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La scelta di Fanon: la razza e il valore dell’umano

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di PAUL GILROY

“[...] così l’ateismo è, in quanto soppressione di Dio, il divenire dell’umanismo teorico, e il comunismo, in quanto soppressione della proprietà privata, è la rivendicazione della vita umana reale come sua proprietà, cioè è il divenire dell’umanesimo pratico; o in altre parole l’ateismo è l’umanismo mediato con se stesso dalla soppressione della religione, il comunismo è l’umanesimo mediato con se stesso dalla soppressione della proprietà privata. Solo attraverso la soppressione di questa mediazione, che però è un presupposto necessario, si forma l’umanismo che ha inizio positivamente da se stesso, l’umanismo positivo.”

Karl Marx, Manoscritti economici-filosofici

Il coinvolgimento di Fanon con il cambiamento rivoluzionario è stato caratterizzato da una grande passione nel parlare in nome dell’umanità. Tuttavia, il suo impegno in favore di un umanesimo nuovo, evidente in tutti i suoi scritti, rappresenta per i critici contemporanei un argomento complesso da affrontare. È così che l’umanesimo di Fanon viene raramente discusso. Ad ogni modo, le rivendicazioni di una sua originalità e peculiarità stanno a indicare che è arrivato il momento di riconsiderare il suo valore.

Fanon insiste su una serie di argomenti orientati verso la costituzione di ciò che la psicologa e commissario del Truth and Reconciliation Commission South Africa, Pumla Gobodo-Madikizela, ha chiamato un “umanesimo riparatore”[1]. Questa stimolante prospettiva può aiutarci a chiarire una serie di problemi politici del tutto evidenti nel mondo postcoloniale. La riparazione immaginata da un umanesimo di questo tipo semplicemente non è né economica né tantomeno morale. Ciò che Fanon ha in mente è una riparazione ontologica capace di eliminare il danno prodotto dall’ordine razziale. Quelle riparazioni ci suggeriscono l’interessante possibilità di cominciare ad essere umani al di fuori degli schemi corporeo-razziali (nonché in opposizione ad essi) e del mondo epidermizzato da essi prodotto.

È importante ricordare che l’umanesimo di Fanon si è configurato a partire da un progetto più ambizioso, ovvero il superamento rivoluzionario del sistema coloniale nonché dei suoi ordinamenti razziali. Questo nuovo umanesimo è emerso insieme a un impegno attivo in favore della liberazione nazionale, un obiettivo che per Fanon presupponeva la coscienza di un mondo nuovo capace di eccedere le formalità dell’internazionalismo astratto. Le sue speranze universaliste sono emerse nel contesto delle conseguenze della Seconda guerra mondiale e delle successive guerre di decolonizzazione, così come del suo convincimento che un’esistenza autentica, celebrata dallo stesso desiderio umano, può restare integra nonostante l’azione distruttiva degli schemi razziali.

Un cosmopolitismo di questo genere appariva inoltre caratterizzato da una delle ossessioni di Fanon, ovvero dalla sua insistenza sul fatto che i nuovi stati indipendenti non dovevano ripetere gli stessi errori e crimini dell’Europa coloniale – si tratta di una determinazione storica impressa in tutta la sua forza nella scelta fanoniana di una retorica cosmica, e che di frequente viene erroneamente liquidata come un semplice errore di gioventù. Come suggerito da Ato Sekyi-Otu[2], molte delle affermazioni più note di Fanon racchiudono una concezione del tutto positiva dell’umano anziché negativa. Si pensi, per esempio, a concezioni del tipo: “L’essere umano è un Sì che vibra alle armonie cosmiche”. Ancora una volta, questa affermazione tipica del pensiero di Fanon può essere considerata come una risposta sorta dal bisogno di opporsi al potere escludente del razzismo, ovvero di un tipo di potere incapace di ammettere i neri nella presunta categoria dell’umano.

Gobodo-Madikizela inserisce questo impegno fuori moda di Fanon nella sua proposta di un umanesimo nuovo; di un umanesimo fondato sull’argomento oggi poco seducente del potere di trasformazione dell’empatia. In effetti, questo presupposto della psicologa sudafricana appare al sistema chiuso della “teoria”[3] contemporanea tanto inquietante quanto lo stesso pensiero di Fanon. Gobodo-Madikizela promuove la sua idea della riparazione di un’umanità alienata e mutilata come una componente centrale di un processo condiviso attraverso cui le vittime dell’Apartheid – e in senso più lato quelle del terrore coloniale in generale – potrebbero riacquistare la dignità che il razzismo gli nega tuttora. Al tempo stesso, e in modo più controverso, la psicologa afferma che i responsabili delle brutalità potrebbero trarre vantaggio dal sottoporre se stessi alla potenza guaritrice del raccontare la verità e accedere così a un’umanità allargata; una verità capace di emergere soltanto se stimolata all’ombra di una giustizia palingenetica. Prese insieme, queste aspirazioni correlate di Gobodo-Madikizela contribuiscono alla costituzione di una nuova figura distintiva dell’umano. E, a sua volta, il loro compimento consente di mettere a fuoco alcuni dei problemi rimasti irrisolti nella crisi del sistema multiculturale postcoloniale europeo, nonché nella continua battaglia contro le gerarchizzazioni razziali e le ineguaglianze.

Il presupposto di Gobodo-Madikizela è frutto della sua ambizione di promuovere un multiculturalismo abitabile, una prospettiva fondata sulla necessità di considerare in modo positivo il contatto con l’alterità e di andare oltre l’idea di mera pluralità neutralizzando qualunque senso di perdita, ansietà o rischio. Questa agenda rappresenta inoltre una risposta a quella aggressiva deriva neo-civilizzatrice caratteristica dell’attuale situazione geopolitica europea volta a rafforzare la convinzione secondo cui la diversità non può coesistere con la “fratellanza” o la solidarietà sociale.

1. Francia

L’idea dell’umano di Fanon può essere arricchita soltanto se si ha una certa familiarità con lo scenario politico/intellettuale francese in cui ha preso forma la sua prospettiva. Tuttavia, l’attualità de I dannati della terra mostra chiaramente come le questioni sollevate da Fanon vadano oltre il loro scenario di origine[4]. Anche se non possiamo soffermarci esaustivamente in questa sede su questo argomento, siamo comunque in grado di affermare che tali questioni richiamano chiaramente argomenti filosofici, ovvero, in particolare, dibattiti sulla fenomenologia, sulla corpo-realtà, sulla soggettività e sulla temporalità. Si tratta di dibattiti condizionati in passato dalle conseguenze della guerra contro il nazismo, e che hanno profondamente diviso la comunità politica francese. È più difficile, ma non meno importante, riconoscere che questi dibattiti sono stati anche influenzati dal nuovo contesto emerso dalla guerra contro i Vietminh. Le guerre di decolonizzazione sono iniziate nel 1945, subito dopo l’arrivo dell’esercito francese a Sétif, Guelma, Kherrata e altre città algerine per annientare il sentimento indipendentista nato tra i soldati tornati da poco dai campi di battaglia europei. Può essere utile definire questo episodio della storia francese come il “problema di Thiaroye”[5].

Fanon non incriminava soltanto gli umanesimi precedenti. Egli aveva come obiettivo polemico anche il compiacente marchio di anti-umanesimo catalizzato da questi conflitti. Era proprio il tentativo di mettere in rapporto l’etica e la politica della resistenza antinazista con la spinta morale delle lotte anticoloniali a consentirgli di intraprendere la sua riflessione sulle trappole di un’umanità razzializzante. Questa riflessione era plasmata da una soggettività antirazzista piuttosto esplicita. L’epidermizzazione dell’umanità poneva Fanon di fronte a un bersaglio particolare; proprio per questo egli ha situato le sue analisi di questo fenomeno in una prospettiva storico-mondiale:

“In realtà, il flusso nazionale e l’emergenza di nuovi Stati preparano e precipitano il riflusso inevitabile della schiera imperialista internazionale. La comparsa di popoli fino a ieri sconosciuti sulla scena della storia, la loro volontà di partecipare alla costruzione di una civiltà all’altezza del mondo, rende l’epoca contemporanea di un’importanza decisiva nel processo di umanizzazione del mondo”[6].

