause sono molteplici, ovviamente. Limitiamoci a citare la trasformazione strutturale che ha investito i sindacati nel nostro paese dopo la sconfitta della FIAT nel 1980 con la “marcia dei colletti bianchi”. L’economia si stava ridefinendo in tutta Europa, e sconfitte simili si erano avute in altri paesi ad economia industriale avanzata. Ma se, ad esempio, la sconfitta dei minatori contro la Thatcher ha spezzato per sempre le reni alle Trade Unions, in Italia i sindacati sono usciti “bene” da quella crisi. Essi hanno infatti accettato di “istituzionalizzarsi” attraverso lo strumento della concertazione, di cambiare pelle, con una battuta potremmo dire di cambiare “mission aziendale”.

Credo sia evidente a tutti che questa scelta non ha solo modificato il ruolo sociale dei sindacati: alla lunga ha anche prodotto un loro indebolimento. Se togliamo i colpi di coda dovuti al persistere di una struttura mobilitativa capillare, possiamo dire che i 20 anni di neoliberismo dai quali veniamo hanno stretto i sindacati in un angolo da cui non potranno più togliersi. La stessa Camusso e le sue battaglie in difesa del lavoro già garantito sono considerate oggi inaccettabili dall’agenda politica governativa laddove vanno al di là della normale prassi del “contentino” a quello che è obiettivamente un sindacato di riferimento del maggior pilastro della governamentalità italiana.

Le insorgenze della logistica si inseriscono in questo quadro desertificato, andando oltretutto a insistere su una composizione migrante che non ha nel nostro paese precedenti di sollevazione organizzata e di lungo periodo. Il grande merito in questo senso va anche ai sindacati di base “conflittuali” che si sono messi a disposizione di questa composizione, su tutti i SiCobas e l’ADL Cobas. Perché? Perché hanno messo la loro capacità di “rappresentanza” al servizio di quella che potremmo definire autonomia di classe. All’unità che sottende una certa idea di rappresentanza si è in questo caso opposta un’idea molto concreta di unità nella lotta, che della rappresentanza si può servire per avere la possibilità legalmente normata di sedersi ai tavoli di trattativa, ma che prima di tutto si autorappresenta, si autorganizza ed esplode con forza uguale e contraria a quello che è il livello di sfruttamento che si registra nella logistica.

2. La logistica

Un grande contributo per comprendere meglio l’importanza della logistica nell’economia contemporanea ci arriva da un classico dell’economia critica. Marx, mentre dedica il primo libro del Capitale alla descrizione del pluslavoro, si concentra nel secondo libro sul processo di circolazione successivo al processo di produzione. Esso porta sulla scena una nuova variabile di valorizzazione, il coefficiente di rotazione del capitale. Il ragionamento può essere intuitivo: il processo di valorizzazione (pluslavoro-plusvalore-profitto) si sviluppa nel tempo secondo una successione necessaria di fasi che vanno, premesso un certo ammontare di denaro iniziale, dall'acquisto dei fattori produttivi (mezzi di produzione e forza-lavoro) al realizzo in denaro delle merci prodotte:

Denaro = (Forze-lavoro+Mezzi di produzione) > Produzione > Merci = (Denaro+Plusvalore)

All’interno di questo processo domina naturalmente il tempo di produzione durante il quale vengono prodotte materialmente le merci. Ma pure le fasi a monte e a valle di questo processo di lavoro richiedono tempo (oltre che impegno e attività), un tempo durante il quale il capitale non si accresce di valore non essendo sottoposto ad alcun processo di lavoro, ma soltanto ad operazioni commerciali che, nelle condizioni ideali di mercato che vengono presupposte dalla teoria, si svolgono a condizioni di scambio equivalente. Così il capitale vi ristagna improduttivamente, anche se necessariamente. In effetti, come va speso tempo d'investimento per trasformare il denaro iniziale in mezzi di produzione e forza-lavoro, così va dedicato tempo di vendita per le merci prodotte ed il tempo complessivo necessario a queste due attività supplementari alla produzione diretta, che si distinguono da essa perché improduttive di pluslavoro, è denominato da Marx tempo di circolazione. Sommandosi al tempo di produzione, il tutto costituisce il tempo di rotazione del capitale, che misura quanto tempo è necessario affinché un certo denaro anticipato alla produzione si trasformi in maggior denaro capace di ricominciare un altro ciclo di valorizzazione.

