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La rivolta contro l’inclusione

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Intervista a BRUNO CAVA - di COMMONWARE

→ Português

Qual è la genealogia e quali sono le forme di sviluppo del movimento in Brasile?

Dobbiamo cominciare da due punti importanti. Il primo riguarda il fattore globale: perdiamo qualcosa di decisivo se non guardiamo al contesto in cui viviamo. Ci sono state lotte in Turchia e in Egitto, c’è un intero ciclo di lotte che inizia nel 2001: è impossibile non vedere alcune caratteristiche comuni. Per esempio, prima delle rivoluzioni arabe c’erano dittature, un forte consenso per una governance top-down, e nel giro di due o tre settimane sono state distrutte dai movimenti, l’intera percezione della politica è cambiata. In Egitto i social network hanno lavorato insieme ai movimenti dal basso o sindacali. In Brasile si poteva vedere lo stesso: non una dittatura ovviamente, ma un forte consenso rispetto alla governance. Era qualcosa di indiscutibile e improvvisamente è stato messo in discussione. Anche prima del 15-M c’era un consenso rispetto al governo finanziario dell’Europa, con il potere delle grandi banche, dei gruppi di investimento, degli Stati-nazione, anche l’Unione Europea era subalterna a quella logica. Poi improvvisamente l’intera logica della politica in questi paesi è stata messa in discussione. Negli Stati Uniti c’è stato il movimento Occupy, ma prima il debole dibattito era tra due partiti e non c’era nessun conflitto, inteso nel senso di una messa in discussione del capitalismo. Il movimento Occupy ha invece posto il capitalismo al centro del dibattito, ovvero ciò che era completamente assente in quanto presupposto nella politica dei repubblicani e dei democratici.

Dunque, nelle rivoluzioni arabe, nel 15-M e in Occupy le persone sono scese in piazza, hanno occupato, si sono incontrate, hanno creato nuove collettività e nuovi discorsi, hanno messo radicalmente in discussione le fondamenta della governance, delle dittature in Nord Africa e della dittatura finanziaria in Europa, hanno posto al centro il problema della produzione di soggettività. Penso che in Brasile abbiamo vissuto qualcosa di simile. Le persone non sono solo andate nelle piazze, determinando un esodo di massa dai partiti, dai sindacati e da tutte le istituzioni della rappresentanza, ma hanno anche messo in discussione le fondamenta della società capitalistica. Credo che questo fattore sia davvero importante. In qualche modo, il movimento in Brasile fa parte dello stesso ciclo di lotte.

Ovviamente, e questo è il secondo punto, in Brasile ci sono molte specificità che non possono essere dimenticate, perché noi non stiamo vivendo una crisi o una recessione, non abbiamo una fase di declassamento del ceto medio, non c’è un governo che sta applicando misure di austerity. É più o meno l’opposto: viviamo in tempi di stabile crescita economica fin dall’inizio del governo Lula, dal 2002 al 2010, e poi con il governo Dilma. Si tratta infatti dello stesso partito, Dilma era il principale ministro di Lula e ha continuato il suo governo. Viviamo inoltre un periodo di inclusione sociale: in una decina di anni abbiamo avuto centinaia di migliaia di persone che hanno raggiunto livelli di reddito e consumo dignitosi, qualcosa di mai avvenuto prima in Brasile. Nel paese c’è sempre stata una ricca elite bianca, un piccolo ceto medio bianco e un’ampia base costituita da poveri senza possibilità di costruirsi un futuro, senza la possibilità di studiare o di lavorare se non in condizioni sotterranee, senza reddito e senza poter consumare alcuna merce. In una decina di anni c’è stata una forte distribuzione della ricchezza e più del 50% della popolazione brasiliana ha ora un futuro, la prospettiva di costruirselo. In termini di soggettività abbiamo vissuto una trasformazione sociale drastica e radicale. I poveri sono entrati in luoghi in cui non potevano andare, come l’università; nel 2003 solo l’8% della popolazione aveva una laurea, adesso è il doppio. Lo si vede anche nei supermercati, nel viaggiare, nel turismo, nell’accesso a merci e servizi che erano impensabili dieci anni fa.