Vi sono altri tratti caratteristici dell’umanesimo proposto da Fanon che possono apparire altrettanto sconcertanti alla critica contemporanea. In primo luogo, vorrei mettere in evidenza la sua critica non-immanente della razza. Fanon identifica l’idea di razza per archiviarla subito dopo in quanto tratto sintomatico dell’ontologia politica moderna; o meglio di un’ontologia segnata in modo profondo dal concetto di razza. Questo presupposto di Fanon non fa che ribadire ancora una volta l’assoluta novità del suo umanesimo. La convinzione di Fanon secondo cui a rendere diverso il suo umanesimo dagli umanesimi precedenti era proprio la sua opposizione radicale alla gerarchia razziale, insieme a ciò che aveva definito precedentemente come “la reale dialettica tra corpo e mondo”, risuona oggi come qualcosa di piuttosto audace e spesso imbarazzante.

La formulazione originale di questo tipo di dialettica compare per la prima volta in un passaggio difficile di Pelle nera, maschere bianche che occorre considerare con estrema attenzione. In questo passaggio, inoltre, appare evidente la sintonia di Fanon con le idee di Merleau-Ponty[7] e di Césaire. Fanon identifica un modo razzializzato (e di conseguenza alienato) di essere nel mondo: “lo schema corporeo-razziale” prodotto dalla conquista e riprodotto dalle amministrazioni coloniali viene contrapposto a una modalità di esistenza materiale-corporea del tutto diversa, ovvero a uno schema altro rispetto a quello alimentato dalla sociogenesi del mondo razzializzato. Chiaramente, è la produzione di questa aberrazione razziale attraverso i normali meccanismi di raggruppamento dei soggetti a fornire un ulteriore stimolo alla visione irrequieta esposta da Fanon con forza rivoluzionaria negli ultimi paragrafi di Pelle nera, maschere bianche. Si tratta di una concezione dei sé come prodotti graduali dello spostamento dei corpi umani – con diversi gradi di difficoltà – nello spazio e nel tempo.

Il manicheismo, in congiunzione con il dominio coloniale, crea e sostiene gli ordinamenti razziali. Entrambi questi fenomeni si rafforzano reciprocamente, anche se si mostrano instabili. Tuttavia, essi sono perfettamente in grado di articolare una brutalità spettacolare e sproporzionata a un’attività economica estrattiva, determinando ciò che possiamo definire un pseudo-sistema di governo e le para-politiche tropicali delle governamentalità del tipo di quella del “British Dual Mandate”[8]. Queste forme di potere non fanno che impedire i processi naturali e sociali tra conquistati e colonizzati. I danni che provocano si rendono evidenti attraverso quella profonda estraniazione dall’umano inevitabilmente alimentata dall’architettura della razza.

Il concetto di alienazione in Fanon ha un significato sostanzialmente diverso da quello comune tra gli autori hegelo-marxisti. È attraverso un suo esempio concreto che possiamo cogliere gli aspetti originali della sua prospettiva. In effetti, quando Fanon analizza la situazione coloniale, cercando di allargare la visione marxista fino a renderla adeguata a tale contesto, la sua attenzione non ricade, come di consueto, sulle dinamiche interrelate di dominazione, mistificazione e riconoscimento bensì su due problemi correlati. Il primo di questi problemi è il riconoscimento negato, mentre il secondo riguarda il bisogno di stimolare un senso acuto dei rapporti di reciprocità, il quale, ci viene detto, non farà che aprire definitivamente il cammino verso “la reciproca relatività di culture diverse, una volta abolito irreversibilmente lo statuto coloniale”[9].

La premessa di Fanon riguardo l’esistenza di una forma di alienazione profonda e razzializzata presenta diversi punti in comune con il perturbante lavoro portato avanti da parte di uno dei suoi principali referenti teorici africano-americani: Richard Wright. Wright ha dovuto affrontare un percorso simile a quello di Fanon, di fronte ai problemi teorici e politici posti dal marxismo tra le due guerre mondiali e dal rapporto tra razzismo e fascismo. Lo scrittore africano-americano aveva cercato di teorizzare tali problemi negli anni Quaranta, mentre egli combatteva ancora con il suo addio al comunismo ortodosso. Entrambi, Wright e Fanon, hanno individuato una metafisica della razza. Si tratta di una metafisica capace di essere inscritta in una sequenza composta da diversi stadi. All’inizio, vi è il riconoscimento negato; più tardi, si sperimenta l’effetto dell’essere costretto a una riconciliazione con quell’oggetto deprimente e subumano con cui si viene confuso: il Negro, nigger o negre. Infine, il consueto carattere sociale dell’intero processo distruttivo si manifesta attraverso il riconoscimento della sua ubiquità.

“La parola ‘Negro’, il termine attraverso cui [...] veniamo abitualmente chiamati noi ragazzi neri negli Stati Uniti non è certamente un nome, e neanche una descrizione, bensì un’isola psicologica la cui forma obiettiva è il decreto più unanime di tutta la storia americana; un decreto supportato dalla tradizione popolare e nazionale [...] che in modo artificiale e arbitrario definisce, regola e limita la portata e il significato dei contorni vitali delle nostre vite, e quelli della vita dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.

Quest’isola, su cui siamo costretti a vivere, è ancorata ai sentimenti di milioni di persone, e si trova in mezzo a un mare di volti bianchi che incrociamo ogni giorno; e, in generale, così come da quando trecento anni fa è nata la nostra nazione, i suoi confini rocciosi sono rimasti irremovibili, nonostante le onde delle nostre speranze si siano scagliate contro di essi”[10].

Gli ordinamenti razziali, siano o no di origine specificamente coloniale, rivelano in che modo si è sedimentata la ferita all’umanità. Questi ordinamenti, ovunque siano emersi, hanno prodotto come risultato qualcosa che possiamo definire come una loro propria “cultura ordinaria”. Per Fanon, il cruento disfacimento degli ordinamenti razziali può avvenire soltanto dopo una condivisione generalizzata del rifiuto liberatore di quell’imperativo secondo cui occorre “accettare il presente come dato”, e soprattutto una volta che le coscienze si sono aperte grazie a quel “vero salto in avanti” capace di introdurre “l’invenzione nell’esistenza”[11]. Questa trasformazione radicale implica una decisione incondizionata verso la ricerca di un’agire improntato alla libertà, ovvero di atti fondati sul ripudio categorico di un’umanità limitata o, nelle stesse parole di Fanon, di quell’umanità “amputata” diffusa da un’Europa alienata in virtù della sua costante negazione dell’uomo e dei suoi sintomatici prodotti: una “valanga di assassinii”[12]. I dannati della terra dà forma a ciò che queste aspirazioni rivoluzionarie comportano nel contesto della liberazione nazionale.

2. L’Europa postcoloniale

I migranti postcoloniali che, come Fanon, si fecero strada verso l’Europa quando i vecchi imperi coloniali vennero dolorosamente sconfitti hanno prodotto un importante archivio in diverse lingue, il quale non fa che estendere e mettere in rilievo il significato radicale del suo progetto alle due estremità della catena non-più-imperiale. Cosi, l’audience europea contemporanea può ora attingere a un simile archivio, costruito a partire da una tradizione multilingue e antirazzista che, come la riflessione di Sven Lindqvist in The Skull Measurer’s Mistake, consente di esplorare in che modo l’impegno perennemente fuori moda verso un mondo senza razzismo potrebbe determinare una divisione del lavoro per nuove pratiche e politiche antirazziste: anche se queste prendono forma all’interno delle malanconiche fortezze dei paesi post-imperiali e neo-coloniali.