Si comprende immediatamente come la lunghezza di questo tempo di rotazione condizioni il numero delle volte in cui un capitale può ripetere il suo percorso di valorizzazione entro una certa unità di tempo (Marx forniva l’esempio di un anno, oggi forse un giorno sarebbe un’unità di misura più consona). E si capisce altrettanto bene come la massa del plusvalore realizzabile, supponiamo, annualmente dipenda da questa sua velocità che è misurata dal coefficiente di rotazione. Come spiega esattamente Friedrich Engels in un intero capitolo da lui interpolato nel terzo libro del Capitale in merito al rapporto tra saggio del profitto e rotazione del capitale: posto che «la massa del plusvalore acquisita nel corso dell’anno è eguale alla massa del plusvalore acquistata in un periodo di rotazione del capitale variabile moltiplicata per il numero delle rotazioni compiute nell'anno», allora, «perché la formula del saggio annuo del profitto possa essere veramente esatta, dobbiamo sostituire al saggio semplice del plusvalore il suo saggio annuo, in altri termini il saggio del plusvalore deve essere moltiplicato per il numero delle rotazioni del capitale variabile nell’anno»[1].

Proprio nel secondo libro del Capitale, che sta ad intercapedine tra gli altri due, Marx aveva preso in esame l’effetto del coefficiente di rotazione sulla valorizzazione del capitale spiegando come, se nel primo libro è mostrato come il grado di efficacia di un dato capitale sia condizionato da potenze del processo di produzione in un certo grado dipendenti dalla grandezza di valore del capitale stesso, il processo di circolazione metta invece in movimento nuove potenze del grado di efficacia del capitale, della sua espansione e della sua contrazione, indipendenti dalla grandezza di valore di quest’ultimo».

Si tratta allora di capire quali siano queste “nuove potenze” presenti in quel coefficiente di rotazione che incide sul saggio del profitto a fianco del grado di sfruttamento. Il coefficiente di rotazione è inversamente proporzionale al tempo di rotazione del capitale, essendo evidente che quanto più questo tempo è breve, maggiore è il numero di volte in cui il capitale può valorizzarsi in una certa unità di tempo. Questo tempo di rotazione comprende prima di tutto il tempo di produzione, che è dato dal tempo di lavoro a cui va aggiunto l’eventuale tempo di sosta durante il quale il processo di lavoro è interrotto (ad esempio per il riposo festivo o per incidenti, ritardi e quant’altro). Ovviamente il tempo di sosta costituisce un limite alla valorizzazione del capitale, da cui «la tendenza della produzione capitalistica ad accorciare il più possibile l’eccedenza del tempo di produzione sul tempo di lavoro»[2] . Successivamente alla produzione le merci affluiscono sul mercato per realizzarsi in denaro attraverso la loro vendita, mentre il denaro deve poi essere reinvestito nei fattori produttivi (mezzi di produzione e forza lavoro) per dar luogo a un nuovo ciclo di valorizzazione.

Ecco, la logistica è quel settore nato e sviluppatosi per favorire il valorizzarsi in una certa unità di tempo delle merci prodotte. Professionalizzandosi, la logistica ha dato luogo a dinamiche proprie interne che nei magazzini si traducono in un taglio brutale del costo del lavoro.

É molto diverso se la circolazione delle merci avviene senza movimento fisico, cioè se viene comprato il titolo di proprietà, oppure se si deve ricorrere all’industria dei trasporti: come diceva Marx, “Il capitale produttivo investito in esso aggiunge dunque valore ai prodotti trasportati, parte per il trasferimento del valore del mezzo di trasporto, parte per l’aggiunta di valore mediante il lavoro di trasporto. Quest’ultima aggiunta di valore si suddivide, come in ogni altra produzione capitalistica, in sostituzione di salario e in plusvalore”[3].

