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Materialismo culturale a forza lavoro fissa

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Intervista a STEPHEN SHAPIRO - di EMANUELE LEONARDI

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Attualmente stai lavorando – da una prospettiva marxiana – su nozioni quali forza lavoro fissa e materialismo culturale. Potresti spiegare quali sono i caratteri centrali di questi concetti? Come si connettono con il sistema educativo e con il ruolo sempre più cruciale giocato dalla conoscenza nel contesto dei processi di produzione contemporanei?

Il materialismo culturale è lo studio della relazione tra esperienza sociale, in quanto storicamente messa in forma dall’organizzazione della produzione, ed espressione culturale, sia essa testuale, visuale, sonora o comportamentale. Il materialismo culturale, profondamente legato alla figura di Raymond Williams (1921-1988), si propone in generale di andare oltre le inutili rigidità della dicotomia tra struttura e sovrastruttura o della teoria del riflesso culturale, avversata pure da Engels.

Di recente sono riemersi alcuni dibattiti sulle tattiche di movimento tra le famiglie della Sinistra, cioè marxisti e anarchici. In queste discussioni si è inoltre verificato un ritorno alla lettura di Marx. David Harvey ci ha incoraggiato ad andare più in là della pure necessaria lettura del primo libro del Capitale e di includere nei ragionamenti anche lo studio del secondo e del terzo libro. È in quelle pagine che scopriamo che Marx ha dimenticato una categoria che avrebbe invece dovuto essere presente: quella di forza lavoro fissa. Marx indica la differenza tra mezzi di produzione fissi e fluidi (o circolanti); inoltre, egli menziona la forza lavoro fluida. Ma per un pensatore dialettico della sua statura, pare inusuale che egli non abbia menzionato la forza lavoro fissa.

Questa categoria si riferisce al campo che è stato spesso chiamato riproduzione sociale. La forza lavoro fissa include sia fondi al consumo, elementi necessari alla ricostituzione fisico-culturale delle forze di lavoro non fornite dai capitalisti (cibo, vestiario, abitazione, assistenza sanitaria e formazione), sia tutto ciò che modella la soggettività di classe, cioè le infrastrutture sociali cui si deve la composizione – ma anche il dissolvimento – della solidarietà di classe e della sua subordinazione.

Harvey ha discusso efficacemente dello spatial fix (“correzione, fix spaziale”) relativo ai mezzi di produzione fissi. Dobbiamo ora ampliare la sua analisi con il cultural fix (“correzione, fix culturale”) della forza lavoro fissa. Un modo per immaginare questo concetto è compararlo con il capitale fisso rappresentato dall’ambiente spazialmente costruito. Potremmo dire che la soggettività di classe, le aspettative di posizionamento sociale sono elementi artificiali, ambienti culturalmente costruiti. Come possiamo teorizzare la trasformazione di un precedente fix culturale in un tempo segnato dalla crisi di sviluppo del capitale? Una possibilità sarebbe quella di riconsiderare la differenza tra proprietà e rendita. La lunga sezione sulla rendita del terzo libro del Capitale dovrebbe essere letta non come unicamente riferita alla produzione agricola, ma come includente ambiti non necessariamente caratterizzati dal possesso di suolo, per così dire. L’idea di “rendita” connessa all’ambiente socio-culturalmente costruito potrebbe essere una via promettente per concettualizzare una serie di questioni importanti: da come “abitiamo” – ma non controlliamo – i codici semiotici al modo in cui le varie soggettività sono veicolate dalle istituzioni – comprese quelle educative – attraverso i momenti di scambio.

La forza lavoro fissa sembra riferirsi direttamente alla produzione di soggettività da parte delle classi lavoratrici. Più in specifico, potresti spiegare come essa si relaziona alle trasformazioni del capitalismo contemporaneo ed alla crisi dell’università?

L’idea di forza lavoro fissa intende la cultura come un elemento essenziale delle costellazioni di classe, elemento interrelato a tutte le altre componenti della circolazione del capitale. Il sistema educativo rientra in questo circuito in almeno due modi fondamentali. In primo luogo, Marx sottolinea con chiarezza che la formazione è un requisito del lavoro socialmente necessario tanto quanto lo sono il cibo, l’abitazione e la salute. Proprio come per questi ultimi, i capitalisti preferiscono esternalizzare il costo dell’educazione: tipicamente, ciò avviene attraverso il trasferimento di tale costo o sullo stato o sugli individui privati. Nell’attuale regime di accumulazione, il capitale neoliberista ha come obiettivo l’indebolimento generale dello stato, e dunque riceve la maggior parte degli input educativi dai singoli individui. Dagli anni Settanta in poi, il capitale ha indebolito la posizione delle classi lavoratrici americana ed europea, cioè dei gruppi sociali cui lo stato aveva precedentemente fornito i servizi formativi. Oggi tuttavia, la classe capitalista si sente “globale” e non esita ad espropriare la ricchezza accumulata nel corso delle generazioni dai ceti medi americani ed europei. In breve, i ceti medi cominciano a rendersi conto che il proprio status non può considerarsi come conquistato una volta per tutte. Tale status non è fisso, anzi: esso tende a fluidificarsi dal momento che il prezzo dell’inclusione in questo strato sociale tende ad aumentare, così come tende a scomparire la sua profittabilità. Le giovani generazioni sono sospinte verso il debito proprio perché si trovano a dover pagare di più per un percorso formativo che tuttavia non protegge dalla precarietà esistenziale e dall’instabilità.