Il dibattito in corso sull’attacco omicida razzista, sulla violenta rivendicazione della supremazia bianca e neo-civilizzatrice, di Anders Brevik contro il multiculturalismo in Norvegia potrebbe apportare un’urgenza rinnovata a questo compito. È del tutto impossibile comprendere le azioni islamofobiche o le giustificazioni xenofobe di Brevik senza tenere conto delle storie discorsive e organizzative della razziologia in generale. Le analisi dei crimini di Brevik proposte finora non hanno rivelato soltanto una geografia politica particolare, capace di comprendere anche il mondo virtuale, ma mostrano anche in che modo diverse varianti successive del razzismo rispettabile abbiano organizzato il rapporto tra l’opinione politica marginale e quella mainstream[13]. La complessità delle formazioni translocali che hanno agito l’ideologia assassina di Brevik sono tuttora in evoluzione, ma mostrano in modo piuttosto evidente i tratti caratteristici costitutivi del suo particolare razzismo. Il suo odio, così come le sue conclamate credenziali libertarie, sono state plasmate dagli appelli alla razionalità razziale[14].

A costo di rendere l’umanesimo implacabile di Fanon qualcosa di piuttosto ovvio, dobbiamo anche notare che le diverse correnti calde e fredde del pensiero strutturalista e post-strutturalista non fanno che convergere quando definiscono l’umanesimo, anche nel migliore dei casi, come un mero anacronismo. In diversi modi, l’impegno deciso e oggi chiaramente screditato di Fanon in favore di un umanesimo antirazzista finisce per entrare aspramente in conflitto con i presupposti costitutivi della teoria critica del ventesimo secolo. Dopo la diffusione virale della dichiarazione dei diritti umani dell’Onu e delle sue diverse ricodificazioni locali in virtù delle lotte antirazziste e anticoloniali, la politica dell’umanesimo si è sviluppata durante il periodo della Guerra Fredda attraverso modelli antinomici che continuano tuttora a ossessionarci. In altre parole, la pressione per ridefinire ciò che è umano, sia per quanto riguarda i diritti umani sia per gli interventi umanitari, ha determinato conflitti ancora più profondi di quelli anticipati da Fanon.

Non vorrei che il mio ritorno all’umanesimo di Fanon venisse frainteso. Non è questo il momento di accettare quella semplice idea secondo cui la teoria può o dovrebbe procedere con facilità a partire dal presupposto che esiste certamente un’essenza umana – tanto semplice ed evidente quanto universale – alloggiata nell’interiorità di ogni soggetto. Tuttavia, è irreale immaginare che il potere di una simile affermazione possa essere disarmato cercando semplicemente di sbarazzarci di quel presupposto e delle sue vaste conseguenze istituzionali. Spesso, questa idea è stata adoperata in un modo che possiamo definire come tattico; tale modalità si è resa evidente nelle richieste politiche dei movimenti impegnati nella democrazia, nella liberazione nazionale e nell’emancipazione dagli effetti delle gerarchie razziali. Inoltre, un’idea di questo tipo è stata accolta anche quando si inseguiva la conquista di diritti civili e politici che sono rimasti a lungo intrecciati con la fallita aspirazione di ottenere un riconoscimento in quanto esseri pienamente umani; si tratta di un’impresa in grado di marchiare ancora oggi il mondo postcoloniale e neocoloniale, così come una volta aveva segnato il periodo coloniale.

La seguente affermazione si rifà a Fanon nel porre una questione piuttosto specifica: il danno arrecato dal razzismo, dalle gerarchie razziali e dalla razzializzazione richiede forme particolari di riconoscimento. Questo riconoscimento non dovrà essere soltanto politico o giuridico, ma anche di tipo filosofico, e dovrà necessariamente rappresentare più di una generica ammissione del fatto che le persone sono sempre condannate a farsi del male le une con le altre, dato che il loro odio e risentimento interagiscono in modo consistente e spesso finiscono per alterare/corrompere il loro rapporto con l’alterità. E qui si rendono evidenti diversi problemi storici e concettuali. Affrontare tali problemi richiede l’elaborazione di un inventario più esteso, di quello che viene normalmente ammesso dalla Sinistra, dei contributi che il periodo dell’universalismo europeo ha apportato al pensiero razziale. L’ontologia politica delle razze richiede la revisione della modernità per ciò che riguarda l’epistemologia, l’estetica e la techné; ma anche un’analisi più approfondita della storica unione tra capitalismo e democrazia. In un prezioso e provocatorio passaggio sul razzismo, Cornelius Castoriadis ha ricondotto la vitalità e l’ubiquità dell’odio razziale per gli stranieri alle “inclinazioni naturali” che sostentano la socialità umana, così come all’auto-creazione e al disgusto di sé tipici della società moderna e della ipseità. Non c’è bisogno di prendere le distanze da questa impostazione per comprendere che l’inquietante percorso identificato da Castoriadis ci può allontanare da quel fondamentale presupposto secondo cui confrontarsi con il razzismo appare un compito centrale della lotta politica. La filosofa giamaicana-americana Sylvia Wynter suggerisce che questa critica della modernità può essere svolta in modo più efficace se articolata con le affermazioni di Fanon sulla sociogenesi del razzismo, nonché con il suo piano per rimuovere le fratture psico-esistenziali da essa prodotte. Nel lungo periodo, sostiene Wynter, quelle battaglie possono contribuire a un “re-incantamento” dell’umanesimo; a un re-incantamento inteso come un processo creativo e gioioso, e che in Giamaica è stato dominato dal riadattamento sovversivo e filo-etiopico della poetica vuota dell’Unesco disseminato da artisti del roots-reggae come The Abyssinians, The Heptones e Burning Spear, ovvero da autori di veri e propri inni sul tema dell’umanità e dei diritti umani che sono stati capaci di resistere finora, nonostante siano ormai tramontati il pan-africanismo e il garveyismo da cui discendono.

3. Il prezzo dell’antiumanesimo

Gli antiumanisti del ventesimo secolo, alla base delle dubbiose posizioni che dominano ancora oggi il senso comune nei campus universitari angloamericani, hanno consentito la proliferazione di interpretazioni di Fanon non solo piuttosto discutibili, ma anche mascherate come critiche da Sinistra. Le audaci speranze di Fanon vengono considerate come naïve o come risposte meramente frammentarie, che, al di là della loro entusiasta visione della violenza, finiscono per sfociare comunque in un umanesimo vuoto e compromesso, ovvero affine a quello liberale o promosso dall’Unesco. Da questa prospettiva, Fanon viene giudicato di essere rimasto piuttosto legato all’idea di una redenzione obliqua dell’Europa anziché a quella di una sua sistematica provincializzazione. Inutile aggiungere che questo assurdo verdetto – fondato su un grave fraintendimento degli argomenti di Fanon sulla necessità e sui costi inerenti al rovesciamento violento del colonialismo – non è mai stato esplicitato in modo coerente.

Durante il periodo della decolonizzazione, non sono stati unicamente frammenti dissenzienti delle élite coloniali a segnalare che il dibattito sull’integrità (e i confini) dell’umano era stato condizionato dalle conseguenze della lotta contro il nazismo. In passato, così come ai nostri giorni, non era né gentilerispettabile concentrare l’attenzione sul potere costitutivo del razzismo in quanto populismo o analizzare il regime politico nazista in quanto dispositivo governamentale di un’igiene razziale direttamente connessa alla storia genocida del dominio coloniale, sia all’interno che all’esterno dell’Europa. Le vecchie regole del ventesimo secolo prevalgono tuttora nel mondo astratto dell’anti-umanesimo accademico. La forza disciplinare residuale riconvogliata dai filosofi apologetici del fascismo non sembra mostrare alcun imbarazzo per i loro rapporti con la politica ontologica della razza celebrata e affermata da figure come Heidegger, Schmitt e altri giganti nazisti della teoria contemporanea. Tuttavia, è proprio l’influenza di questi autori a far apparire superficiale l’umanesimo riparatore antirazzista di Fanon, così come la sua politica di liberazione nazionale. Se il nazismo non è stato, dopo tutto, un male assoluto, ma soltanto una traccia catastrofica dell’umanesimo metafisico, che inoltre non fa che rivelare i problemi inerenti a tutte le forme di umanesimo, allora solo poche anime coraggiose saranno pronte a sottoscrivere la grande follia di una ricostruzione dell’umanesimo.