3. Le cooperative e le forme di lavoro

Per poter strutturare un intero comparto dell’economia volto alla riduzione del tempo di rotazione del capitale e massimizzare i profitti in questo settore, è necessaria un’impalcatura giuridica che permetta di sistematizzare i livelli di sfruttamento. Una legislazione assente in Italia sino agli anni 2000. Gli anni ’90 erano infatti ancora caratterizzati da un sistema disorganico di infrastrutture logistiche, in massima parte collegate ai porti (che l’Italia sia “orograficamente” propensa alla logistica è un dato di fatto)[4].

Ciò è vero dal punto di vista delle infrastrutture (il TAV è – anche – parte del questo aspetto) e dell’utilizzo dei territori: si pensi alla collaborazione fra istituzioni e privati per la costruzione dei nuovi poli logistici, a volte scientificamente pensati come luoghi separati dal tessuto urbano per impedire una qualsivoglia dinamica di interlocuzione con l’esterno. É il caso di Castel San Giovanni (provincia di Piacenza), dove addirittura l’intera area logistica, e non il singolo magazzino, è recintata da reti e gli ingressi sono filtrati da tornelli con badge identificativo: a nessuno che non sia impiegato in una delle aziende o cooperative operanti nell’area è permesso di avvicinarsi ai magazzini, sindacalisti compresi.

Ma la svolta maggiore per la strutturazione del comparto della logistica è arrivata nel 2001 dal punto di vista della legislazione del lavoro. A questo è servita la legge 142/2001, che sancisce come forma di lavoro “più conveniente” al capitalista operante in Italia (molti operatori sono infatti esteri, grandi multinazionali la cui composizione societaria richiederebbe un intero manuale di approfondimento) il lavoro cooperativo[5]. Sono le ambiguità della legge 142 a permettere che quelle che dovrebbero essere cooperative diventino di fatto agenzie di intermediazione illecita di manodopera, avendo buon gioco ad aggirare i diritti di una manodopera immigrata che spesso non comprende nemmeno quanto sta scritto sui contratti e sulle buste paga.

La tradizione cooperativistica del movimento operaio fu apprezzata dai grandi esponenti del marxismo. Marx ebbe molta considerazione per il movimento cooperativistico, perché dimostrava che con la produzione su vasta scala e tecniche moderne si poteva fare a meno della classe dei padroni, che le macchine non erano necessariamente strumenti di asservimento e di sfruttamento, e che il lavoro salariato non era una forma permanente, ma destinato a scomparire come quello dello schiavo e del servo della gleba. Ma il lavoro cooperativo, di per sé, non è in grado di sconfiggere i monopoli, e non può sostituire la lotta di classe. “Per salvare le masse lavoratrici il lavoro cooperativo dovrebbe svilupparsi in dimensioni nazionali e, per conseguenza, dovrebbe essere alimentato con i mezzi della nazione” scriveva Marx nell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale degli operai. Occorreva, dunque, il potere politico. Lenin sviluppò queste nozioni in uno dei suoi ultimi articoli, “Sulla cooperazione”. In cosa consiste, si chiedeva Lenin, l’irrealtà dei sogni dei vecchi cooperatori? “Nel non comprendere l’importanza principale, radicale della lotta politica della classe operaia per l’abbattimento del dominio degli sfruttatori. Ora questo abbattimento da noi ha avuto luogo, ed ora molto di quanto sembrava fantastico, persino romantico, persino banale dei sogni dei vecchi cooperatori, diventa una delle più autentiche realtà”[6]. Come si vede, ciò è in perfetta continuità con Marx.

Ma, come si è impadronito dei partiti dei lavoratori, di gran parte dei loro sindacati e giornali, così il capitale si è impadronito delle cooperative (rosse, cattoliche o spurie che siano), trasformandole in fonti di profitto capitalistico. Non solo, ma ha creato associazioni, cooperative di nome, e persino ONLUS (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) che hanno il solo scopo di ottenere vantaggi fiscali e di eludere le norme che, nonostante la continua erosione dei diritti del lavoro, ancora tutelano i lavoratori.

