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Vivere lavorando o morire combattendo?

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Intervista a VALERIO EVANGELISTI - di MARIANNA SICA e VALERIO GUIZZARDI

Nel tuo nuovo romanzo “Il sole dell’avvenire. Vivere lavorando o morire combattendo”, filtrato attraverso le vicende personali di famiglie di operai agricoli e mezzadri emiliano-romagnoli, narri il periodo storico (1875-1900) che attiene senz’altro alla nascita delle prime forme organizzate della lotta di classe. Cosa ti ha spinto a tornare a questo specifico periodo e agli attori sociali che in esso agirono? Da quale punto di vista riscrivi le loro storie?

É un periodo che conosco bene, perché gli dedicai la tesi di laurea, di recente ristampata in volume (Storia del Partito socialista rivoluzionario, 1881-1893, ed. Odoya). In alcuni romanzi, e soprattutto in One Big Union, avevo descritto il tentativo di organizzare un proletariato mobile e precario negli Stati Uniti. Ma la stessa cosa era avvenuta in Italia, agli albori del movimento operaio, nei riguardi del bracciantato. É stato naturale, per me, riprendere il tema in altro contesto. Cercando di guardarlo attraverso attori che vivono una trasformazione storica a cui partecipano senza guidarla, perché è collettiva.

Quale era la composizione sociale in quel tempo e le differenze politiche e strategiche tra le organizzazioni che compaiono sulla scena emiliano-romagnola di fine Ottocento?

Nelle campagne della regione era presente una massa rilevante di forza-lavoro che l’attività agricola non poteva completamente assorbire. Tipico era quindi passare da un lavoro all’altro per evitare la disoccupazione e la fame. L’anarchismo non proponeva soluzioni intermedie, ma puntava all’insurrezione pura e semplice. Invece i socialisti rivoluzionari (libertari anche loro, però favorevoli a un’azione anche sul terreno della gradualità) tentarono di rimediare alle sofferenze del proletariato rurale con la creazione di cooperative e di embrionali società di resistenza.

Nel romanzo ricostruisci anche la spedizione dei romagnoli alle bonifiche dell’Agro Romano, episodio molto precedente a quella dell’Agro Pontino. Nella narrazione storica ufficiale la prima è quasi sconosciuta rispetto alla seconda. Perché questo silenzio storico? Che rilievo ha invece ricostruirne la vicenda e ridare voce ai suoi protagonisti?

La spedizione nell’Agro Romano ebbe un carattere spiccatamente socialista, e i braccianti impegnati nella bonifica si organizzarono in colonie egualitarie, rette per molto tempo da principi collettivistici. Invece la bonifica dell’Agro Pontino, attuata con mezzi tecnici e finanziari ben superiori, fu una realizzazione del fascismo e di collettivista non ebbe nulla. É logico che la storia ufficiale privilegi la seconda. E non solo la storia. Il romanzo Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, molto chiaramente improntato al “revisionismo storico”, di ciò che era avvenuto nell’Agro Romano non fa nemmeno cenno.

Il bracciantato agricolo del tempo pare essere il primo esempio di quel precariato sociale che da lì in poi ha sempre accompagnato vasti settori di classe. Quale era la sua caratteristica rispetto alle altre forme di lavoro sfruttato come la mezzadria e la terzeria?

Se il mezzadro era legato alla terra, il bracciante non lo era, essendo un “contadino” solo saltuario. Viveva in città, cambiava di continuo occupazione. Ciò modificava la mentalità dominante in ambiente rurale. I braccianti, a differenza dei mezzadri, avevano famiglie piccole, non erano di norma religiosi, avevano costumi sessuali molto liberi. Le loro donne sedevano a tavola col marito, fumavano, partecipavano alle discussioni. Parroci e proprietari terrieri temevano molto i braccianti per la loro indocilità.

Precariato sociale e di massa, dunque, si dava, con le dovute specificità e differenze, già alla fine del secolo corso, e come racconti nel tuo romanzo venne affrontato in Emilia Romagna con la nascita delle cooperative. In che modo queste agirono contro la precarietà e con quali risultati? Alla luce della funzione sociale per la quale si costituirono e delle caratteristiche con cui operavano, come leggi le trasformazioni che hanno accompagnato lo sviluppo delle cooperative sociali e come oggi le valuti?

Le cooperative di allora volevano prefigurare un modello socialista. Non avevano dipendenti salariati, ripartivano equamente i guadagni tra i soci. Per un certo tempo prosperarono e riuscirono a lenire la disoccupazione, grazie anche all’appoggio delle prime amministrazioni comunali di sinistra. Certo, non potevano rappresentare una soluzione generale. Le cooperative odierne sono normali imprese capitalistiche, chiamate in quel modo solo per marginali vincoli statutari nella ripartizione dei profitti. Spesso sfruttano allegramente il lavoro salariato. Non hanno niente in comune con le loro antenate, il cui principio cardine era l’autogestione.

Le mondine, o risaiole, cambiarono la cultura e i comportamenti di genere rispetto alla società del tempo. In che modo?

In parte ho già risposto. Le operaie agricole avevano comportamenti e modi di pensare che erano l’antitesi della sottomissione contadina. Non si piegavano all’autorità di un patriarca, fosse anche il marito, né erano subordinate alla Chiesa e al vincolo delle tradizioni. Non a caso le risaiole diventarono gradualmente la compagine di punta della lotta di classe (ma anche di costume) nelle campagne.

A tuo giudizio “Il sole dell’avvenire” ha qualcosa da dire alle odierne generazioni di antagonisti, e più in generale quale rilievo ha la memoria storica di classe e in che modo dovrebbe parlare al presente?

Non so se il mio romanzo riesca a parlare, in qualche modo, all’antagonismo odierno. Dipenderà dall’uso che ne faranno, o non ne faranno, i militanti. Di sicuro io penso che la memoria storica possa a volte essere di aiuto. É bene sapere che certi problemi attuali erano già stati affrontati in passato, e capire come. Senza che questo implichi un peso o un’influenza di ciò che è morto su ciò che è vivo.