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La pace della democrazia e i suoi scontenti

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di EDUARDO BAKER, BRUNO CAVA e GIUSEPPE COCCO

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La notte del 24 luglio di quest’anno la polizia militare di Stato ha invaso il complesso della favela di Maré con il suo apparato di guerra: automobili corazzate, elicotteri e pistole. La polizia ha occupato il territorio abitato da circa 150 mila persone e si è resa protagonista di una notte di terrore. Oltre ad un assedio del tipo “nessuno esce e nessuno entra”, le linee elettriche e telefoniche sono state interrotte, centinaia di case sono state violate senza mandato e, a seconda dell’interlocutore, tra i 9 ed i 14 residenti sono stati sottoposti ad esecuzione sommaria da parte della polizia. Semplicemente perché sparare è “troppo poco”, la truppa d’élite ha scelto di decapitare alcune delle vittime. Questa è la comune realtà nelle favelas di Rio de Janeiro, una città dove i numeri ufficiali ci indicano circa 500 persone uccise ogni anno dalle forze dello Stato, la cui stragrande maggioranza sono persone giovani, nere e povere, ed un numero altrettanto grande di persone mancanti all’appello.

La differenza di questo massacro stava nel suo contesto. Giorni dopo il corteo da un milione di persone nel centro della città, il “Massacro di San Bartolomeo” del Maré si palesa come rappresaglia ad una protesta di “favelados” (persone provenienti dalle favelas) che si svolgeva nel viale principale, proprio a fianco della favela in questione. Alla fine della protesta del 24, l’intervento della polizia, giustificato dal pretesto di alcuni furti, ha portato alla morte di un residente e di un agente della BOPE (il battaglione speciale di polizia). Ciò ha innescato un’azione tipica di vendetta da parte della polizia, per cui a ciascun agente morto deve esser fatto corrispondere un numero molto più grande di residenti uccisi. Il “messaggio” è così stato dato: i “favelados” non devono unirsi alla rivolta, pena l’uccisione.

Mentre Maré veniva assaltato da un così violento attacco, che può solo esser categorizzato come sterminio, la stampa mainstream della città si limitava a parlare di “un altro fronteggiamento tra agenti di polizia e trafficanti di droga”. Il focus consisteva nel sottolineare la morte dell’agente della polizia, implicando che l’azione era un’attesa e legittima risposta al narco traffico. Il governo ha poi proseguito sulla stessa linea narrativa, accusando il “traffico di droga”. Eppure, quanto avrebbe potuto finire ancora una volta seppellito dalle notizie, ha invece avuto un altro esito. Il giorno seguente, 3 mila manifestanti sono scesi dalle colline delle favelas di Rocinha e Vidigal e si sono diretti verso la casa del governatore nel lussuoso quartiere di Leblon, chiedendo migliori condizioni di vita nelle favelas, reclamando servizi sanitari, istruzione, salute e il ritiro della polizia militare.

Il 4 luglio, 5 mila persone hanno avuto il coraggio di protestare ancora a Maré, nello stesso viale delle proteste del 24, unendo movimenti sociali, ONG e collettivi dietro lo slogan: “Mai più uno Stato assassino!”. Là, sempre in chiave di criminalizzazione, una nuova serie di accuse è stata lanciata contro la gioventù nera. Il 14 luglio un residente della favela di Maré è stato preso dalla polizia e, subito dopo esser “convenientemente sparito”, è partita la campagna “Dov’è Amarildo?”. La campagna ha avuto ripercussioni sia nazionali che internazionali e Amarildo è diventato il simbolo di una resistenza la cui prima sfida era dare visibilità alle migliaia di ignoti quotidianamente uccisi e scomparsi nelle grandi città brasiliane. Grazie alla campagna abbiamo potuto scoprire chi fosse Amarildo, un lavoratore edile di 47 anni, padre di 6 figli, che è stato visto per l’ultima volta tra le mani della polizia per “ulteriori accertamenti”. Il caso è particolarmente simbolico, tenendo in considerazione il fatto che gli agenti che presero Amarildo facevano parte dell’Unità di Polizia Pacificatrice (UPP), un quartier generale militare interno alle favelas il cui fine è quello di implementare politiche di “pacificazione” territoriali. La pressione pubblica è stata un fattore determinante per garantire l’efficacia dell’inchiesta, la quale ha rivelato che Amarildo è stato sottoposto con forza ad una sessione di tortura, con tanto di shock elettrico e soffocamenti, fino ad essere ucciso, e il suo corpo fatto poi “scomparire”. Senza alcuna ragione, il capo della polizia che ha condotto l’inchiesta in modo equo è stato “premiato” dal governo e trasferito ad un’altra sede di polizia.