L’antropologia filosofica marxista a cui Fanon ha legato in qualche modo il suo progetto si è mossa in diverse direzioni sotto l’influenza del pensiero di Foucault. Al tempo stesso, diverse prospettive femministe hanno sollevato sempre di più critiche sul rapporto delle categorie genderizzate alle nozioni di umanità e di cittadinanza, così come sugli enunciati riguardo l’emergere di una presunta trans-umanità o post-umanità dopo la fine dell’evoluzione naturale della nostra specie. Le oramai classiche affermazioni di Donna Haraway hanno risolto questo problema enfatizzando le affinità tra l’agire soggettivo del cyborg militare e l’esistenza post-umana della donna di colore californiana. Nei suoi ultimi lavori, la sua idea sulla scomposizione dell’umano sembra aver costretto Haraway a mettere da parte le sfide dell’alterità e dell’interdipendenza in favore di una comprensione dei rapporti tra le specie piuttosto che nella stessa specie. La peculiarità del contesto americano in cui scrive Haraway lascia intendere che le interazioni razzializzate dovrebbero continuare a segnare lo spazio, a meno che non subentrino specifiche forme di gerarchia. In questo passaggio, Haraway mostra chiaramente quali siano le sue priorità:

“Il legame discorsivo tra il colonizzato, lo schiavo, il non cittadino e l’animale – tutti ridotti al tipo, tutti gli altri ridotti all’uomo razionale e tutto l’essenziale alla sua brillante costituzione – è nel cuore stesso del razzismo e continua a prosperare, in modo letale, nelle viscere dell’umanesimo”[15].

Fanon non considera l’umanesimo come responsabile dello sviluppo del razzismo e tanto meno ha l’intenzione di reificare l’identità razziale. Egli affronta il razzismo come una causa della corruzione dell’umanesimo, un fatto che appare del tutto evidente nella storia della dominazione coloniale. In altre parole, Fanon considera l’umanesimo come un congegno capace di annullare i “legami discorsivi” di cui parla Haraway. Inoltre, egli ci fornisce degli stimoli per immaginare un umanesimo nuovo progettato a partire dalla de-naturalizzazione della razza e dal rifiuto delle gerarchie razziali.

Prima di continuare con la nostra analisi, dobbiamo ricordare il fatto che, in nome della scienza, lo stesso nome proprio “umanista” è stato di recente distorto e monopolizzato da parte del secolarismo zelante di Richard Dawkins e dai suoi seguaci. Si tratta di una compagine orgogliosa di sé e del tutto indifferente a una riconfigurazione postcoloniale del mondo, e che, in modo piuttosto significativo, si rifiuta di fare il benché minimo gesto di riconsiderazione della propria visione dell’Islam – secondo le stesse parole dell’eminente scienziato Dawkins – in quanto “male assoluto della storia”[16]. Al loro belligerante scientismo neo-civilizzatore non interessa affatto confrontarsi con la questione dei necessari legami di interdipendenza tra i dibattiti sui limiti dell’umano e l’ontologia politica delle razze, e tanto meno intervenire nella lotta contro le gerarchie razziali. Andrebbe ribadito che qualunque cosa abbiano detto su questo argomento Defoe, Diderot, Montesquieu o Mary Shelley, i prodotti ormai datati dei loro esprit non presupponevano affatto un illuminismo caricaturale ed etnocentrico come quello attuale.

Per seguire davvero la traccia di Fanon, dobbiamo compiere quel passo che il friabile e vuoto umanesimo tradizionale si è rifiutato di fare, ovvero procedere a un ri-orientamento radicale della sua prospettiva mettendo decisamente a fuoco i continui crimini coloniali europei, così come la razziologia e la xenologia che li hanno legittimati. Sarà soltanto dopo un esercizio di questo tipo che ci potremmo chiedere in che modo una raffigurazione dell’umanesimo ispirata da (e che comunque si dispiega oltre) quella di Fanon può contribuire a rendere consapevole l’Europa della propria condizione postcoloniale.

Dobbiamo porci la questione di contribuire a rinnovare e migliorare i rapporti dell’Europa con i suoi indesiderati migranti e post-migranti, rifugiati, clandestini e diversi tipi di denizens: con tutti quei soggetti infraumanizzati poiché giudicati inferiori da un punto di vista razziale e neo-civilizzatore; e alle cui vite viene conferito un valore minore perfino quando precipitano entro gli elastici confini della giustizia. Questo imperativo rimasto incompiuto è chiaramente una questione urgente da affrontare. I problemi associati a tale compito sono stati affrontati unicamente a partire dalle forme di quell’imperativo della sicurezza che satura oggi istituzioni politiche in stato sempre più terminale, e supportate in modo inadeguato dai loro presunti impegni umanitari.

Anche se i cacciabombardieri della Nato hanno smesso di rombare sinistramente nei cieli della Libia, non possiamo distogliere il nostro sguardo dagli effetti deleteri suscitati da questo funesto schieramento di forze. E tuttavia, non possiamo neanche negare che i dibattiti sulle particolarità della nostra specie hanno una lunga, importante e, vorrei anche suggerire, incompiuta storia. Edward Said ha tentato un’operazione altamente significativa nel suo Beginnings: come parte di un argomento più vasto sulle conseguenze di un modello ricorrente in cui è lo stesso “umanesimo a generare il suo opposto”[17], Said ha avuto il coraggio di confrontare l’eredità di Vico e di Fanon attraverso un provocatorio contrappunto.

Quando Vico parla di un linguaggio mentale comune a tutte le nazioni, egli presuppone una comunità verbale capace di mettere in rapporto gli uomini tra di loro a spese di una loro presenza esistenziale immediata. Tale linguaggio comune – che nella letteratura moderna è apparso nella forma dell’inconscio di Freud, della nuova lingua di Orwell, del pensiero selvaggio di Lévi-Strauss, dell’épistéme di Foucault, della dottrina dell’imperialismo di Fanon – disloca la centralità dell’umano o del cogito nell’interesse (a volte tirannico) di rapporti sistematici universali. La partecipazione a questi rapporti non è quasi mai volontaria, e viene percepita soltanto di rado come partecipazione in un qualunque senso egalitario; si tratta quindi di qualcosa di difficilmente accessibile a un giudizio scrupoloso da parte degli esseri umani coinvolti.

I presupposti enunciati da Said in questo passaggio hanno dato luogo a ciò che possiamo definire una serie di diversi universalismi “strategici”. Gli architetti di questi universalismi hanno cercato di liberare l’umano e, chiaramente, l’umanesimo dai confini ristretti del soggetto cartesiano, ovvero da quello spazio ben delimitato da una parte dal rapporto con la natura animale, e dall’altra da un instabile resoconto dell’umano in virtù della tecnologia protesica più avanzata. Il mondo digitale è piuttosto lontano dagli ingranaggi meccanici tipici di altri tempi, ma Said ha ragione nel definire questo impegnativo ed entusiasmante programma come una colonna portante del progetto anticoloniale ed emancipatorio di Fanon. Inoltre, la scelta di Said di collocare Fanon insieme a questi autori appare del tutto giustificata e corretta.

Se la sfida qui suggerita è di resistere alla disumanizzazione nell’era della genomica, della biometrica e della proteonomica della molecolarizzazione e dell’umanitarianizzazione, della depoliticizzazione e della neoliberalizzazione, occorrerà dunque aggiornare la nostra prospettiva. In effetti, verremo fermamente sollecitati a ricollocare il desiderio di ricomporre l’umanesimo, in modo da lasciarlo apparire all’interno di un’analisi di quei modi alienati di interazione sociale che ancora dipendono dalla razzializzazione del mondo e dalle classificazioni manichee degli ordinamenti neocoloniali e postcoloniali che sono alla sua base.