Quindi, non abbiamo declassamento, è abbastanza l’opposto. Abbiamo invece una nuova composizione sociale che è nata dalla crescita economica. Non si può allora dire che le rivolte in Brasile siano contro l’esclusione, perché quello che stiamo vivendo è un’inclusione. L’insoddisfazione che si vive da noi deve essere collegata proprio a questo tipo di inclusione, in un contesto globale di lotte e insurrezioni. Ci sono varie ipotesi, tanti stanno riflettendo su queste rivolte, come per esempio il sociologo Jessé de Souza con il suo libro I lottatori del Brasile: è una ricerca empirica in cui l’autore tenta di descrivere i drammi, le paura e la sofferenza di questa nuova composizione sociale che prova a vincere. Lì si può vedere come sia difficile ottenere il successo in questa nuova società brasiliana, perché non è una classica società del welfare, come quelle europee del trentennio glorioso: è una società ultracompetitiva, precaria, flessibile, improntata al workfare. Per vincere devi avere qualsiasi tipo di qualifica, devi essere preparato emotivamente, intellettualmente e culturalmente. Una tale montagna di aspettative e obblighi per vincere in questa società impone una grande pressione sulla soggettività, perché il successo diventa accessibile. I miei nonni non vi potevano accedere, così come i poveri e i neri nelle favelas; adesso si può vincere, ma ciò significa che anche il fallimento diventa continuamente presente. Il fallimento è un controdispositivo di produzione di soggettività. Da questo punto di vista è importante il libro di Maurizio Lazzarato La fabbrica dell'uomo indebitato: non riguarda solo la crisi nel Nord, ma innanzitutto nel Sud. Perché il debito nel Sud non è solo quello finanziario, è un debito soggettivo per vincere, per essere persone di successo, per andare avanti e superare gli ostacoli. In questa crociata per il successo, per arricchirti e presentarti come ceto medio, cerchi ogni aiuto disponibile. Si spiega così anche la questione della nuova chiesa pentecostale, perché è associata al capitalismo contemporaneo e al suo modello di inclusione, in cui la chiesa ti può essere di aiuto.

Dunque, questa è la situazione in Brasile: c’è una nuova composizione sociale, c’è una pressione soggettiva, allo stesso tempo non ci sono buoni sistemi di trasporto, sanitari, formativi (specialmente nella scuola primaria). I bus e i treni sono luoghi di sofferenza, manca l’aria, sono sempre sovraffollati ed estremamente lenti. In questa costruzione antropologica della soggettività e del workfare nel nuovo Brasile non sembrava esserci troppa riprovazione del sistema e del modo di governare le città: ci si incolpa invece per non avere abbastanza successo da conquistarsi il comfort di una macchina. Se sei in una lista di attesa in un ospedale, non metti sotto accusa la forma collettiva di organizzazione del sistema sanitario, al contrario ti incolpi per non avere abbastanza successo da pagarti una cura privata. E così nella formazione e in tutto il resto. Improvvisamente, quando questa situazione globale è esplosa, le persone hanno smesso di sentirsi in colpa: il problema è diventato invece come le cose vengono organizzate, il sistema dei trasporti, il sistema sanitario, le modalità con cui le città vengono governate.

Tutto ciò è successo in una contingenza, durante la Confederations Cup. In Brasile c'è da sempre uno stereotipo di sinistra secondo cui il calcio è una forma di alienazione, l’oppio delle masse. Ironicamente però le maggiori lotte degli ultimi quarant’anni in Brasile sono avvenute esattamente nel periodo di una competizione calcistica. Perché? Perché il Brasile non sta solo vendendo la propria immagine all’interno, ma sta anche vendendo all’esterno l’immagine di un nuovo paese, di un colosso, di un posto in cui si può investire, in cui le persone hanno lavoro e alcune centinaia di migliaia sono preparate e qualificate. É un nuovo Brasile che può vincere nel mercato globale. Nel 2014 ci sarà la Coppa del Mondo e nel 2016 le Olimpiadi, quest’anno la Confederations Cup era il primo grande evento internazionale. Il governo voleva mostrare questo nuovo Brasile plastificato, con grandi stadi e città coperte da nuove costruzioni. In questo processo le favelas hanno sofferto una dura gentrification, gli homeless e chi lavora nelle strade sono stati colpiti. Il governo ha ripulito il Brasile per mostrare questo nuovo paese. Le persone hanno guardato in televisione questo paese splendido e colorato, e allo stesso tempo non hanno buoni servizi, subiscono una pressione pazzesca per lavorare in continuazione, sono spogliate di ogni possibilità di avere del tempo per se stessi.