É quindi immediatamente comprensibile perché si siano inquadrati gli addetti ai depositi e magazzini, non come lavoratori salariati, ma come soci lavoratori. Non hanno la possibilità di decidere alcunché, ma sono alla mercé di qualsiasi disposizione dei veri padroni della cooperativa. L’esternalizzazione di molte attività un tempo condotte direttamente dall’impresa principale è uno sviluppo inevitabile legato alla crescente divisione del lavoro. Indebolisce e scompone le forze operaie e infrange i legami sorti tra coloro che hanno lavorato insieme; quella dei lavoratori è una tela di Penelope che deve essere continuamente ritessuta.

Le cooperative affidano quindi ad altre imprese la gestione di magazzini e delle scorte. Ufficialmente nella logistica operano 450.000 lavoratori, in realtà sono circa 700.000. I due poli maggiori sono gli interporti di Bologna e Piacenza. Diffusissimi il lavoro nero (soprattutto nelle cooperative “spurie”, cioè non affiliate alle leghe) e il caporalato, che hanno buon gioco nei confronti di una manodopera in gran parte immigrata, quindi particolarmente ricattabile. Per fare un esempio, i lavoratori della Coop Adriatica di Anzola (Bologna) hanno appreso nel novembre 2012 che dal primo dicembre sarebbero passati alla Aster Coop. Ceduti, come un tempo erano venduti gli schiavi. Questo comportava il passaggio dal contratto nazionale del commercio a quello assai peggiore del trasporto e della logistica. Scendevano tutti al 6° livello d’inquadramento, il più basso, indipendentemente dal livello precedente, e la loro retribuzione diminuiva del 10%. Non più il contratto a tempo indeterminato, ma un periodo di prova, durante il quale si può essere licenziati senza preavviso e senza indennità. Questo è permesso dalla legge 142, che a fronte di una sovrapponibilità di mansioni pratiche svolte dal lavoratore permette l’utilizzo di diversi CCNL, con differenti paghe. Si arriva addirittura al paradosso (è il caso di IKEA di Piacenza) di colleghi di lavoro operanti nello stesso magazzino con identica mansione ma contratto di lavoro diverso a seconda della cooperativa della quale risultano soci-lavoratori (non sono pochi i casi in cui in un unico magazzino operano diverse cooperative, e ciò andrebbe ulteriormente indagato nella misura in cui costituisce un continuo test per la pianificazione e l’aggiornamento dei parametri di assoggettazione e controllo della forza lavoro).

Un altro aspetto paradossale permesso dalla Legge 142 è che spesso si verifica la fattispecie per cui aziende di movimentazione merci esternalizzano il lavoro di facchinaggio a cooperative di… movimentazione merci. Per capire meglio si pensi alla differenza che intercorre fra IKEA (o Granarolo) e TNT (o GLS): la prima è un’azienda commerciale che necessita di organizzare i propri magazzini e le proprie spedizioni, la seconda una di quelle realtà interamente sviluppatasi per la movimentazione merci e l’abbattimento dei suoi tempi e costi (questo secondo tipo di imprese è solitamente il punto di approdo di livelli conseguenti di allargamento e incorporazione fra aziende di corrieri o ex-servizi postali privatizzati). Ebbene, è evidente che nel secondo caso è illogico pensare a una gestione non interna della movimentazione merci, esistendo tali aziende per espletare questa precisa funzione. Ancora una volta, il ricorso al lavoro cooperativo permette un abbattimento dei costi della forza lavoro che rende evidente come esso abbia in questa fase storica nulla abbia di “cooperativo” ma molto di “presa in giro”.