Siamo dunque costretti a considerare l’appello di Fanon alla costituzione di un nuovo umanesimo come una componente chiave della sua critica non immanente dei modi razzializzati di essere nel mondo. La sua ontologia storica e il suo umanesimo dovrebbero essere considerati come veicoli per la ricostruzione di un ordine sociale le cui patologie divengono manifeste attraverso il suo legame costitutivo con la razza; attraverso lo sviluppo di quelle forme caratteristiche di alienazione che vengono plasmate e amplificate dalla razziologia. In altre parole, l’umanesimo di Fanon non è un residuo dei dibattiti sull’antropologia filosofica che hanno preceduto l’emergere di un’anatomizzazione scientifica del dominio capitalista e dei suoi costi umani. Fanon ha superato quegli importanti, benché limitati, dibattiti, proprio nel momento in cui egli ha deciso, in modo coraggioso, di mettere la questione della gerarchia e dell’epistemologia razziale, dell’ontologia politica delle razze, al centro stesso della sua analisi anticoloniale e consapevolmente cosmopolita. A questo punto, non è difficile comprendere in che modo l’umanesimo immaginato da Fanon ci induce ad affrontare questioni lasciate contraddittoriamente irrisolte dagli umanesimi precedenti.

Il ventesimo secolo ha visto la destituzione incessante di quel nomos razziale istituito dal processo di espansione imperiale europea. Vi è tuttora la possibilità o l’obbligo di impegnarsi nuovamente in favore dell’umanesimo e di re-incantare la sua dimensione in modo fiducioso. Tuttavia, l’antirazzismo consapevole e il risultante umanesimo riparatore vengono legittimati dalla loro critica specifica del danno prodotto dal discorso razzista all’etica, alla verità e alla democrazia; un danno che non può essere riparato nemmeno attraverso quella grottesca terapia della “politica dell’identità” definita da Fanon come “la frode di un mondo negro”[18].

4. Il terreno dell’umano: guerra, umanitarismo e diritti umani

Il processo di decolonizzazione in cui Fanon si è profondamente impegnato è ancora incompleto. Tuttavia, i termini della sua legittimazione sono stati ridefiniti dall’influenza del discorso sui diritti umani, dal rinnovato potere delle retoriche politiche umanitarie mobilitate come giustificazione di una serie di conflitti neoimperiali per il controllo di risorse strategiche – energia, acqua, minerali, ecc. – e, in particolare, dai cambiamenti nelle tecnologie della comunicazione. Le modalità attraverso cui si manifesta oggi il razzismo sono state riplasmate, inizialmente, dal passaggio dal paradigma delle differenze e delle gerarchie biologiche a quello delle differenze culturali e delle pluralità; e successivamente da un ulteriore cambiamento che ha promosso e proiettato l’idea di razza su scala molecolare. Come conseguenza di questa riconfigurazione della razza, la biologia e l’anatomia politica sono ricomparse come una vendetta nelle dimensioni “neuro” e “nano”.

Questi sviluppi, nonostante la loro matrice postcoloniale e neoliberale, stanno riplasmando quella tacita razzializzazione del mondo che oggi viene declamata in modo piuttosto enfatico attraverso una retorica culturale e neo-civilizzatrice. La vecchia fantasia di un progresso lineare sussiste ancora, ma oggi viene riproposta in due nuove versioni: secolare illuminata e cristiano post-secolare. Entrambe queste nuove versioni condividono una fondamentale strategia: un’Islam monolitico, medievale e dispotico viene costantemente contrapposto a immagini attraenti dell’Europa e dell’Occidente. Il processo di razzializzazione viene rafforzato dal costante richiamo a un’appartenenza etnica assoluta definita in termini religiosi: si tratta di un modello che si propaga nei conflitti che questa stessa logica produce, e che non fa che consolidare e monopolizzare l’umano in forme culturalmente codificate in cui le questioni di genere e di generazione divengono primarie[19].

Il persistere di questo sistema può essere spiegato sia a partire dal suo carattere manicheo, sia dal fatto che i rapporti postcoloniali, comprese le lotte di contro-insorgenza globale e le guerre neo-civilizzatrici, non sono più confinati esclusivamente negli stati post-imperiali.[20] Il ruolo sempre più espansivo della Nato, come quello dell’Isaf nella guerra in Afghanistan, trasforma tutte le forze militari che vi partecipano in attori postcoloniali; e questo a prescindere dal fatto che abbiano o meno tratto beneficio in passato dal sistema coloniale. Inoltre, è chiaro che vi sono elementi di forte continuità storica e geografica tra le guerre di decolonizzazione del passato e le guerre globali oggi in corso.

Quel conflitto apparentemente interminabile, che si è sviluppato ben oltre le contrastanti onde radio captate dal fine udito di Fanon, ha finito per determinare l’intero repertorio di ciò che oggi viene chiamato “smart power”. Gli aspetti informatici della guerra comprendono tutti quei meccanismi digitali che Bob Zoellick, presidente della Banca Mondiale nel 2008, ha definito “diplomazia di facebook”. Prima che Zoellick trovasse il nome appropriato a questo fenomeno, un’idea piuttosto simile era stata promossa, affinata e messa in pratica come mezzo strategico da diverse personalità chiave del dipartimento di stato e dell’esercito americano, così come da alcuni dei suoi partner privati. E questo accadeva molto prima che le “Primavere arabe” del 2011 portassero all’attenzione nello scenario geopolitico mainstream il tema delle nuove infowars e del ruolo delle reti sociali nei conflitti.

La più illustre e rinomata di queste personalità legate al governo americano era sicuramente Jared Cohen. Cohen ha lavorato nelle amministrazioni di Bush e di Obama in qualità di membro della Segreteria di Stato nello staff di pianificazione addetto allo sviluppo del programma politico per il xxi secolo. Anche se ha lasciato di recente il suo incarico di governo per diventare il direttore di Google Ideas, Cohen è stato profondamente coinvolto nel compito di allontanare i giovani musulmani dal “cammino della radicalizzazione”. La sua analisi di ampio raggio presenta i social media, le culture giovanili e più in generale le culture del consumo come risorse chiave nell’organizzazione degli interessi degli Usa in Medio Oriente. Traendo spunto da episodi accaduti nelle Filippine e in America latina, Cohen considerava la notevole densità demografica del Medio Oriente come una variabile importante nel tentativo di catturare la sensibilità dei giovani disincantati e indirizzare le loro frustrazioni verso la nascita di un nuovo movimento politico da cui dovrebbero emergere, di fatto, i leader dei partiti che si porranno all’avanguardia nell’opposizione ai regimi dispotici.

“[...] in Colombia, i giovani sono riusciti a concentrare nelle strade 12 milioni di persone contro i terroristi delle Farc grazie all’uso di facebook. Come risultato di ciò che possono offrire le nuove tecnologie, queste nuove generazioni di giovani possono agire con cautela a casa o nelle loro comunità, mentre possono assumersi rischi maggiori on line. Per essere più chiaro, questi giovani hanno a disposizione strumenti senza precedenti per poter diventare potenti”[21].

Condurre un’infowar efficace richiede un controllo deciso sui social media e sulle abitudini culturali. Per questo, occorrerà influenzare i giovani e guidarli a distanza attraverso l’infrastruttura autopoietica e tecnologica del loro proprio e ludico “empowerment”. La diplomazia culturale e ovviamente quella militare cercano di sfruttare tutte le tecnologie di propaganda e di public relations, così come i nuovi strumenti digitali: è un passo obbligato per progettare l’immaginazione e influenzare i sogni. Così, dunque, dobbiamo segnalare la crescente inadeguatezza di quegli approcci critici fondati su una visione assai semplicistica delle nuove tecnologie digitali che promuovono una concezione dei nuovi media in quanto strumenti neutri e trasparenti.

Il percorso professionale di Jared Cohen ci mostra come i rapporti tra attori privati e governativi in questo emergente ambito di potere, così come nell’arte di governare, appaiano piuttosto intrecciati e fluidi. Altri indizi dell’impatto di questi confusi rapporti possono essere ricavati dalle modalità di funzionamento della securitocrazia globale: buona parte dei suoi compiti e servizi sono stati parzialmente subappaltati e assegnati a misteriose e sospette entità come Xe corp, e una parte importane del suo lavoro viene condotta da una distanza invulnerabile attraverso dispositivi telecomandati come i droni[22]. Le ultime deprecabili avventure militari, inedite soltanto nel senso che vengono giustificate dall’obiettivo liberale di rafforzare l’uguaglianza tra i generi, hanno introdotto ciò che viene denominato “Human-Terrain System”[23]. Questo nuovo tipo di impresa militare assicura agli antropologi di essere “embedded” a fianco dei guerrieri cinetici e informatici, di partecipare a uno sforzo bellico totale capace di affrontare i problemi culturali della differenza, dei rapporti e della traduzione.