Nel contesto delle lotte globali siamo tutti connessi, tutti hanno un computer e sanno l’inglese, cosa impensabile dieci anni fa. In particolare i giovani sono connessi, sanno l’inglese, si scambiano idee con persone di paesi diversi. Improvvisamente questa combinazione è diventata esplosiva. Non c’è nessuna spiegazione lineare, ma credo che si possa indicare quali elementi decisivi il fattore globale e questa crisi non di recessione, bensì di crescita. É la crisi della nuova società brasiliana: si tratta allora di lotte contro questo tipo di accesso e inclusione, contro questa forma di lavoro e di vita. Le persone non vogliono essere catturate in questo modello molare, nelle rivolte c’è una positività, c’è una costruzione comune di alternative costituenti. C’è un programma del governo federale chiamato “Brasil Maior”: non si vuole questo modello, è per me chiaro come l’esplosione sia avvenuta in una contingenza dentro questa combinazione di elementi.

In Brasile abbiamo dunque una rivolta contro l’inclusione. Hai anche sottolineato come non si possa parlare di declassamento proprio perché non c’è un ceto medio per come lo conosciamo in Europa o negli Stati Uniti, con quella funzione politica di mediazione rispetto alla lotta di classe. Possiamo dire che in Brasile il ceto medio nasce già declassato e precarizzato, ovvero è già immediatamente proletariato cognitivo?

Concordo. Penso che in Brasile abbiamo semplicemente saltato il welfare state e il “sogno moderno” di piena occupazione, quello che fu il sogno dei socialdemocratici europei negli anni Sessanta e Settanta. Veniamo da una miscela di modernità e pre-modernità – ovviamente la modernità coloniale è proprio questo – e siamo immediatamente arrivati a una situazione già postmoderna, con una produzione postfordista. Quando 15-20 anni fa la polizia faceva irruzione nelle favelas andava là per uccidere; ora non va lì solo per uccidere, per quanto ovviamente capiti, ma ci va con le banche, con le unità di pacificazione, i discorsi sono ora incentrati sulla pacificazione e lo sfruttamento dei territori. É uno sfruttamento basato sui servizi e sul settore terziario, attraverso i cellulari, attraverso i costi dei biglietti del sistema di trasporto, attraverso la rendita immobiliare. Ogni relazione sociale stabilita sul territorio è plusvalore. E questo sta crescendo, proprio perché le persone sono state incluse, hanno una qualche forma di reddito e consumano. Secondo me, dunque, il processo di pacificazione dei poveri – la maggioranza in Brasile – è direttamente associato a una nuova forma di sfruttamento e produzione, così come a una nuova cultura della resistenza e a nuove forme di vita che si stanno sviluppando nelle favelas o tra i giovani in generale. I giovani stanno provando a vivere in modo differente, a organizzarsi diversamente, a creare nuove collettività e interazioni. C’è qui un’enorme ricchezza. Il progetto non è uccidere tutti, non è creare uno stato di eccezione permanente: naturalmente la violenza di classe è presente, ma la logica consiste nello sfruttare e mantenere il controllo. Il termine pacificazione esprime bene questa nuova forma di controllo.

Penso che l’obiettivo finale sia di mettere ognuno nel proprio spazio. Per esempio i camelôs, i venditori ambulanti, non sono uccisi dalla polizia come in passato: sono messi in uno spazio specifico, dove possono lavorare. In questo modo possono generare plusvalore per la governance urbana. Se vivi in una favela, con un progetto abitativo pubblico ti offrono una piccola casa, molto lontana da dove sei. Inoltre, ti devi adattare alle nuove regole: devi pagare per i servizi, devi accettare molte tasse che prima non esistevano, devi pagare per le tue relazioni sociali e la tua esistenza nel territorio. Il reddito è quindi illusorio, perché è parte di uno sfruttamento molecolare. Dobbiamo analizzare il cambiamento dei circuiti di valorizzazione in Brasile, non solo per le nuove forme di controllo, ma innanzitutto per le nuove forme di produzione – possiamo dire di produzione del comune.

