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Camicia Rossa - Capitolo 1 “Il sole dell’avvenire”

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di VALERIO EVANGELISTI

Attilio Verardi scivolò sulla neve che copriva via della Porta Aurea e finì per terra, battendo le natiche sul selciato incrostato di ghiaccio. Era furioso, non per il dolore ma per l’umiliazione. Si drizzò a fatica. Il gendarme che lo aveva gettato fuori di prigione con un calcio era ancora sulla porta. Ebbe l’impressione che ridacchiasse.

«Ridatemi almeno il coltello!» gli gridò.

«Non ci penso nemmeno. Ricominceresti a minacciare i galantuomini.»

«Galantuomo quello? Un fior di furfante! Ha osato insultare il mio generale!»

L’agente si spazientì. «Qui l’unico furfante sei tu, Attilio. Eri ubriaco fradicio, per questo hai passato in cella solo una notte. Non ci riprovare: la prossima volta andrai sotto processo. Cominciamo a essere stanchi delle tue bizzarrie. Et capé

Attilio volse la schiena e si incamminò, zoppicando leggermente, verso il centro della città. Ravenna non era grande, ma complicata sì. Troppa storia alle spalle – era stata persino capitale dell’impero romano morente – l’aveva caricata di circonvoluzioni, di strade tortuose in cui ci si districava per conoscenza o per istinto. Lui, per fortuna, le conosceva bene. Solo che la periferia degli insediamenti bracciantili stava molto a est, in Borgo Adriano, dove le case in pietra cedevano il posto alle baracche, alle capanne, alle bicocche. Spesso pure e semplici tane di una stanza assediate dai topi.

Attilio passò di fronte al forno che, in tempi dimenticati, aveva fatto la modesta fortuna dei Verardi. Suo padre, aiutato da un Attilio bimbetto, aveva cercato di tenerlo aperto negli anni più bui della tassa sul macinato. Faceva credito ai poveri con troppa facilità, era quello il problema. Sfornava pagnotte e le distribuiva a credito, aspettando compensi che non potevano rientrare. Adesso la sua bottega era un portone a volta dai battenti sbarrati.

Attilio non provava nostalgia per l’azienda paterna. Vendendola, alla morte del padre, ne aveva ricavato un gruzzoletto prossimo all’esaurimento. Chi aveva acquistato l’esercizio era finito a sua volta in rovina, come dimostravano le porte chiuse. Lui aveva intanto iniziato una nuova vita, col raggiungere, ventenne, Garibaldi in Francia. Era questa scelta che le autorità non gli perdonavano. La sera prima era stato incarcerato per un’ubriacatura tutto sommato modesta. Era vero, aveva minacciato con un coltello, in una bettola, un signorino che diffamava il generale venerato. Ma che delitto era? Quella stessa notte, in altre taverne, le lame avevano lasciato un cadavere e un ferito. Nessuno se ne era preoccupato. Si trattava di povera gente. In Romagna gli accoltellamenti fra miserabili erano all’ordine del giorno.

Le strade ghiacciate erano vuote. A quell’ora gli indigenti erano già al lavoro, o in cerca di lavoro; i ricchi dormivano ancora. Gli unici, radi passanti erano donne, domestici e qualche impiegato.

Per aiutare il passo, reso impacciato dai residui dell’alcol, Attilio canticchiava tra sé una canzone poetica e marziale, La rondinella di Mentana, appresa sul campo di battaglia di Digione.

Nel passare di fronte al Duomo cantò ad alta voce una delle strofe più oltraggiose:

Maledetto di Francia il Signore

vil monarca spergiuro il più tristo

che al bugiardo Vicario di Cristo

sta in difesa di trono e d’altar.