La perdita di una correzione culturale borghese (bourgeois cultural fix) è forse ciò che ha motivato una certa fascinazione per temi quali il lavoro immateriale e il capitale emozionale. Tuttavia il punto non riguarda solo il fatto che gli strumenti emotivi sono diventati più importanti nel settore dei servizi: piuttosto, va sottolineato che lo stesso dibattito sul cosiddetto lavoro immateriale prova che è in corso il riconoscimento della decomposizione dei ceti medi occidentali, cioè di quegli strati che hanno sempre definito il proprio carattere ‘civile’ in riferimento a caratteristiche socio-emozionali.

Da una prospettiva di Ecologia-Mondo, le questioni sociali presentano immediatamente una dimensione ambientale, e viceversa. Come pensi possa essere determinato l’effetto della crisi dell’università (ad esempio la bolla del debito studentesco o la rottura di ogni rapporto tra conseguimento della laurea e mobilità sociale verso l’alto) sulle interazioni globali tra nature umane ed extra-umane? Dall’altro lato, come descriveresti l’impatto delle crisi ecologiche sulla nostra esperienza di knowledge workers?

Mettendo in pratica l’idea di forza lavoro fissa, ci rendiamo conto che le relazioni di classe e di valore possiedono la forma di un doppio nodo torico composto da mezzi di produzione fissi, forza lavoro fissa, mezzi di produzione fluidi e forza lavoro fluida. Se si ipotizza che il capitale non possa che funzionare all’interno di un dato regime ecologico, allora questa forma sociale risulta inestricabilmente legata anche al suo regime culturale. I due elementi non possono essere separati. Ad esempio, se aumentiamo disperatamente le criticità ambientali attraverso il costo crescente dell’estrazione di risorse, non possiamo non notare come tutto questo sia collegato all’impoverimento dell’ambiente socio-culturale dovuto al costo crescente dei diplomi e delle lauree. Il problema del degrado ecologico in generale deve essere considerato all’interno del doppio nodo torico appena descritto: esso riguarda immediatamente anche il degrado del fix culturale relativo alla status di classe. Il capitalismo mobilita tattiche simili nel contesto ecologico e in quello educativo: le condizioni che rendono “accettabile” la deforestazione sono le stesse che giustificano lo sfruttamento, qui come altrove.

Attualmente le università sono attraversate da una pluralità di lotte il cui obiettivo è la riappropriazione dei mezzi attraverso i quali la conoscenza viene creata, trasmessa e valorizzata. In un certo senso, Occupy Wall St. interroga direttamente la struttura istituzionale che regola le agenzie educative. Quali sono le tue impressioni rispetto ai movimenti sociali che hanno individuato nella dismissione delle università il loro specifico terreno di lotta?

Occupy Wall Street (2011) è stato un movimento salutare. In ultima analisi, esso non dovrebbe essere giudicato sui suoi momentanei successi o fallimenti, bensì sui semi di malcontento che ha diffuso a livello globale, spesso in posti e in modi imprevedibili. La mia impressione è che ci stiamo avvicinando ad una situazione simile a quella del Maggio 1968. Questo nuovo evento ripartirà da alcuni insuccessi delle rivolte precedenti, e specialmente da una rinnovata critica della formazione come terreno di lotta di classe. Gérard Duménil e Diminique Lévy colgono bene il punto nel loro recente The Crisis of Neoliberalism (Harvard University Press, 2011). Il loro suggerimento è che i ceti medi stiano cominciando a revocare la loro affiliazione con la classe capitalistica per riallinearsi con la classe lavoratrice. Si tratta di una svolta già accaduta negli anni Trenta e Quaranta del Novecento. La fusione operata da Occupy tra studenti universitari provenienti dalla classi medie – frustrate e traditi nelle loro aspirazioni di ascesa sociale – e sindacati dei lavoratori illustra perfettamente l’attuale momento di riallineamento delle relazioni di classe. Gli universitari devono rendersi conto che il loro destino non è necessariamente quello di diventare complici dei malfattori in doppiopetto. Al contrario, essi possono formare ciò che Michael Denning chiama un fronte culturale che si posiziona al fianco della classe lavoratrice. Un vecchio slogan definirebbe tutto questo “impegno”. Il termine oggi sa di stantìo: usiamo allora la parola “riallineamento” e vediamo dove possiamo arrivare partendo da qui.

Mark Fisher è stato spesso citato a proposito della sua riflessione sul “realismo capitalista”: egli ci dice che oggi è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Forse ha ragione. Si potrebbe anche dire, però, che le produzioni culturali che si riferiscono al “tempo della fine” non segnalano l’assenza di lavoro culturale, bensì il transistor attraverso il quale i ceti medi immaginano le fasi di transizione e i passaggi delle affiliazioni sociali. Ci siamo abituati per troppo tempo a parlare la lingua del pessimismo culturale. Quello attuale, invece, è il tempo dell’ottimismo del rischio. Come disse Adlai Stevenson nel 1954: “Teste d’uovo di tutto il mondo, unitevi! Non avete da perdere che i vostri tuorli!” [“Eggheads of the world, unite; you have nothing to lose but your yolks”]

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Stephen Shapiro è professore di letteratura inglese e letterature comparate all'Università di Warwick (Regno Unito). è inoltre un attivista dei movimenti anti-austerity britannici. I suoi interessi di ricerca includono: il concetto di materialismo culturale, la teoria marxista e gli studi letterari critici. Tra le sue pubblicazioni recenti: How to Read Marx's Capital, (London: Pluto, 2008); The Culture and Commerce of the Early American Novel: Reading the Atlantic World-System, (University Park: Penn State Press, 2008); The Wire: Race, Class, and Genre (edited with Liam Kennedy. Ann Arbor: Michigan UP, 2012).