Hai prima accennato al ruolo dei giovani, come categoria politica e non esclusivamente anagrafica. Da quello che tu dici, i giovani sono stati immediatamente socializzati dentro il “nuovo modello” di inclusione sociale del “Brasile Maior”. Quanto e in che forme la questione generazionale pesa dentro la composizione di classe?

L’intero movimento chiamato del passe livre (la prima questione riguarda infatti i costi dei biglietti dei trasporti) è composto perlopiù da persone tra i 20 e i 25 anni, è incredibile. Quando è iniziato il conflitto nelle strade e le prime misure prese dal governo consistevano nella repressione, in tutte le forme che potevano (arresti, attacchi diretti, ecc.), i giovani nei social network e nelle reti non solo virtuali si sono uniti alle manifestazioni, anche chi non faceva parte del movimento passe livre. Si tratta soprattutto di giovani delle scuole superiori e dell’università. Questo è il primo elemento della composizione chiaramente visibile. Non abbiamo visto nessun membro dei movimenti sociali organizzati, dei partiti o dei sindacati, cioè della sinistra tradizionale. Ha fatto irruzione una sorta di gioventù selvaggia, che ha lottato direttamente con la polizia e ha dato fuoco ai tornelli. Mentre la manifestazione del 10 giugno era ancora contenuta come numeri, dieci giorni dopo a Rio de Janeiro c’erano 300.000 persone, decine di migliaia nelle altre città, e soprattutto giovani.

Le nuove generazioni sono già cresciute nella nuova società. Non hanno vissuto i tempi neoliberali di Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta, hanno formato la propria soggettività politica nella nuova società. Non hanno vissuto la trasformazione, dunque il rifiuto dell’inclusione rende i figli molto più arrabbiati e desiderosi di avere di più rispetto ai genitori. Si prendano le istituzioni rappresentative dei giovani, ad esempio l’Ubis e l’Uni (i sindacati nazionali degli studenti medi e universitari), sono semplicemente strutture burocratiche all’interno del governo Dilma. Se ti iscrivi a queste istituzioni rappresentative degli studenti lo fai per una logica di apparato, è una carriera verso la politica della rappresentanza. Non sono un luogo per soddisfare i propri bisogni, non hanno punti che riguardano la rivendicazione di vivere in un Brasile differente. E poi i giovani guardano i media, impegnati nel capitalizzare valore da ogni evento: anche se ne parlano molto male mostrano il conflitto nelle strade, le lotte entrano forzatamente nei titoli dei giornali. E i giovani dicono “ok, questa è la mia possibilità di esistere, di vivere senza seguire ciò che è già stato preparato per me, con le montagne di aspettative e di colpe che mi attendono in quanto forza lavoro nella società brasiliana”.

Penso quindi che i giovani siano importanti protagonisti di questa composizione di classe. Io ho vissuto gli anni Novanta, so cosa significa combattere nel neoliberalismo, ho un certo giudizio del governo Lula, riconosco gli avanzamenti fatti. Sulla base di questo giudizio, non ero portato a lottare completamente contro di esso. Ma immagino che se oggi avessi 16 o 17 anni vorrei sicuramente di più. La produzione del comune è un circolo virtuoso, che porta a volere di più.

Hai citato spesso il concetto di comune: al di là di quanto venga usato nei lessici politici, in che modo è concretamente importante nelle lotte e qual è la relazione con la questione del pubblico?

Negli anni Novanta in Brasile c’era un conflitto tra chi difendeva il mercato, i neoliberali, e la sinistra che si opponeva al socialdemocratico neoliberale Cardoso. Per noi era chiaro che la destra fosse per il mercato, la privatizzazione e la globalizzazione finanziaria, mentre la sinistra era per lo Stato, per i servizi pubblici, per l’organizzazione statale dall’alto al basso. Ma poi la sinistra è andata al potere: Lula è stato eletto nel 2002 e le ricette neoliberali non avevano più senso. Infatti, se si prendono gli otto anni di Lula e i tre anni di Dilma si vede come ci sia stato un discorso molto fondato sullo Stato. Ci sono state alcune privatizzazioni, ma non sono state al centro della loro politica. Dilma ha aperto parecchi uffici pubblici, il modello economico è stato imperniato sullo Stato, con una banca centrale molto forte, che si oppone perfino alle istituzioni internazionali. Il Brasile ha pagato il debito estero, c’è solo il debito pubblico e non più quello con istituzioni come il Fondo monetario internazionale. É stato un grande punto di conflitto per la sinistra negli anni Novanta, se bisognasse mettere fine a questa dipendenza esterna oppure no: adesso non l’abbiamo più. Allo stesso tempo c'è un governo che ha cominciato programmi di qualificazione come “Brasil Maior” e che prova a industrializzare il paese: tutti questi programmi sono sostenuti dallo Stato.

