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Mandela guerrigliero e santo

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di GABRIELE PROGLIO

Molti, moltissimi gli articoli sulla morte di Mandela. Partiamo di qui. Dall’urgenza di scrivere e riscrivere, all’interno di una pratica diffusa e in un’affannosa quanto ossessiva operazione di traduzione e normalizzazione, un’esperienza tanto speciale. Effetto di questa stratificazione di senso, di risignificazioni che si accumulano nella memoria pubblica, ora dopo ora, giorno dopo giorno, è di celebrare il mito, partecipando a un banchetto del cordoglio che si trasforma, per alcuni, in una ricca occasione per spartirsi la sua eredità, almeno dal punto di vista dell’immagine e della sua carica simbolica. In questo quadro, prendere la parola significa agire su una materia viva, la memoria, ma anche ricostruire un mondo, che non è solo passato, ma in un certo senso ancora vivo per i rimandi al presente o sotto altre sembianze nelle nuove forme di segregazione razziale e territoriale, attraverso processi di visibilità ed effetti di invisibilizzazione. La prima a scomparire, ad esempio, è la carica conflittuale della sua visione del mondo.

Questo appiattimento è funzionale a moltissime logiche che attraversano il presente – sulle quali non mi è dato riferire in questo contesto – e non si risolve nel semplice ‘portare a sé’, ma prevede, talvolta, grossolani errori che “cosificano” l’individuo e la sua storia, o si manifesta con semplificazioni che mirano a rendere compatibile Mandela rispetto a un orizzonte ideologico talvolta persino liberista. Così Madiba, espunto dal suo stesso passato, e calato in narrazioni posticce, diventa, tutto d’un tratto, un anello imprescindibile per giustificare il presente: è il punto di partenza per metamorfosi che, unicamente seguendo una linea del colore, ma dimenticando gli altri parametri di un approccio intersezionale (classe, genere, bianchezza e nerezza, status civile, ecc.), portano a Barack Obama o, percorrendo il sentiero dell’epica hollywoodiana giungono a Morgan Freeman di Invictus.

Il mio contributo proverà invece ad andare in direzione diversa. Anzi, userei il plurale: direi in più direzioni, proponendo, qui a seguire, alcuni nodi in cui emergono le criticità che furono al centro delle riflessioni e delle pratiche di Mandela, partendo, in primis, proprio dal rapporto tra processo di decolonizzazione e fallimento dello stato postcoloniale.

Le periodizzazioni sulla decolonizzazione inquadrano in modi differenti l’esperienza del Sudafrica e di Mandela. A ben vedere, molte di esse sorgono in seno a un corredo disciplinare che impone precisi statuti epistemologici nella lettura del mondo, che afferma griglie classificatorie e modelli organizzativi del sapere – o per lo meno la loro pratica e forma mentis.

Ne consegue una geografia che parte, ancora una volta, dall'Europa per ritornarvi riducendo la complessità, nelle sue numerose forme, a linee di continuità/discontinuità, a narrazioni “lisce”. Questo confine, che va inteso come processo in fieri, genera molteplici espressioni egemoniche e, di conseguenza, da esse si articolano più genealogie di potere. Ad esempio, le trasformazioni del continente africano (e non solo) sono state spesso definite attraverso le più svariate lenti: quelle delle aree di ‘competenza’ di ciascun colonialismo, della tipologia di dominio, ma anche con scansioni temporali che hanno ricadute territoriali, segmentando il territorio africano oltre i confini nazionali. Si pensi, ad esempio, al 1960, definito dai molti manuali come l’anno dell’Africa nera, quasi come se tutto fosse partito e terminato all’interno di un’area territoriale-simbolica, senza ricadute di alcun genere.

Bene, Mandela e più in generale il suo inquadramento nel processo di decolonizzazione, manda in frantumi questo schema. Perché? Da subito per una questione meramente di contestualizzazione temporale: ben prima del suo ingresso in politica, il Sudafrica diventa spazio accessorio delle forme imperialistiche europee, delle rispettive tensioni e forme di dominio – si pensi all’avanzata di Napoleone e alla fine dell’Olanda che stimolò le velleità espansionistiche dell’Inghilterra, portando all’occupazione del Sud Africa, al successivo conflitto anglo-boero.

Dunque, la figura di Mandela si innesta in un quadro di più ampia durata, ma anche in una prospettiva interpretativa che va letta oltre i confini fisici del paese e fuori dalle sole cesure nazionali e africane. L’intreccio di relazioni, anche solo concentrandoci su quello che è stato chiamato “viaggio panafricano”, è fittissimo: incontra a Dar es Salaam Julius Nyerere, i militanti di gruppi a Cartoom, Lagos e Addis Abeba – dove pronunciò il suo famoso discorso per il Pafmecsa, il Pan-African Freedom Movement of East, Central and South Africa. E poi vanno ricordate le discussioni con Simon Kapwepwe e Kenneth Kaunda sul rapporto della liberazione con il comunismo bianco e la gelida accoglienza riservatagli dai militari egiziani, dopo i commenti critici su Nasser apparsi su New Age, giornale di Cape Town. Il 27 febbraio si reca in Tunisia dal presidente Bourghiba, da cui ottiene promesse per aiuti alla guerriglia. Mandela si sposta quindi in Marocco, dove visita il quartiergenerale dell’FLN a Oujda, conoscendo alti dirigenti del FLN, tra cui Houari Boumedienne, Chawki Mostefai. Dopo Accra, e il mancato incontro con il presidente – per un alterco nato all’interno del PAC – Mandela visita la Liberia e il suo presidente, William Tubman, che da poco aveva chiuso ogni dialogo con Washington.