Se l’avesse udito un gendarme, sarebbe tornato in cella di filato. Era vero che Napoleone III non c’era più, però l’offesa a un monarca (anzi, a due) restava un reato. Ma poco importava, infastidire i preti era un dovere imprescindibile. Il parroco non lo udì, o almeno non corse fuori a invocare l’accorrere della forza pubblica, come era accaduto più volte in passato. Il sonno dei sacerdoti combaciava, in durata, con quello dei benestanti.

Attilio doveva trovare qualcosa da fare per guadagnare qualche spicciolo, visto che all’osteria aveva sprecato il poco denaro che aveva in tasca. D’inverno i campi non offrivano niente e le attività di arginatura erano ferme. Eppure lui aveva promesso alla fidanzata, Rosa Minguzzi, di portarla a ballare al Circolo Mazzini la domenica successiva. Lei viveva molto meglio di lui, visto che apparteneva a una famiglia di mezzadri di Santa Maria in Porto Fuori. Per continuare quella relazione doveva assicurarle qualche svago, che le facesse dimenticare quanto miserabile era il suo innamorato. Per fortuna la ragazza non sapeva delle sue ubriacature né delle sue frequenti carcerazioni.

Attilio ragionò che, con tutta la neve che era caduta, una spalatura era necessaria. L’ora gli sembrava quella giusta: gli uffici comunali avrebbero aperto di lì a poco. Accelerò dunque il passo, per quanto glielo consentivano il ghiaccio e la scarsa forza che si sentiva nelle gambe.

In piazza Vittorio Emanuele si aspettava di trovare gente, ma non così tanta. Un centinaio di capparelle nere e sdrucite spiccavano sul biancore dell’acciottolato, immerse nella nebbiolina del mattino. Cercò con gli occhi una faccia conosciuta. Inutile: quella gente cambiava ogni volta. Infine scorse, sotto il portico, un viso noto, anche se non tra i più graditi. Si avvicinò.

«Cosa fa questa gente?» domandò in dialetto.

«Spera in un lavoro di spalatore» rispose Claudio Zirardini, il tipografo.

«Anch’io.»

«Ho idea che siate in troppi. Molti resteranno a bocca asciutta.»

Ad Attilio Claudio Zirardini non riusciva simpatico. Era un uomo di poche parole, a differenza dei quattro fratelli e delle tre sorelle. Spesso la sua laconicità rasentava la scortesia: non era raro che, stanco di parlare, girasse le spalle all’interlocutore e se ne andasse, le mani in tasca.

Soprattutto, Claudio era un “internazionalista”. L’anno precedente, 1874, aveva stampato i manifesti per una rivoluzione ridicola a Bologna, ispirata dal famoso anarchico russo Bakunin. Si erano ritrovati in quattro gatti, con le bandierine rosse da capostazione di un gruppo di ferrovieri imolesi, sotto il palazzo comunale. Bakunin era scappato vestito da prete, i più si erano dispersi, alcuni erano stati arrestati. Tra questi ultimi il più intelligente, Andrea Costa, anche lui di Imola. Non a caso, la città era nota per l’inclinazione degli abitanti alla follia, quasi pari a quella dei ferraresi.

Attilio avrebbe dovuto simpatizzare per gli internazionalisti, come facevano altri ex garibaldini. Bakunin e il Generale si erano abbracciati platealmente durante un congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori. Alcuni reduci da Digione avevano partecipato alla Comune di Parigi, ultima difesa contro i prussiani e, al tempo stesso, primo segnale di un rinverdire in forme nuove dell’afflato egualitario della Grande rivoluzione.

Lui, almeno da quando era diventato povero, diffidava degli idealismi astratti. Gli internazionalisti parlavano di continuo di proletariato da riscattare, di emancipazione dei lavoratori. Ma cosa facevano in concreto, a parte conati insurrezionali abortiti sul nascere? Meglio allora i mazziniani, che pure erano divisi dai garibaldini da un’ostilità che risaliva al 1860, se non da prima.

Claudio Zirardini aveva incrociato le braccia e si era girato per tre quarti, come se la conversazione fosse finita.