Questa presentazione dell’umano, in quanto oggetto conflittuale in un campo di battaglia sempre più esteso, si collega direttamente a una definizione allargata degli interventi umanitari. Questa nuova definizione sta a indicare oggi l’idea che certi gruppi vulnerabili – Lbgt, donne, bambini – verranno protetti dalla terribile avanzata della barbarie medievale rappresentata dall’Islam. Tale compito sarà svolto chirurgicamente attraverso tutti gli avanzati dispositivi di morte caratteristici di un tipo di guerra straordinariamente pulita: Uav droni, bombe a grappolo, proiettili all’uranio impoverito. La guerra cinetica dovrà essere semplicemente sostituita da altre tecnologie più leggere e sottili. In Afghanistan, per esempio, ci sarà un sistema innovativo per ridurre la corruzione, per rafforzare la competitività e il settore bancario basato sulla telefonia mobile; un sistema che non farà che raddoppiare le telecamere e i cellullari, utili a fotografare se stessi e i propri cari, anziché a fare circolare degli sconvenienti videoclip sugli ultimi crimini di guerra o sui cosiddetti danni collaterali[24].

La stessa tecnologia digitale prevede ora delle applicazioni pratiche nei campi di battaglia. Si tratta di applicazioni che non soltanto contribuiscono a identificare piuttosto efficacemente dove verranno tracciate quelle frontiere porose intorno a un’umanità vulnerabile, ma che aiutano anche a mostrare in che modo tecnologie del tutto particolari progettano ed assemblano l’umano. L’esercito americano ha fatto di recente investimenti in una nuova serie di dispositivi biometrici che sicuramente troveranno applicazione nel campo della sicurezza e del rafforzamento della legge, sia nel proprio paese che all’estero. Questi metodi sono stati usati per la prima volta a Fallujah[25]. E un rapporto recente dal fronte afgano rende chiaro il posto che questi metodi occupano nella costituzione di ciò che uno stratega della contro-insorgenza globale ha chiamato “armed social network”[26].

5. Come di consueto l’uomo: tra animalità e tecnologia

La proliferazione di queste tecnologie corporee richiede il riconoscimento dell’emergere di un’umanità biometrica come una specie di erede dell’“uomo epidermizzato” .

Quando i controlli biometrici vengono posti al servizio della securitocrazia e della guerra neo-civilizzatrice finiscono per produrre una sorta di “individualismo somatico”[27]. La strategia fondata su questo tipo di controlli punta dunque in una direzione diversa da quella degli approcci alla sicurezza direttamente fondati su una logica di tipo razziale o etnico.

Se il confine con la tecnologia ha rappresentato uno degli assi tradizionali delle ricerche induttive sulla finitudine dell’umano, l’altra cornice principale di queste riflessioni ha riguardato i rapporti immaginari con la natura animale. La storia del razzismo indirizza quest’ultima interfaccia al problema del dolore e delle sue varietà; si tratta infatti di una questione affrontata da alcuni dei precursori dell’anatomia politica[28]. Oggi, gli argomenti sulla dignità e sui diritti umani non possono essere separati dal dibattito sulla crudeltà e la tortura, ovvero sul ricorso al dolore e alla sofferenza inflitta ad altri per combattere quei tipi disperati di conflitti che hanno come obiettivo la riaffermazione della legalità e del potere statale nelle situazioni di impunità tipiche dei momenti in cui l’emergenza si trasforma in regola[29]. Può darsi che il torturatore venga considerato come un “nemico del genere umano”; tuttavia, la tortura è stata simultaneamente ridefinita e routinizzata, banalizzata e diffusa attraverso i modelli mediatici di una diplomazia militare dalla quale è difficile sottrarsi. Questo tipo di sviluppo deve essere inoltre collegato al ruolo sempre più preponderante delle forze speciali e delle armi telecomandate nella prosecuzione di ciò che ci viene presentato come il nuovo paradigma della guerra globale.

Le “primavere arabe” del 2011 hanno evidenziato come i vecchi doppi standard coloniali radicati nella teoria razziale vittoriana sono tuttora vigenti. Come sappiamo, una risoluzione delle Nazioni Unite ha giustificato l’intervento umanitario per proteggere i civili da Gheddafi mentre gli stessi civili libici venivano bombardati dai loro eroi della Nato. L’insostenibile repressione in Libia e Siria è stata nettamente distinta dagli eventi sanguinosi che contemporaneamente accadevano in Bahrein, dove gli interessi strategici di Stati Uniti e Gran Bretagna hanno ispirato una diversa etica geopolitica. Il sistema sicurocratico di questo stato del Golfo è stato disegnato e implementato da Ian Henderson, un pluri-insignito agente di polizia britannico. Henderson è stato più volte accusato come torturatore, sia durante l’emergenza in Kenya, luogo in cui si è conquistato il suo talentoso mestiere di agente di sicurezza, sia durante la sua missione in Bahrein, dove ha ottenuto il suo sopranome di “macellaio” per il carattere e la forza con cui ha organizzato la risposta del governo alle rivolte del 1990[30].

Henderson ha pubblicato le sue memorie nel 1958[31]. È qui che racconta la sua carriera di repressore delle insorgenze popolari e delle lotte di liberazione nazionale in Africa e nel Golfo. Si tratta di una carriera che ci dice molto della geografia politica dei governi dell’Europa postcoloniale. Tuttavia, il suo testo può essere utili ad altri fini: non da ultimo, per un’analisi del modo in cui delinea le ambiguità intrinseche al rapporto tra le razze e le specie. Henderson, per esempioì, ci descrive qual è stato il suo atteggiamento durante i suoi svariati colloqui con i prigionieri MauMau catturati durante l’emergenza in Kenya, mentre dava la caccia al leader Kikuyu Dedan Kimathi. Kimathi, come Fanon, era stato arruolato in un esercito europeo per lottare contro le forze dell’asse nel 1945. Le descrizioni di Henderson degli insorgenti kenyoti catturati come selvaggi, primitivi e crudeli appartiene ai valori morali associati ai sistemi tradizionali di classificazione razziale. Mi sono soffermato su questo argomento nel mio Between Camps[32]. Qui vorrei invece richiamare l’attenzione sulla proposta di Henderson secondo cui è la riduzione del nemico allo status di animale a creare nella mente del torturatore obblighi e pressioni morali piuttosto confuse.

Può essere interessante notare che considerazioni di questo tipo emergono anche nei resoconti dei prigionieri africani e caraibici catturati dai nazisti e destinati ai campi di prigionia. Alcune testimonianze ci dicono che a volte i compagni bianchi del campo superavano in crudeltà le guardie naziste nel cercare i vantaggi della gerarchia razziale e della segregazione in quanto parziale compensazione della perdita di libertà. Al di là del carattere auto-evidente della razza in quanto differenza naturale, la linea divisoria tra umano e infraumano, tra umano e animale, tra soggetto umano e oggetto non appare mai così ovvia. Sono soprattutto i detentori del monopolio della violenza a dover specificare e determinare in modo preciso tale linea divisoria in circostanze psicologicamente difficili, come quelle in cui la tortura, la castrazione e altri atti sessuali piuttosto brutali competono con “una rassicurante pacca sulla schiena” come probabile risultato dell’interazione.

Per continuare con i classici dibattiti sui confini dell’umanità, può essere di aiuto considerare quei casi in cui l’umano è messo in discussione nei conflitti politici e giuridici di tipo postcoloniale e neocoloniale. Questo esempio ci parla più del futuro che del passato. L’idea di Fanon secondo cui i conflitti coloniali mettono allo scoperto, e diffondono, nuove definizioni e nuovi confini dell’umano può essere applicata ai nuovi ambiti tecnologici, giuridici e morali coinvolti nella produzione di sistemi robotici militari.