4. Le lotte

Un quadro generale delle condizioni di sfruttamento risulta evidente dall’analisi che abbiamo tracciato del lavoro nella logistica. Non sfuggirà nemmeno come in questa “terra di nessuno”, sviluppatasi dal 2001 in avanti, abbiano avuto vita facile le criminalità organizzate nell’infiltrarsi e utilizzare le cooperative spurie come zona per il riciclaggio di denaro sporco. Anche le cooperative affiliate a Legacoop o Confcooperative, pur non toccando i livelli di sfruttamento (lavoro nero, violenze fisiche a chi rallenta i ritmi di lavoro e osa ribellarsi) raggiunti in quelle spurie, si sono tuttavia approfittate della situazione evadendo spesso numerosi punti del contratto nazionale di categoria, peraltro scandaloso, e dimostrando forse più delle altre come non possano tollerare la presenza di sindacati conflittuali all’interno dei magazzini.

La cupola della logistica si compone infatti delle aziende committenti, delle cooperative per esse operanti ma anche di colonne istituzionali quali le prefetture, le DTL, i sindacati confederali, che spesso sono garanti del quieto vivere padronale (parecchi i casi saliti alla ribalta delle cronache giudiziarie per corruzione). Avere in azienda un sindacato che si distacca da una certa prassi e “apre un varco” in detta cupola infatti è un problema non da poco per poter proseguire in queste gigantesche operazioni di spremitura dei lavoratori.

I sindacati conflittuali, rompendo le liturgie legalitarie dei dirigenti della Triplice, sono ricorsi alle forme più classiche di sciopero, quello col blocco totale del transito e i picchetti. Colpendo direttamente le tasche dei moderni padroni del vapore, queste mobilitazioni hanno attirato subito un alto livello di repressione. Le denunce di sindacalisti e operai riguardano Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Lazio, Marche… É in corso il processo contro 28 lavoratori ad Origgio, ci sono 55 denunce a Padova, 179 denunce nei confronti dei lavoratori della Granarolo, e a ciò si è aggiunto l’intervento del Questore di Bologna che ha minacciato la perdita del permesso di soggiorno. A riprova dello “stringersi a coorte” della cupola della logistica tali misure di questure e prefetture si sono integrate con le recenti dichiarazioni del segretario emiliano di LegaCoop (“l’estremismo dei facchini pericoloso quanto la mafia”). Non si contano i provvedimenti disciplinari contro gli iscritti ai sindacati in lotta, col pretesto della scarsa produttività[7].

Non sono mancate le minacce più grossolane. Il sindacalista della Fit-Cisl Turrini, riguardo a SI Cobas ha dichiarato: “Sarebbe meglio che qualcuno insegnasse loro come si sta al mondo, anche intervenendo democraticamente sulle loro schiene”. Ma i lavoratori erano determinati al punto di sdraiarsi sotto i camion, quando la polizia ha intimato ai camionisti di forzare il blocco. Ci sono stati episodi addirittura grotteschi per il loro carattere gratuito e reazionario, come il foglio di via obbligatorio che il questore di Piacenza, nell’ambito della vertenza IKEA ha inviato ad Aldo Milani, coordinatore del SI Cobas, a cui si aggiungono 26 denunce e altri due fogli di via all’indirizzo dei militanti del NAP e dei centri sociali Dordoni e La Forgia. Questo foglio è previsto per i soggetti “dediti alla commissione di reati”. Si vuole tentare, con le misure di polizia, di fermare una lotta che si è estesa a macchia d’olio in tutto il centro e nord Italia e che ha portato alla proclamazione di già tre scioperi nazionali di categoria (una pratica sconosciuta nel settore prima degli ultimi due anni).

Fogli di via e denunce si sono spesso rivelate dei boomerang, per le dichiarazioni di solidarietà che hanno percorso il web e non solo. Gli atti arbitrari, le denunce, i processi, le persecuzioni, quando trovano una risposta dei lavoratori, si trasformano in strumenti di propaganda a favore dei salariati. E le grandi imprese come IKEA e Granarolo, che hanno fatto tante pressioni perché venissero presi provvedimenti antisciopero, non ne hanno certo ricavato una buona fama.