Dunque, la rivolta è contro lo Stato. Dilma è considerata una tecnica, a differenza di Lula che era considerato un presidente molto politico. Dilma sta tentando di modernizzare lo Stato brasiliano, non vuole affatto distruggerlo dicendo che è inferiore al mercato. É un paradosso: c’è questo discorso centrato sullo Stato e allo stesso tempo il capitalismo in Brasile non è mai stato così forte, mai ci sono stati così tanti affari, banche e margini di profitto. In questo modello di produzione e regolazione postfordista, anche la proletarizzazione è al top. Dunque, abbiamo contemporaneamente Stato e capitale nelle loro massime espressioni. Non si può più dire che ci sia una dicotomia, sarebbe assurdo, perché il capitalismo e lo Stato vanno insieme, è una sorta di realizzazione del sogno socialista. A Belo Monte, in un’area indigena del nord, c’è un impianto idroelettrico il cui progetto sarebbe stato impossibile senza lo Stato. Anche la Coppa del Mondo e le Olimpiadi sono grandi progetti che solo lo Stato poteva organizzare. Allo stesso tempo il mercato immobiliare, le banche e le imprese edili stanno incassando grandi profitti in questi progetti. Perciò quando si afferma che non si vuole questo “Brasil Maior” ma un’altra forma di vita nella città, un’altra forma di produrre cultura e un’altra organizzazione dell’assistenza sanitaria, non si vuole lavorare in questo modo e coperti dai debiti, non si sta dicendo che si vuole lo Stato, perché lo Stato è già là. Al contrario, è il rifiuto non solo della polizia ma dello Stato, nella sua forma molecolare di violenza: al mattino quando prendi il bus o quando vai all’ospedale pubblico, la violenza è lì. E questa violenza non significa mancanza dello Stato, ma significa che lo Stato organizza le cose che non ci permettono di vivere come potremmo. Al contempo, non si può fare un discorso centrato sul mercato, perché tutti gli uomini di affari e i grandi gruppi di interesse, nazionali e internazionali, stanno approfittando in grande misura di questa situazione, amano il governo Dilma, amano questa forma di governance in cui ci sono politiche sociali, crescita economica e niente rivolte. L’anno scorso ci sono stati solo movimenti con domande specifiche, e le soggettività si sono costruite al loro interno senza esprimersi nelle forme spettacolari del fuoco e dei conflitti di strada.

Il comune, dunque, è la produzione di un modo di vivere e di lavorare, in quanto sviluppo delle proprie capacità di comunicazione, di stare insieme, di cooperare. É una forma di organizzazione del trasporto, dell’assistenza sanitaria, della città, posiamo dire del diritto alla città. La scelta non è tra Stato e mercato, sono due facce della stessa medaglia nel modello di governance postfordista di queste nuove società. La sola alternativa costituente è il comune. Già 10-15 anni fa Giuseppe Cocco parlava della mobilitazione produttiva dei poveri: i poveri sono i giovani, i pensionati senza alcun diritto, chi vive nelle favelas, questa nuova composizione sociale, questo spettro di singolarità. Quando si mobilitano producono il comune oltre i circuiti di valorizzazione del capitale e oltre i circuiti della governance, perché gli uni e gli altri sono profondamente legati. In queste rivolte c’è distruzione e c’è al contempo una profonda positività, è una nuova forma di vita che sta crescendo.

Nelle rivolte in Brasile, da quello che tu dici, sembra non esserci un’idea di difesa del pubblico, perché quel pubblico è già immediatamente la forma principale attraverso cui si presenta oggi l’accumulazione capitalistica. Com’è allora il rapporto tra il movimento e la sinistra, cioè quel soggetto in cui storicamente si incarna la difesa del pubblico, ovvero dello Stato?