In questo ambito, il modello non si è sviluppato nel modo in cui Haraway aveva previsto, ovvero nella sublimazione dell’umano in una figura cyborg postumana o transumana. I sistemi telecomandati di armi operano senza un controllo umano diretto in circostanze mutevoli e considerate troppo complesse e veloci per consentire un qualunque tipo di intervento decisionale umano diretto – un simile cambiamento non ci allontana dall’ambito dell’umano, ma al contrario non fa che riportarci ad esso[33]. Il testo di Peter Singer Wired for War rappresenta un’introduzione eccellente a questo argomento[34].

Il ministero britannico di difesa ha sottolineato che “attualmente non ha intenzione di sviluppare sistemi operativi senza che possa prescindere dall’intervento umano nel comando delle armi e nella catena di controllo”[35]. Tuttavia, di recente ha emesso una lunga circolare informativa per chiarire questioni legali ed etiche relative a questo argomento: la posizione del Regno Unito sui sistemi aerei non pilotati. Il documento è stato elaborato dal “Centro di sviluppo, concetti e dottrine del ministero della difesa” (Dcdc) e trasmesso a tutti gli ufficiali superiori dei diversi rami del servizio[36]. Mi sembra importante riportare qui un intero passaggio di questo documento:

“Esiste un dibattito sempre più acceso in cui si suggerisce che la maggiore velocità, confusione e sovraccarico di informazioni della guerra moderna può rendere inadeguato l’intervento umano, poiché lo scenario è diventato troppo complesso per essere diretto da una decisione umana.

Il ruolo dell’essere umano nel ciclo aveva a che fare, precedentemente, con aspetti legali che sembrano ora superati; qual è il ruolo dell’essere umano da un punto di vista etico e morale nei sistemi telecomandati a distanza? Molte delle ricerche in questo campo si concentrano sull’unica abilità che (per il momento) hanno gli esseri umani, ed è quella di apportare empatia e qualità morali a decisioni difficili. Per un sistema robotico, uno scuolabus e un carro armato rappresentano la stessa identica cosa – dei semplici algoritmi in un programma informatico – e l’identificazione automatica di un bersaglio è un’azione singolare; un robot non ha il senso dei fini, dei mezzi o dei significati, non gli occorre sapere il motivo per cui sta combattendo contro quel bersaglio. Non vi è ricorso al giudizio di un uomo nell’identificazione automatica di un determinato bersaglio, non esiste alcun imperativo morale nella presa delle decisioni, e nemmeno serve alcuna abilità per immaginare (e dunque per prendersi una responsabilità) delle possibili ripercussioni dell’azione intrapresa. Tutto questo solleva una serie di interrogativi utili da affrontare prima di schierare sistemi di armamenti del tutto autonomi [...]. L’altro lato della questione dell’autonomia è più positivo. I robot non possono essere emotivi e non odiano. Un obiettivo di attacco rappresenta soltanto una serie di uno e di zero, e una volta che la decisione è stata presa, qualunque cosa essa significhi, esso diviene legittimo, e il suo abbattimento verrà meccanicamente eseguito. Il robot è incurante del fatto che l’obiettivo sia un essere umano o qualcosa di materiale, terroristi o combattenti per la libertà, selvaggi o barbari. Un robot non può essere mosso dalla rabbia per commettere un’azione illegale come quella avvenuta a My Lai”[37].

Questa visione della tecnologia rappresenta un luogo comune tra coloro che sviluppano modi sempre più sofisticati di uccidere[38]. Essa ci ricorda che i due confini convenzionali dell’umanità, da un lato con gli animali e dall’altro con le macchine, sono stati messi a punto nell’arte di governare gli eventi dello spazio coloniale. Se si tiene conto di questa considerazione da un punto di vista storico occorrerà apportare qui una correzione fondamentale. La razziologia può suggerirci qualcosa di diverso, ma lo spazio coloniale e i conflitti che sorgono in esso non appartengono affatto al passato. Il nativo o il colonizzato non rappresentano un viaggio verso il passato. La sfida radicale dell’essere esposti all’alterità inteso come qualcosa del tutto diverso dalla perdita o dal pericolo si annida anche nel presente, così come quegli altri di cui ci serviamo come differenza per rappresentare il nostro passato. È soltanto l’impegno in questa sfida a garantirci un accesso tardivo al portale di una storia davvero universale e disalienata.

In suo lavoro recente, Achille Mbembe ha affrontato questo argomento attraverso una riflessione su ciò che può essere definito come la sua teologia politica ispiratrice. Mbembe ha raggruppato nuove forme di critica teologico-politica mettendo a fuoco il loro lato etico-giuridico, in modo da rispondere agli effetti devastanti di un’“incertezza radicale” prodotta non tanto dai “conflitti di civiltà” o dalle trasformazioni tecnologiche, ma dal costante riordinamento di un mondo in continua decolonizzazione:

“non abbiamo più risposte pronte a interrogativi fondamentali come i seguenti: Chi è il mio prossimo? Cosa fare con il mio nemico? Come trattare lo straniero o il prigioniero? Posso perdonare l’imperdonabile? Qual è il rapporto tra la verità, la giustizia e la libertà? Esiste qualcosa che possa essere considerata così preziosa come l’essere immune al sacrificio?”[39]

È difficile vedere in che modo la storia della razza (in quanto ontologia politica, estetica e techné), del razzismo e delle sue gerarchie razziali può essere considerata come una risposta a questo stato di crisi. Tuttavia, sono convinto che il pensiero di Fanon può aiutarci a risolvere questi dilemmi. Chiaramente, il suo approccio all’umano e, in particolare, la sua localizzazione finale del sé e dell’umanità nell’oltrepassamento dell’Europa (benché non della sua redenzione) rimangono suggestivi. Forse sarebbe meglio affermare che mettere a fuoco l’umano al di fuori delle configurazioni alienate e alienanti prodotte dal delirio manicheista e dallo schema corporeo-razziale può contribuire al re-incantamento proposto da Sylvia Wynter, così come allo sviluppo di ciò che può essere chiamato il fattore elusivo e riparatore del pensiero di Fanon.

Una proposta politica di questo tipo, che potrebbe essere messa subito da parte poiché considerata utopica, è stata l’obiettivo comune di molti degli intellettuali impegnati nella decolonizzazione e nella democrazia razziale. Ognuno di essi si è rivolto in questa direzione cercando modi diversi di fare rispettare la dignità e il riconoscimento di essere umani negati e disumanizzati dal discorso della razza. Tra questi intellettuali sfortunati la voce di Fanon è stata tra le più chiare e forti, proprio come conseguenza di ciò che irrita i più accaniti sostenitori dell’oramai incontestabile “politica dell’identità”. Fanon comincia il suo primo libro negando il carattere eterno di ogni verità, ovvero un loro presunto valore astorico. Per Fanon l’ordinamento razziale del mondo non avrebbe fatto altro che corrompere tutti i soggetti che vi fanno parte, alterando le loro soggettività e vite sociali attraverso l’illusione-distorsione alla sua base. Tutti gli attori spettrali che popolano il mondo “epidermizzato” perdono qualcosa di piuttosto prezioso, ovvero la loro umanità; si tratta di un’umanità delimitata dagli effetti delle gerarchie razziali, che non fanno che distruggere, in diversi e interconnessi modi, il benessere psichico sia degli esecutori sia delle vittime: dei colonizzatori e dei colonizzati, e anche o forse in modo particolare, dei torturatori e dei torturati. Tutte le parti in causa subiscono quindi gli effetti negativi. Tuttavia, il danno prodotto da un’alienazione coloniale comune si è sempre manifestato attraverso forme complementari, ovvero “relazionali”. La genealogia del pensiero razziale ci rivela inoltre che tale particolare estraniamento ha significato delle perdite insanabili al livello della comune umanità tra colonizzato e colonizzatore. La decadenza della vita della specie è stata provocata da un imperialismo sostenuto moralmente e intellettualmente dalla razzializzazione della storia e della natura. Nel momento in cui quel ordinamento razziale moderno non verrà più semplicemente compreso, ma bensì rovesciato si aprirà una via inedita verso la costituzione di una storia inattesa dell’umanità; una storia in cui le diverse culture non si rapporteranno più in senso antagonista, bensì attraverso una complementare correlazione. La mia speranza è che l’umanesimo riparatore[40]proposto da Fanon venga considerato meno banale alla luce delle più importanti questioni della nostra epoca. Il pensiero di Fanon torna a parlarci nuovamente nell’attuale contesto definito dall’emergenza globale; di un’emergenza fondata dalle dualità storiche del potere coloniale, ovvero da forme coloniali di governo che oggi ricompaiono sotto nuova veste alla base della securitocrazia postcoloniale e delle sue guerre globali.