Contro gli scioperanti è intervenuta anche la Commissione di Garanzia sullo sciopero, che, in seguito alle lotte della Granarolo e della Lega Cooperative a Bologna, ha incluso tra i servizi pubblici essenziali la movimentazione e il trasporto di merci deperibili applicando i codici di autoregolamentazione e le norme della legge 146 del 1990 (legge “anti-sciopero”). La collaborazione tra gli organi sedicenti “al di sopra” delle parti e il padronato è totale e immediata. Le norme vengono modificate continuamente, si riscrivono regole e contratti per legare sempre più le mani ai lavoratori. Stato, regioni, comuni si adeguano immediatamente.

In queste lotte ha avuto un certo peso il boicottaggio, per esempio nei confronti della Granarolo. Il boicottaggio permette anche a chi è esterno al rapporto di lavoro di esprimere in modo incisivo la sua solidarietà. Per esempio, presso la coop “ Il Mirto” a Genova, sono stati distribuiti volantini che invitavano a questa forma di lotta contro la Granarolo e molti i clienti hanno consegnato il talloncino di boicottaggio alle casse. Importante anche la formazione delle casse di resistenza, dato che spesso le vertenze si trasformano in lunghi bracci di ferro in cui è fondamentale creare delle condizioni di sostenibilità dello sciopero per i lavoratoti (almeno un minuto di più che per la parte datoriale).

Ma la strategia di lotta principale rimane quella del blocco alle merci. Ogni ora di blocco corrisponde a svariate migliaia di euro di perdita per azienda e cooperative, e le costringe a trattare, alla lunga a cedere. Ma non vi sfuggirà il fatto che la sedimentazione di coscienza politica e il processo di soggettivazione di questa massa enorme di persone sono risultati che vanno ben al di là della singola vittoria vertenziale. Vittoria che pure in numerose vertenze è arrivata e ha invertito un trend decennale di sconfitte della “classe operaia” italiana.

Vittoria, per ritornare all’introduzione, che ha convertito processi di assoggettamento in processi di soggettivazione di questa nuova (?) classe operaia.

L’unità, è il messaggio che lanciano le battaglie di TNT, IKEA, Granarolo, non la si pratica con comunicati e alchimie politiche, la si pratica nei fatti e con le pratiche di lotta. Agli elevati livelli di repressione si è risposto con blocchi, boicottaggi, campagne web, casse di resistenza. Tutti strumenti che necessitano della più grande solidarietà e che sono banco di prova continuo per l’unità di segmenti sociali e percorsi di lotta. Lo abbiamo visto con le tante e diverse storie dei gruppi politici coinvolti di volta in volta nelle vertenze.

Pur con tutti i limiti del sindacalismo conflittuale, con tutti i limiti dei gruppi che lo hanno affiancato nelle lotte della logistica, con tutti i limiti derivanti dal far convivere questi percorsi, l’efficacia di questa idea di unità basata sul fare dovrebbe suggerire qualche riflessione a tutti i percorsi militanti e a tutte le aree politiche di movimento nel nostro paese.



[1] Engels, F., “Effetti della rotazione sul saggio di profitto”, in Marx, K., Il capitale, libro III, capitolo IV. Roma, Newton Compton, 2006.

[2] Marx, K., “Tempo di rotazione e numero delle rotazioni”, in Il capitale, libro II, capitolo VII. Roma, Newton Compton, 2006.

[3] Marx, K., “Spese di trasporto”, in Il capitale, libro II, capitolo VI. Roma, Newton Compton, 2006.

[4] Bologna, S., “Trasporti e logistica come fattori di competitività di una regione”, in P.Perulli (a cura di), Neoregionalismo. L’economia arcipelago, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.

[5] Sul tema un quadro esaustivo, sebbene politicamente non rivendicabile, è fornito da Bernardi A., Treu T., Tridico P., Lavoro e impresa cooperativa in Italia, Passigli Editori, Firenze, 2011.

[6] Vladimir Il’ič Ulianov Lenin, Scritti economici, pp. 837-840. Roma, Editori Riuniti, 1977.

[7] La sintesi della dinamica repressiva è tratta da “avvisaglie di ripresa della lotta di classe”, comunicato interno del Si Cobas del dicembre 2013, ma è perfettamente verificabile dal controllo degli atti giudiziari e delle cronache giornalistiche delle città toccate dalle mobilitazioni.