Ora, queste poche righe, restituiscono un quadro di mobilitazione dei paesi e dei movimenti politici in Africa in cui la figura di Mandela è centrale. Ma spostando lo sguardo fuori dal continente si scoprono altrettanti collegamenti: si pensi all’Anti-Apartheid Movement, che portò fin nel cuore dell’Europa, in UK, la protesta contro il sistema sudafricano; a Cuba che finanziò il CNA; ma anche agli occhi di Malcolm X, e poi alle Pantere Nere, che vide nell’Umkhonto we Sizwe (Lancia della Nazione), il movimento armato dell'ANC, una conferma dell'urgenza di imprimere una svolta rivoluzionaria. Parimenti, Mandela si formò su testi marxisti, su Mao Tze Tung, sappiamo conobbe l’esperienza dei comunisti nelle Filippine e l’evolversi della rivoluzione cubana, così come la lotta palestinese contro il sionismo; declinò il “Quit India!” nella prospettiva pragmatica di Nehru più che in quella utopica di Gandhi.

Senza dilungarci possiamo tentare di giungere al punto spinoso del ruolo di Mandela nel contesto delle lotte di liberazione e nel progetto di un nuovo Sudafrica. Va precisato che le due questioni vanno separate perché diverse sono le ricadute in termini di progetti politici. Nel primo caso, infatti, Mandela ebbe un indubbio ruolo di prim’ordine, alimentando e aggiungerei accelerando talvolta quei processi di costruzione di soggettività che criticavano l’ordine mondiale euro-americano. E proprio in tale prospettiva va la lettura delle sue riflessioni, così come delle sue pratiche: la problematizzazione di un confine che per secoli fu considerato inviolabile, sacro e superiore al punto da essere il basamento per il concetto stesso di civiltà. Sul ciglio di tale spaccatura si sono articolate modalità diverse di dominio, in base al genere, allo status, ai colori e alle ‘razze’; ma anche per quanto concerne le forme di alterità e la loro classificazione in genealogie di potere. La distanza nord-sud del mondo, primo-terzo mondo, fu messa a soqquadro da un protagonismo degli intellettuali prima, e delle masse poi, nel disarticolare la forme di centralità di potere.

D’altro canto, la maggior parte dei processi di decolonizzazione portarono a governi dittatoriali, quando non sanguinari, o in cui l'eco delle costruzioni culturali coloniali – si pensi alle divisioni territoriali in base a criteri di “razza”, etnia, o clan – riprodusse nuove forme di dominio. Guha analizza bene questo processo, e propone un programma storiografico nuovo che posiziona la ricerca nel conflitto, ossia là dove, come si diceva sopra, tanto da un punto di vista simbolico, rappresentativo quanto pratico si mettono in crisi i centri nevralgici del potere. Per Guha, perciò, sono le lotte che fanno la storia: le élite borghesi hanno fallito la costruzione della nazione, dei suoi apparati istituzionali, della sua narrazione storica, della sua cultura come emancipazione dei poveri. Spostando l’attenzione dall’India, il terreno di prova del modello di Guha, al Sudafrica non possiamo che constatare quanto l’ANC, passato in poco tempo dalla lotta alla costruzione di un governo, si sia tramutata nella piattaforma su cui hanno converso molteplici interessi. Quelli di alcune fazioni zulu, del sindacalismo riformista nei primi anni Novanta, e poi col passare del tempo, e in particolare dal 2001, palesando una spiccata velleità a recepire ogni sollecitazione liberista. Non sono mancati gli scandali, con l’incriminazione di alcuni personaggi di spicco – si pensi allo stesso Jacob Zuma, al tempo della presidenza Mbeki. Anche la questione della discriminazione razziale non pare essere risolta e, a più riprese, si sono proposti episodi di violenza razzista.

Se ragioniamo in termini di spazi, quelli del conflitto, e della liberazione, aperti da Mandela durante la militanza e poi nel periodo della prigionia, si oppongono a quelli del mito, celebrato ed osannato per ogni causa umanitaria, come simbolo a cui, in modi diversi, le sinistre europee e mondiali neoliberiste hanno guardato con simpatia. I primi non sono solamente quelli del ‘nazionalismo nero’, come è stato definito, ma anche, fuori dal continente, di un’opposizione radicale e intransigente nei confronti delle guerre imperiali americane, dei diritti delle minoranze nere in parti diverse del mondo, di un comune senso di appartenenza, di africanità. I secondi, invece, si appropriano di uno degli ultimi miti del Novecento per riscrivere una storia che ha sempre un lieto fine. Ecco, forse proprio questo cambio di sguardo, di immaginare Mandela nelle lotte in Brasile e in Sud America, nelle periferie europee, al fianco dei migranti e contro la segregazione territoriale in Palestina, forse questo cambio di prospettiva, si diceva, evita la santificazione di Mandela, e permette anche di comprendere la valenza delle sue posizioni, e dunque del ruolo rivoluzionario che ebbe dentro e fuori dall’Africa.