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Solitudini dell’intelletto generale

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di GIGI ROGGERO

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“Fra catastrofe e ricostruzione”: ecco dove si situa Fabbriche del soggetto, l’“Archivio 1981-1986” di Toni Negri che ombre corte ha il merito di rendere disponibile in una nuova edizione (€ 20, pp. 234). Nel 1986, anno della pubblicazione, la catastrofe assume le sembianze dell’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, immagine tragica dell’unificazione del mercato mondiale capitalistico. Ma la sua radice sta nella “sconfitta” dello straordinario ciclo di lotte dell’operaio sociale e multinazionale del decennio precedente. Qui inizia la controrivoluzione neoliberale.

Virtualità nella sussunzione reale

Il libro prende atto in modo deciso dell’avvenuto passaggio alla sussunzione reale, anticipata da Marx nel Capitolo VI inedito. In questo quadro Negri da un lato ripensa la critica del diritto, coestensivo della sussunzione reale; dall’altro, definisce le due caratteristiche principali della nuova “essenza collettiva”: virtualità, cioè rapporto storicamente determinato tra tendenze possibili e pratica della decisione, e irreversibilità, in quanto mutamento della logica dell’esistente, alla luce della quale vanno riorganizzati gli elementi del quadro. Nel passaggio alla sussunzione reale vi è una sorta di “accumulazione originaria” di soggettività, per cui all’estorsione del plusvalore corrisponde una trasformazione della forza lavoro. Si crea insomma una nuova natura. Anzi, natura e storia diventano indistinguibili. In questo senso, scrive Negri, “ci troviamo a poterci dire giusnaturalisti”.

In Fabbriche del soggetto viene anticipata la “vita messa al lavoro”, laddove l’astrazione diviene sostanza del soggetto e il comando unico elemento del potere capitalistico. L’antagonismo si configura allora come “alternativa dell’essere e del non essere”: da qui una ripresa, in termini materialisti e spinoziani, dell’immediata valenza etica del rifiuto. Il rompicapo di questa antinomia può essere risolto solo nella pratica, dentro la modificazione del paradigma. Ritorna il problema: come si produce una nuova natura, dentro e contro quella storicamente determinata? Proprio perché “non esiste processo senza soggetto”, le “fabbriche” che lo producono non sono affatto territori neutri, di cui semplicemente basti riappropriarsi per “ricostruire”. Non confondiamo il “comunismo del capitale” con il movimento reale che distrugge lo stato di cose presente. La tendenza è sempre un rapporto di tensioni antagoniste e rotture: non ci si può affidare ad essa, dentro la “virtualità” bisogna organizzarsi per costruire nuovi divenire. Ovvero curvare e distruggere i divenire del capitale, formidabile macchina di produzione della soggettività.

La solitudine dell’intelletto individuale

Il rapporto tra composizione tecnica e politica di classe non si può più dare nei termini elaborati dell’operaismo, scriveva Negri a metà degli anni ’80. Limitarsi oggi a ripeterlo non aiuta granché l’innovazione teorica, né è segno di una discontinuità costituente; il problema è provare a individuare i nuovi termini o, eventualmente, elaborare altri arnesi concettuali. A meno che non ci si accontenti di constatare l’eterogeneità del lavoro vivo contemporaneo, preferendo la descrizione empirica alla scommessa politica, o peggio ancora naturalizzando quell’eterogeneità e rinunciando alla “virtualità” di una composizione comune. Dal punto di vista della lotta di classe, comune è infatti il contrario di omogeneità.

Ecco la forma del rompicapo in cui siamo da tempo immersi. Se la soluzione è solo nella pratica, una teoria rivoluzionaria non può baloccarsi nel complicare continuamente le cose: possedere la complessità del reale serve ad azzardare delle semplificazioni. Questa é la differenza tra lo scrivere per gli intellettuali e lo scrivere per i militanti. Negri ha perlopiù cercato di fare la seconda cosa, assumendone anche i rischi teorici. E tuttavia di fronte ai blocchi e alle impasse, teoriche e politiche, è ricorrente la tentazione di ripiegare sull’incantesimo del metodo.

“Non so spiegarmi con me stesso”, scriveva l’autore: sul bordo di un possibile salto ci si può infatti spiegare solo dentro un processo collettivo, perché collettivi sono i salti in avanti. Altrimenti si salta nel vuoto, finendo per distruggere faticosi accumuli organizzativi e di soggettività. E la ricostruzione precipita in catastrofe, o in farsa. Attenzione allora a non trasformare l’“elogio dell’assenza di memoria” in cancellazione della conoscenza, innanzitutto dei nostri errori. L’assenza di memoria va conquistata attraverso la produzione di genealogie partigiane, pena la loro trasfigurazione in vuote reliquie o pericolose rimozioni. Ed è solo in questa costituzione materiale, “dall’altezza dell’esperienza fin qui fatta”, che maturano i bisogni di discontinuità.

Soprattutto in tempi duri, l’unico intelletto di cui dobbiamo fidarci è quello generale. Bastassero il genio individuale e le belle idee, sarebbe stato molto più semplice spedire “Lenin a New York” e prima ancora farlo arrivare in Inghilterra. Ma fuori dal comune – come Negri ci ha insegnato dal punto di vista teorico – vi è unicamente la profonda solitudine dell’individuo e dei piccoli gruppi, di attivisti o di intellettuali. Solo in una ricerca militante collettiva, immanente alla talora inquietante materialità della composizione di classe, la storia si riapre e possiamo conquistare, spinoziamente, l’eternità. O, più modestamente, con l’Internazionale di Fortini: “qui l’avvenire è già presente – chi ha compagni non morirà”.

 

* Pubblicato su “il manifesto”, 7 dicembre 2013.