Sin dall’inizio del ciclo di proteste brasiliano, a luglio, parte della sinistra dentro il governo federale, specialmente dentro il Partito dei Lavoratori (PT), ha accusato le stesse proteste di esser composte principalmente da persone bianche di classe media, con un’agenda condivisibile, la cosiddetta “coxinhas” (uno snack brasiliano). Eppure, da quanto si vede, oltre al rafforzamento della lotta nelle favelas, c’è un numero crescente di giovani neri che partecipano alle proteste. Queste persone vengono dalle favelas, dai guetos, e da una composizione sociale di lavoratori precari, generatasi proprio a causa dell’impropriamente chiamata “nuova classe media”, a sua volta formatasi nel corso degli ultimi dieci anni di politiche sociali di massa dei governi Lula (2003-10) e Dilma (2011- ). Viene anche così spiegato il divieto di indossare maschere nelle proteste, che l’11 settembre a Rio era persino stato istituito da una legge approvata dal potere legislativo statale, la quale permetteva anche l’uso della forza in caso di “fondato sospetto”. Questo è un concetto così elastico da lasciare ampi margini alla decisione della polizia – ecco, forse una parola migliore sarebbe arbitrarietà. Giustificato per consentire l’identificazione dei “vandali”, che suppostamene si nascondevano tra i manifestanti, di fatto cerca di impedire la mescolanza tra i gruppi, la quale risulterebbe molto più temibile per i politici in carica, ovvero un’alleanza tra neri e favelados (gente proveniente dalle favelas) e movimenti tradizionali e collettivi di sinistra. La maschera crea la possibilità di essere insieme. Il codice penale brasiliano, dopotutto, riconosce questi soggetti quali vittime di razzismo istituzionale. La vera distinzione non è mai stata intesa tra “prigionieri politici” e “prigionieri regolari”, ma tra bianchi e neri. Mentre i diritti dei bianchi tendono ad essere relativamente riconosciuti, i neri sono trattati in un modo molto più crudele, oltraggiati dal momento dell’arresto fino alla detenzione in questura, dove sono normalmente messi faccia contro il muro ed umiliati come schiavi.

La stampa e il governo continuano ad accusare di violenza le proteste. Per un pugno di persone mascherate sono state spogliate delle proprie motivazioni. Persone che, irrispettose delle regole civili, varcano la linea delle barbarie per commettere i cosiddetti “atti vandalici”, ovvero rompere vetrine, scrivere sui muri, bruciare autobus vuoti e difendersi dalla polizia. Questa narrazione, ancora, serve da giustificazione per la brutale azione dello Stato: ogni manifestante in strada è visto come un potenziale “vandalo”, allo stesso modo in cui, in una favela, ogni giovane persona nera è vista come un potenziale “spacciatore”. Cambia solo l’argomentazione. In realtà, non c'è mai stato un “scontro frontale” tra manifestanti e polizia. Quello che succede sono le proteste schiacciate da uno stato super-armato e super-violento, che non esita a picchiare, sparare gas lacrimogeni, umiliare, torturare ed arrestare brutalmente chiunque si trovi sulla sua via. In una realtà di quotidiana violenza, caratterizzata da una produzione seriale di persone come Amarildo, e che comprende anche le politiche cosiddette di pacificazione, suona terribilmente ipocrita l’attribuzione del problema della violenza urbana al “vandalismo” nelle proteste. Per molte persone, soprattutto i neri e i poveri, le proteste hanno al contrario rappresentato un’occasione per combattere per la pace. La paura, per loro, c’è già stata, e la violenza – le esecuzioni sommarie, la “sparizione conveniente” e il terrore armato – esiste in quanto normalità nelle loro vite. La lotta, che viene sempre ridotta a “vandalismo” dal potere punitivo, è per molti l’occasione di costruire una pace non pacificata.