La sinistra tradizionale in Brasile è stata colta dalle rivolte nella sua completa impreparazione: nessuno le aveva previste, nessuno pensava che fosse possibile un movimento con questa capacità di trasformare il consenso. Ci sono poi diverse tendenze dentro la sinistra brasiliana, comunque i partiti di sinistra che sostengono il governo Dilma hanno una grande paura del movimento. Gli indicatori economici ed elettorali sono a loro favore, quindi hanno da subito pensato che il movimento non potesse avere un carattere di sinistra: “noi stiamo costruendo un nuovo Brasile e loro non lo capiscono!”. Perciò c’è stato un meccanismo di difesa di loro stessi, della loro identità, delle loro aspirazioni di rappresentare i poveri. Hanno paura, e nella paura hanno cominciato a vedere trame occulte, hanno messo in evidenza l’incontrollabilità e il caos della moltitudine. I media hanno posto la questione di chi manipola il movimento, secondo la mentalità colonialista occidentale per cui l’“altro” è sempre incapace di volere e costruirsi il meglio. É una pretesa illuministica, per cui noi abbiamo la ragione e questa ragione si incarna nello Stato.

La maggior parte dei commentatori e dei politici di sinistra si sono comportati in questo modo. Per esempio, Marilena de Souza Chaui – una filosofa molto influente dell’università di San Paolo – ha detto in una forma depressiva che c’era una magia nelle rivolte, e questa magia sarebbe presto scomparsa per rivelare il suo volto mostruoso, in senso negativo, attraverso la distruzione della tradizione di sinistra e di tutto ciò che ha costruito il governo Dilma. Tarso Genro, il governatore di Rio Grande do Sul, ha scritto un articolo nella prima o seconda settimana di mobilitazione parlando di un’ipnosi fascista nell’attacco della proprietà pubblica e delle autorità di sinistra. C’è quindi panico nella sinistra. Ma allo stesso tempo, dentro il movimento, nessuno si cura dei commentatori e dei politici, la sinistra sta su un altro pianeta, è davvero distante dai linguaggi, dai desideri, dalle sue forme di organizzazione, di comunicazione e di interazione. Il movimento non ha niente a che vedere con la logica della rappresentanza dei partiti di sinistra o dei sindacati. Quando nelle manifestazioni sono apparse le bandiere dei partiti di sinistra sono state espulse, perfino attaccate fisicamente, perché i manifestanti hanno cominciato a dire: “non abbiamo niente a che fare con voi, cosa ci fate qui? voi non ci rappresentate, stiamo lottando contro la vostra politica”. La questione non riguarda solo il trasporto pubblico o la governance della città, ma anche la forma di organizzazione.

Ora la sinistra ha paura del movimento, sa che non lo può distruggere, ma prova a isolarlo. Ancora una volta non capisce assolutamente la questione, perde il kairos, non riesce ad afferrare il momento. Ripete e riproduce sempre la stessa logica di impotenza, non andranno da nessuna parte. In Brasile, quindi, non ci sono forze organizzate tradizionali in grado di tradurre o in un certo senso di organizzare questo movimento. Per chi guarda con gli occhi pieni di questi schemi e interpretazioni, è davvero un deserto. La moltitudine è in questo deserto. L’esodo dalla sinistra tradizionale, dalla politica della rappresentanza, da questa forma di governo macroeconomico, dal “Brasil Maior” e dalla pacificazione, avviene attraverso il desiderio positivo di vita e di comune senza il controllo e lo sfruttamento della città. Questo esodo non avviene ora, sta avvenendo da 10-15 anni e solo adesso esplode.

Forse anche la stessa idea di sinistra deve essere cambiata. Penso che dovremmo ricercare di più e insieme dentro l’autonomia del movimento per provare a capire. Dobbiamo comprendere una composizione sociale che si è formata in 10-15 anni, per ricercare una composizione politica, per costruire strategie e forme di organizzazione. Questo è il kairos. Per quello che ho visto nelle manifestazioni e ho letto, non credo che la sinistra sia in grado di unirsi a questo movimento: è troppo selvaggio, nel senso buono, e sta praticando l’esodo.

Dall’Europa abbiamo spesso guardato a quello che è stato definito il laboratorio America Latina, ovviamente da intendersi nelle sue differenziazioni ed eterogeneità interne. Il movimento in Brasile può incidere e cambiare le coordinate di questo “laboratorio”?