Attilio, malgrado il gesto, una curiosità l’aveva ancora. «Da dove vengono costoro? Di facce note ne vedo cinque o sei. Eppure, da quando ha nevicato, sono sempre qua.»

L’altro continuò a dargli le spalle, chiaramente infastidito. «Vengono da tutto il Ravennate. Ex contadini, ex mezzadri. Anche ex operai. Si produce troppo rispetto a quello che il popolo può comprare. Per chi lavora la terra i prezzi di vendita sono bassi, non c’è guadagno. Si importa in eccesso dall’America e dall’Argentina.»

Attilio non aveva afferrato per intero, ma qualcosa aveva intuito. Domandò: «Il governo non fa nulla?».

Claudio Zirardini alzò le spalle. «Il contrario di quello che dovrebbe fare. Non batte moneta, punta al risparmio. In questo modo i poveri aumentano. Perso per debiti il campo o il posto di lavoro, si riversano in città. Pensano che qui qualcosa da fare troveranno.»

«È anche il mio problema.»

«Allora, invece di perdere tempo in chiacchiere, fatti avanti. Quando dal municipio chiameranno, rischi di essere l’ultimo della coda.»

Era un buon consiglio, anche se pronunciato in tono brusco. Attilio si fece largo tra la calca di poveracci che assediava il palazzo comunale. Rimpianse di non avere indossato, il giorno prima, la camicia rossa dei garibaldini di Digione. La teneva ben ripiegata nella sua bicocca e la metteva solo nelle grandi occasioni. Nel municipio non mancavano i simpatizzanti, qualcuno lo avrebbe notato. Con gli abiti che aveva addosso appariva solo un miserabile tra i miserabili.

Raggiunse una buona posizione. Tutti si aspettavano che la chiamata venisse da Palazzo Veneziano, invece arrivò dalla sua ala detta Palazzo Merlato dalla merlatura ghibellina costruita solo un ventennio prima. E non fu una chiamata, purtroppo.

Un funzionario intabarrato, con una sciarpa attorno al collo, uscì nella piazza. La folla mosse verso di lui, lasciando Attilio, meno rapido, nelle ultime posizioni. Ciò non gli impedì di afferrare le parole del burocrate, fredde come il ghiaccio che aveva sotto i piedi.

«Brêva zént, vedete anche voi che non nevica e che le strade sono abbastanza sgombre. C’è ghiaccio, ma si scioglierà. Non è prevista neve neanche nei prossimi giorni. Non abbiamo bisogno di spalatori.»

Vi fu un mormorio di scontento. Qualcuno gridò: «E noi cosa mangiamo?».

Il funzionario allargò le braccia senza dire nulla. «Non ci sarebbero altri lavori?» chiese Attilio. «No, mi dispiace. Il comune è povero, e voi siete in troppi.» La risposta era logica, anche se lui era convinto che il

sindaco precedente, Gioacchino Rasponi, qualcosa avrebbe escogitato.

La moltitudine iniziò a defluire, emanando un sentimento di sconforto quasi palpabile. Attilio, avvilito quanto gli altri, si incamminò lentamente verso casa, al termine di via Massimo D’Azeglio, oltre Porta Adriana. Si sentiva stanco, avvertiva il dolore dei lividi.

Passò, in piazza Byron, davanti alla facciata scrostata del palazzo degli Zirardini. Uno stemma di famiglia testimoniava di un passato splendore tra il notabilato ravennate. Adesso l’edificio ospitava la tipografia di Claudio al primo piano e le abitazioni dei fratelli a quelli superiori.

Ad Attilio venne in mente di entrare a chiedere un piccolo prestito. Scacciò l’idea: lui era un garibaldino, non un tipo da elemosine. Un combattente. L’inverno del 1875 figurava tra i nemici peggiori che avesse mai incontrato, ma non importava. Ce l’avrebbe fatta.

 

* Pubblichiamo con il consenso di Arnoldo Mondadori Editore 2013.