É ironico come un paese sia condotto a un altro livello di democrazia non dalla sinistra istituzionale e governativa, ma dai riot, che sanno unire contro la paura, e da molte lotte metropolitane. Il governo, guidato da un ex militante nella lotta armata, invece di raccogliere la scommessa di un’agenda politica scritta sulle barricate, preferisce schierarsi dal lato opposto, quello di una dittatura mascherata dalla crescita economica e da una serie di mega-eventi oltre ogni ottimismo, quali la Coppa del Mondo e le Olimpiadi. Messo poi all’angolo dalla consapevolezza che le proteste sono andate a testare il proprio sistema di alleanze e governabilità, il governo Dilma ha scelto la via della repressione. Hanno acriticamente sostenuto le azioni repressive dei governi di ciascuno stato. Per esempio, uno tra molti, gli arresti indiscriminati di circa 200 manifestanti che sedevano pacificamente sulla scalinata del parlamento di Rio alla fine della protesta del 15 ottobre, quando 50.000 persone scesero in strada per manifestare. Sono stati accusati, per la prima volta nella storia del Brasile, secondo una nuova legge approvata da Dilma a settembre, di “organizzazione criminale” e 64 di loro sono stati incarcerati in una prigione a Bangu, in condizioni medioevali. Tre altri manifestanti erano già stati arrestati a settembre con il reato di “banda armata”, solo perché erano gli amministratori della pagina Facebook “Black Bloc RJ”. La maggior parte dei detenuti è stata liberata grazie ad un avvocato popolare o ad un difensore pubblico. Pur così, due persone rimangono in custodia. Un uomo senzatetto, arrestato a giugno, e un militante del movimento dei senzatetto, arrestato a ottobre. Il primo è stato accusato di detenzione di esplosivi: una scopa e una bottiglia di cloro, che usava per pulire il suo giaciglio – tra le strade del centro di Rio. Il secondo è un giovane nero che vive in un’occupazione urbana e faceva parte dei movimenti a Rio. É accusato di far parte di un'associazione armata criminale.

Nel frattempo, il 25 a San Paolo, un giovane uomo è stato arrestato e accusato di “omicidio di primo grado” per aver attaccato il Colonnello della Polizia Militare (PM), il quale, lui solo e in divisa, era entrato in un corteo in seguito a 92 arresti. In un’intervista si è lamentato: “ecco, è arrivato anche il mio turno”. La domenica, il 27, sarebbe invece stato il turno di Douglas Rodrigues, un ragazzo di 17 anni proveniente dalla periferia di San Paolo, le cui ultime parole sono state: “perché mi ha sparato, agente?”. Il riot nato dopo l’omicidio, con l’incendio di autobus e camion in una strada vicina, è stato brutalmente represso, con ulteriori 90 arresti effettuati dalla Polizia Militare. L’agente che ha sparato al giovane disarmato, diversamente dal manifestante che ha schiaffeggiato il Colonnello, è accusato di “omicidio di secondo grado”, senza l'intenzione di uccidere.

Oltre a tutto ciò, il 25 novembre, Gleise Nana, una giovane attivista che stava denunciando le minacce ricevute online da un agente di polizia, è morta in ospedale dopo il coma, con gran parte del corpo bruciato, in seguito al misterioso incendio incontrollato di casa sua, il 19 ottobre.

Il Ministro della Giustizia del governo Dilma, infine, ha annunciato per il 31 ottobre, con il pretesto della “lotta al vandalismo”, la federalizzazione della repressione delle proteste nelle due principali città, Rio e San Paolo, schierando sia la Polizia Federale sia il Sistema di Intelligence. Il PT e il suo governo, incarnato dal Ministero della Giustizia trasformatosi in Ministero di Polizia, stanno buttando via la propria storia di lotte, persino quelle contro la dittatura. L’unica porta che stanno aprendo al movimento… è quella della prigione. Dilma e Cardozo sono unicamente preoccupati dell’ordine di questo potere. Dunque, a Rio, 5 mesi di mobilitazioni democratiche quotidiane mostrano una cosa: quando il potere lo vuole, la Polizia Militare – nonostante l’usuale violenza e gli episodi in cui agenti isolati hanno utilizzato armi da fuoco – non ha ucciso nessuno. Questo mostra al mondo due cose: la prima è che l’esecuzione di persone giovani, povere e nere non è un evento né isolato né casuale, ma è una chiara politica sostenuta dello Stato, una politica razionale con scopi ed obiettivi precisi. Il movimento da giugno ad ottobre è stato (ed è ancora) una potente invenzione – perché radicalmente democratico – di pace. Una pace democratica, non una “pacificazione” contro i senzala (i quartieri degli schiavi) per preservare la schiavitù sotto forme differenti, ma pace da intendere come liberazione dei poveri.

 

* Traduzione di Ivan Bonnin (@ivnbkn).