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Presentazione – “Fanon postcoloniale”

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di MIGUEL MELLINO

Il presente volume raccoglie gli interventi del convegno internazionale “I dannati della terra cinquanta anni dopo” svoltosi a Napoli il 20-21 Maggio del 2011, organizzato congiuntamente dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli L’Orientale e dalla School of Business and Management del Queen Mary College (University of London). Si è trattato di un evento a cui hanno partecipato alcuni degli studiosi italiani e internazionali più noti dell’opera di Fanon.

Il 2011 infatti può essere considerato l’anno del ritorno definitivo di Fanon al centro del dibattito intellettuale internazionale. Basta fare un giro nella rete per accorgersi della quantità di iniziative – tra convegni, dibattiti più marcatamente politici e nuove pubblicazioni – dedicate ai cinquanta anni dell’uscita de I dannati della terra. Come interpretare dunque questo nuovo potente interesse per un testo considerato fino a non molto tempo fa come inevitabilmente sovradeterminato da una stagione politica e culturale oramai chiusa (le lotte per la decolonizzazione e il terzomondismo)?

Al di là dell’insaziabile voracità del marketing accademico, è chiaro che sia ne I dannati della terra sia nella stessa figura di Fanon vi è ancora un qualcosa di irrisolto e di urgente allo stesso tempo che continua a mobilitarci, a sollecitare il nostro pensiero. È questo resto perennemente in eccesso, questo supplemento di significazione, a garantire la produttività dell’archivio fanoniano, ovvero a spingerci costantemente a leggere il presente attraverso Fanon e, viceversa, a leggere Fanon attraverso il presente.

Tanto per fare qualche esempio: quanti di noi non hanno pensato a Fanon durante le insurrezioni nelle banlieues francesi del 2005 o in quelle londinesi dell’estate del 2012? O di fronte alle oramai consuete invettive contro veli e burqa da parte di molti governi europei, così come nel loro inneggiare, e ancora di più in tempi di profonda crisi economica come quelli attuali, contro il multiculturalismo, ma in realtà contro quel sottoproletariato meticcio che connota oramai in modo irreversibile i nostri spazi metropolitani. Come non pensare a I dannati della terra e al suo programma per la decolonizzazione dell’Africa quando si parla della situazione attuale di paesi come la Libia, Costa d’Avorio, Zimbabwe o Nigeria? Oppure di fronte a quelle rivolte che hanno sconvolto nel 2012 gli assetti politici del Maghreb, ovvero proprio di quella terra e di quel continente in cui Fanon aveva riposto le sue speranze rivoluzionarie.

Eppure, anche se lo spettro di Fanon continua ad aggirarsi dietro eventi come questi non è mai facile afferrare in modo nitido quel qualcosa di inesorabilmente attuale che emana dai suoi testi e che li lega così visceralmente a tanti dei fenomeni che abbiamo sotto gli occhi quotidianamente. È da qui che partiamo: come interpellare questo resto, o meglio cosa ritorna oggi nella memoria collettiva attraverso il nome di Fanon?

Fanon, dunque, torna a interpellarci. Il suo grido disperato, la sua indignazione, le sue scelte radicali di fronte al perdurare della violenza economica e culturale inflitta da secoli dal colonialismo, dal razzismo e dall’imperialismo su milioni di uomini e di donne continuano a metterci alla prova; ci sollecitano a passare ancora una volta attraverso i suoi testi non soltanto per cogliere qualcosa del mondo che abitiamo, ma anche per confrontarci proprio con quel resto inafferrabile che ci parla della loro incessante attualità.

Leggere I dannati della terra cinquanta anni dopo non sta quindi a suggerire un mero esercizio esegetico o filologico sul testo di Fanon. L’obiettivo del convegno non era comprendere “cosa ha detto veramente Fanon”, ma lavorare con Fanon ai fini di una comprensione politicamente più efficace del nostro presente. I saggi compresi nella raccolta propongono ovviamente diversi modi di leggere Fanon e di leggere I dannati della terra. Ma soprattutto ognuno di essi privilegia delle priorità, si propone come espressione di un determinato posizionamento – teorico e politico – di fronte alla realtà. Ed è bene che sia così. Forse è proprio questo uno degli insegnamenti fondamentali che si può trarre da Fanon: nessuna conoscenza è mai disinteressata, nessun sapere è mai politicamente imparziale. Ogni analisi culturale e politica della realtà, ogni enunciato, presuppone un posizionamento, una scelta precisa, uno schieramento. Fanon è stato piuttosto chiaro su questo punto: a nulla servono i discorsi astratti sull’uomo e sull’umanità – come quelli tipici della tradizione liberal-democratica occidentale o della fenomenologia esistenziale dei vari Sartre, Freud e Merleau-Ponty – se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso, un uomo amputato dalla sua umanità, ovvero un’intersoggettività barrata dalla violenza coloniale, dall’applicazione secolare di saperi, leggi, politiche ed economie razzializzate al governo degli uomini. Per questo, per Fanon conoscere equivaleva a discendere a quella “regione sterile e arida, a quella valle assolutamente spoglia, da dove può prendere avvio una vera a propria rinascita”[1].

E Fanon discese. Fanon decise di svelare la parzialità, la “colonialità”[2], di quei discorsi astratti della cultura umanistica del suo tempo (come aveva fatto Aimé Césaire nei Cahiers d’un retour au pays natale e soprattutto in Discorso sul colonialismo) concentrando la sua attenzione su una condizione umana concreta, sulla sua sofferenza, sul suo non-essere, narrandocela dall’interno: per Fanon scendere a “quella valle assolutamente spoglia” significava descrivere “l’esperienza vissuta dell’uomo nero”.

Per Fanon, come per altri suoi contemporanei come W.E.B Du Bois, C.L.R James e Richard Wright, in un mondo diviso dalla linea del colore, conoscere poteva significare innanzitutto squarciare il velo della razza. Ed è a questo obiettivo che Fanon dedicò Pelle nera maschere bianche. Ma Pelle nera, maschere bianche non fece che preparare una sua ulteriore e definitiva discesa, quella di Algeri, ovvero il suo futuro schierarsi incondizionato con quelli che chiamò qualche anno dopo I dannati della terra. Si può sostenere che tanto in Pelle nera, maschere bianche quanto ne I dannati della terra Fanon abbia posto la questione dell’umano nei suoi termini più radicali; ma sarebbe più giusto dire che è tra le pieghe di questi testi che la questione dell’umano emerge (in tutta la sua colonialità) per la prima volta[3]. Vorrei suggerire che forse ciò che ci resta di Fanon oggi è proprio questa sua radicale interrogazione sulla produzione, il monopolio e i confini dell’umano. Un’interrogazione però che egli stesso ha pienamente iscritto nel campo della lotta politica ed economica anziché dell’etica. Si tratta di un restoche attraversa tutti i saggi del volume; e ognuno a suo modo cerca di confrontarsi con l’urgenza e attualità di tale sfida.



[1] Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952), trad. it. a cura di M. Sears Marco Tropea, Milano 1994, p. 8.

[2] Riprendo il termine da Anibal Quijano. Vedi il suo Colonialidad del poder, eurocentrismo y America Latina, in Edgardo Lander (a cura di), La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas Latinoamericanas, Clacso, Buenos Aires 2003.

[3] Si può dire che con Fanon assistiamo a un “decentramento radicale” dei discorsi “moderni” sulla crisi dell’Europa, che avevano avuto in Nietzsche ed Husserl due dei suoi interpreti più noti. Anche per questo si può sostenere che è con Fanon che emerge davvero per la prima volta la questione dell’umano.