Innanzitutto va detto che non è solo un movimento brasiliano. I governi in America Latina negli ultimi 10-15 anni – mi riferisco a Evo Morales in Bolivia, ai Kirchner in Argentina, a Lugo in Paraguay, a Correa in Ecuador, ecc. – hanno tutti l’aspetto comune di essere stati i primi a cercare una politica e una forma di governo a partire da una mobilitazione produttiva dei poveri. Hanno tutti favorito questa organizzazione dal basso, la produzione di forme di vita comuni: è successo nella fase costituente in Bolivia, nella politica del reddito in Brasile (Bolsa Família), nelle politiche culturali che connettono autonomia e diretta distribuzione del reddito, ed è successo in altri paesi latinoamericani. La composizione sociale è quindi simile nei diversi paesi. La questione è allora come questa contingenza della rivolta in Brasile può arrivare nel resto dell’America Latina. Penso che le condizioni e la composizione politica ci siano già, le società sono polarizzate e il dissenso è evidente. Ciò può avvenire perfino contro i governi, perché siamo al punto in cui dobbiamo andare oltre la sinistra rappresentativa, anche di quella creata da Lula, da Correa o da Chávez. Forse è il momento – e il Brasile mostra esattamente questo – in cui non possiamo fermarci e dobbiamo andare oltre, perché il consenso alla governance si è rotto e c’è questa nuova composizione sociale. Non so come si diffonderà o se si diffonderà, magari si diffonderà in Egitto o in Nord America, oppure in Asia. Questo ciclo di lotte è imprevedibile e viaggia per distanze lunghe alla velocità dell’era digitale, però le condizioni ci sono.

Torniamo in conclusione a genealogia e prospettiva del movimento in Brasile. Quanto è stato in grado di ricomporre e trasformare precedenti lotte, e quanto è in grado di creare prospettive comuni?

Non penso che la sinistra tradizionale, i partiti, i sindacati o perfino alcuni movimenti sociali siano in grado di unificare. Una prospettiva di ricomposizione di classe è possibile, ma attraverso un nuovo tipo di movimento. Non si tratta di crearlo con una rete utopica, è già stato creato, è già qui in una forma embrionale. É una nuova forma del produrre insieme, di fare un’esperienza comune della produzione del territorio. Per esempio, a Rio de Janeiro abbiamo Favela Não Se Cala, un movimento composto da persone delle favelas insoddisfatte del governo della città e anche delle tradizionali associazioni degli abitanti: vogliono ora avere il controllo della fornitura dell’acqua, delle linee elettriche e dei trasporti, vogliono produrre cultura, quella delle favelas – il funk – proibita dalle unità di pacificazione. Ci sono grandi reti di turismo a Rio che portano gli stranieri nelle favelas, e le persone delle favelas vogliono avere il controllo di questa ricchezza perché viene da loro. Non è qualcosa di completamente nuovo, c’è una lunga tradizione di lotte, ma per la prima volta si incontrano insieme. E per la prima volta non si pensa che ci siano le favelas e la città, ma le favelas costituiscono il cuore della città, sono produttrici di città. Questa percezione di essere produttori di città c’è anche con i camelôs, con gli homeless, con le occupazioni delle strade e degli spazi. Per la prima volta tutti questi soggetti dicono: “noi siamo la città, noi siamo i produttori della città, noi abbiamo il diritto alla città”. Perciò questo nuovo tipo di movimento ha molto a che fare con il diritto alla città, con il diritto a produrre la città, con il diritto a vivere la città e a farne esperienza singolarmente. Non si vogliono i megaeventi per cui dobbiamo lavorare in continuazione, pagare qualsiasi cosa, avere solo debiti e nessun diritto.

Sono quindi ottimista: questo tipo di lotte è basato sul territorio urbano, e insieme alla negatività dei vandalismi, ci sono milioni di incontri, riunioni, contatti, nuove amicizie e collettività che proliferano nella città, nei quartieri e nelle favelas. Stanno venendo fuori processi importanti e sono già visibili. La sinistra è completamente persa in questo processo, sta continuando a perseguire una sorta di “compromesso storico” con gli interessi delle multinazionali, delle imprese di costruzione, delle banche e del mercato immobiliare. Vogliono fare i compromessi e non sono interessati alle nuove forme di movimento.