[1] Pumla Gobodo-Madikizela, Alternatives to Revenge: Building a Vocabulary of Reconciliation Through Political Pardon, in Charles Villa-Vicencio e Eric Doxtader (a cura di), The Provocations of Amnesty. Memory, Justice and Impunity, New World Press, Trenton 2003 pp. 51-60.

[2] Ato Sekyi-Otu, Frantz Fanon’s Dialectic of Experience, Harvard University Press, Cambridge-Mass 1996.

[3] Nel mondo anglosassone, “theory” è sinonimo di teoria post-strutturalista [n.d.c].

[4] James D. Le Sueur, Uncivil War. Intellectuals and Identity Politics During the Decolonisation of Algeria, Pennsylvania University Press, Pennsylvania 2001.

[5] Il massacro di Thiaroye del 1944 (Senegal) si riferisce all’ammutinamento e al successivo assassinio di soldati appartenenti alle truppe dell’Africa Occidentale da parte dell’esercito francese [n.d.t.].

[6] Frantz Fanon, Scritti politici. Per la rivoluzione africana, vol. i, trad. it. di F. Del Lucchese, a cura di M. Mellino, DeriveApprodi, Roma 2006, pp. 144.

[7] “Allora lo schema corporale, attaccato da più parti, crollò cedendo il posto a uno schema parziale ed epidermico” (Feantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, trad. it. di M. Sears Marco Tropea, Milano 1996, p. 99).

[8] Frederick John Dealtry Lugard, The dual mandate in British Tropical Africa, W. Blackwood and Sons, London 1922.

[9] F. Fanon, Scritti politici, cit., p. 55.

[10] Richard Wright and Edwin Roskam, 12 Million Black Voices: A folk history of the Negro in The United States (1941), Lindsay Drummond, London 1947, p. 30.

[11] F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, cit., p. 202.

[12] Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cagnetti, Edizioni di Comunità, Torino 2000, p. 228.

[13] Niall Ferguson, We Must Understand Why Racist Belief Systems Persist, in “The Guardian”, 11 July, 2006. http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2006/jul/11/comment.race?INTCMP=SRCH

[14] Sindre Bangstad, Norway: terror and Islamophobia in the mirror, http://www.opendemocracy.net/sindre-bangstad/norway-terror-and-islamophobia-in-mirror

[15] Donna Haraway, When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008, p. 18.

[16] http://richarddawkins.net/discussions/624093-support-christian-missions-in-africa-no-but Accessed 12/5/11.

[17] Edward Said, Beginnings, Basic Books, New York 1975, p. 373.

[18] F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, cit., pp. 202.

[19] Vron Ware, Infowar and the politics of feminist curiosity, in “Cultural Studies”, 20, 6, 2006, pp. 526-551.

[20] Vedi Mattias Gardell sul significato del masscro di Anders Brevik: The roots of Breivik’s ideology: where does the romantic male warrior ideal come from today?, http://www.opendemocracy.net/mattias-gardell/roots-of-breiviks-ideology-where-does-romantic-male-warrior-ideal-come-from-today

[21] http://www.huffingtonpost.com/jared-cohen/digital-age-has-ushered-i_b_151698.html

[22] http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2010/06/03/AR201 0060304965_pf.html

[23] http://humanterrainsystem.army.mil/

[24] http://www.telegraph.co.uk/technology/mobile-phones/8002755/Afghanistan-shows-the-UK-how-mobile-banking-should-be-done.html; http://www.bloomberg.com/news/2011-04-13/afghan-police-now-paid-by-phone-to-cut-graft-in-anti-taliban-war.html

[25] http://www.wired.com/dangerroom/2007/08/fallujah-pics/

[26] David Kilcullen, Twenty-Eight Articles Fundamentals of Company-Level Counterinsurgency, May, 2006. http://www.au.af.mil/info-ops/iosphere/iosphere_summer06_kilcullen.pdf

[27] Penso qui al lavoro di Nikolas Rose, The Politics of Life Itself, Princeton University Press, Princeton 2007.

[28] Immanuel Kant, On The Different Races of Man, trans. K. Faul, in Emmanuel Eze (a cura di), Race and The Enlightenment, Blackwell, London 1997, pp. 38-48.

[29] Gareth Pierce, Dispatches From The Dark Side: On Torture and The Death of Justice, Verso, London 2010.

[30] http://www.guardian.co.uk/politics/2002/jun/30/uk.world; http://www.youtube.com/watch?v=ETMiHa8cdgg

[31] Ian Henderson with Philip Goodhart, Man Hunt In Kenya, Doubleday, New York 1958.

[32] Paul Gilroy, Between Camps, Penguin Books, London 2000, p. 301.

[33] Peter W. Singer, Robots at War: The New Battlefield, http://www.wilsonquarterly.com/printarticle.cfm?aid=1313

[34] Peter W. Singer, Wired For War: The Robotics Revolution and Conflict in The 21st Century, Penguin Books, London 2009.

[35] http://www.guardian.co.uk/world/2011/apr/17/terminators-drone-strikes-mod-ethics?INTCMP=SRCH. L’aereo di fabbricazione americana, General Atomics “Reaper” è l’unico nel suo tipo in possesso della Raf. Può portare quattro missili Hellfire, due bombe da 230kg l’una e dodici bombe guidate Paveway ii. Ha diciotto ore di autonomia di volo, coprendo una distanza di 3600 miglia, e può operare a 15.000 metri d’altezza. L’aereo è controllato dal personale della base Creech situata in Nevada via satellite datalink. All’inizio di quest’anno, David Cameron ha promesso di incrementare il numero di aerei Reaper della Raf presenti in Afghanistan, passando da quattro a nove, con un costo di £135m. Il Ministero della difesa inoltre sta finanziando lo sviluppo da parte di Bae Systems di aerei di lungo raggio senza pilota, denominati Taranis. Si tratta di un aereo pensato per volare a velocità da jet tra i continenti mentre viene controllato da qualunque parte del mondo attraverso il satellite di comunicazione. Richard Norton-Taylor and Rob Evans, Observer, Sunday 17 April 2011.

[36] http://www.mod.uk/NR/rdonlyres/F9335CB2-73FC-4761-A428 DB7DF4BEC02C/ 0/20110505JDN_211_UAS_v2U.pdf

[37] Il massacro di My Lai, conosciuto anche come massacro di Song My, fu un massacro di civili inermi che avvenne durante la Guerra del Vietnam, quando i soldati statunitensi agli ordini del tenente William Calley, uccisero 347 civili - principalmente vecchi, donne, bambini e neonati. Il massacro avvenne il 16 marzo 1968 a My Lai, una delle quattro frazioni raggruppate nei pressi del villaggio di Song My, nella provincia di Quang Ngai a circa 840 chilometri a nord di Saigon. I soldati si diedero anche alla tortura e allo stupro degli abitanti (n.d.t).

[38] Sven Lindqvist, Sei morto! Il secolo delle bombe, Ponte alle Grazie, Firenze 2005

[39] Achille Mbembe, Democracy as a Community of Life, in “Johannesburg Workshop in Theory and Criticism The Salon”, vol. 4, South Africa 2011.

[40] Pumla Gobodo-Madikezela, Reconcilliation: a call to reparative humanism, in Fanie Du Toit e Erik Doxtader (a cura di), In The Balance: South Africans Debate Reconciliation, Jacana Press, Aukland Park 2010.