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Innovazione capitalistica e composizione di classe

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Questo testo riprende e porta avanti i materiali, le riflessioni e le ipotesi del seminario di UniNomade a Torino su “Impresa e soggettività” (24-25 marzo 2012).

A partire da qui, apriamo un cantiere di ricerca, confronto ed elaborazione collettiva per fare un passo in avanti sui temi della composizione di classe, della soggettività e delle forme di organizzazione dell’accumulazione capitalistica.

Con questo contributo intendiamo lanciare un cantiere dedicato i) alla ristrutturazione degli assetti produttivi capitalistici nella crisi della triade finanziarizzazione, globalizzazione, sfruttamento cognitivo e ii) alle trasformazioni di ciò che continuiamo a chiamare composizione di classe, proponendo alcune coordinate preliminari per la discussione.

Premessa. Anche nell’apparente venire meno della capacità delle lotte di affermare potere costituente (o imporre al capitale scelte “riformiste”), riteniamo che al centro della possibilità di invertire la rotta resti il lavoro vivo (nell’accezione estesa che discende dall’espansione spaziale e dall’intensificazione temporale dei meccanismi di estrazione del plusvalore) e la capacità dei soggetti di impadronirsi delle condizioni della produzione e della riproduzione sociale. Tali potenzialità attraversano l’intero spettro dello sfruttamento capitalistico, dentro la produzione organizzata dalle imprese e al suo esterno, nell’eterogeneo campo che tiene insieme, disarticola e ricompone i differenti modi della valorizzazione: rendita finanziaria, pratiche predatorie sulle vite e sui territori, prelievo sulla cooperazione, captazione del lavoro gratuito, ma anche lavoro “in senso stretto” (nel senso di organizzato dal capitale). Nell’assumere la natura differenziale del capitalismo contemporaneo occorre però sviscerarne le gerarchie e coglierne le diversità qualitative. Affermare che tutto è lavoro (che tutto è estrazione di plusvalore) equivale in ultima istanza ad accreditare l’immagine di un capitalismo secondo i casi onnipotente – poiché effettivamente in grado di trasformare ogni impulso vitale in valore – oppure indifferente al lavorare concreto e ai modi in cui la cooperazione è organizzata. Inoltre, a sei anni di distanza del crash finanziario del 2008 e al crollo dell’economia che ne è seguito, occorre sottoporre a verifica alcune chiavi di lettura – anche nostre – del “nuovo capitalismo” (laddove il termine descrive i cambiamenti nei regimi di accumulazione “dopo Ford”) tra gli anni Ottanta e i giorni nostri.

1. Globalizzazione e reshoring

Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila la rappresentazione prevalente della globalizzazione coincideva (all’ingrosso) in una divisione del lavoro tra il neofordismo dei Brics e la concentrazione di funzioni direzionali, creative, qualificate nelle metropoli occidentali. Il movimento dei capitali, l’azione dei poteri locali, l’agire delle moltitudini, hanno affermato una geografia ben più articolata, con la risalita della catena tecnologica e cognitiva di diverse economie “emergenti”, da una parte, il permanere o la nuova proliferazione di sweat shop nelle metropoli occidentali, dall’altra. Il trasferimento e la “circolazione” delle contraddizioni ormai strutturali nei paesi a capitalismo maturo segna una nuova fase; anche la Cina e i Brics hanno oggi difficoltà di “assorbimento” del capitale intellettuale prodotto dagli “investimenti” educativi di massa, stimolati dalle aspettative crescenti delle classi medie o di parti dello stesso proletariato urbanizzato. E conoscono le lotte della nuova composizione sociale.

Entro questa cornice, una tendenza da verificare è costituita dal cosiddetto Reshoring, ossia del ritorno (per ora limitato soprattutto agli USA) delle industrie delocalizzate, in particolare in Cina. Secondo analisi di società di consulenza globale (es. Boston Consulting Group), dopo l'esodo di massa seguito all'entrata della Cina nel WTO, oggi “the tide is starting to turn”. Alla base del possibile contro-movimento è anzitutto[1] la dinamica salariale. I salari reali medi in Cina sono cresciuti del 300% tra il 1990 e il 2005, con metà di questo aumento concentrato tra il 2000 e il 2005. Secondo le statistiche ufficiali di Pechino, nel 2011 il salario reale degli occupati nel settore privato della zona est (dove si concentrano gli investimenti esteri) è aumentatodel12,3%; nel 2012 il salario nominale nel privato ha registrato un incremento del 17,1%, nel pubblico dell’11,9%. I differenziali con l’Occidente rimangono alti, ma i tassi di profitto degli investimenti esteri ne sono colpiti.[2] Nella medesima direzione vanno le lotte degli ultimi mesi nelle produzioni tessili delocalizzate in Bangladesh, estesesi anche alla Cambogia.

Come gli stessi analisti del BCG hanno evidenziato, un posto non secondario nelle aspettative d’inversione della “marea” è occupato dal trend salariale negli Stati Uniti, opposto a quello del Far East (tra il 2005 e il 2010, il costo lordo dei lavoratori industriali, negli USA, è calato mediamente del 4% annuo). Non si tratterebbe, sempre secondo le attese del BCG, di un contro-movimento di nicchia, poiché secondo le loro (probabilmente eccessive) stime il reshoring potrebbe, nei prossimi anni, valere tra i 20 e i 55 miliardi di dollari, e tra i 2 e i 3 milioni di occupati nei settori delle macchine, dell’elettronica, della plastica, dei mobili e dei metalli. Anche la Commissione Europea (Cfr. “Un'industria europea più forte per la crescita e la ripresa economica”) esplicita l’obiettivo di “passare, entro il 2020, dall’attuale 15,6% di Pil legato al manifatturiero al 20%”. Non è chiaro come le autorità europee intendano centrare questo target, né speculare su quanto sia realistico – o auspicabile. Ci interessa qui sottolineare due temi: i) la presenza di settori del capitalismo, nei paesi occidentali, che puntano esplicitamente ad un trade off tra costo del lavoro e reindustrializzazione; ii) il legame tra dinamica dei salari e geografie del lavoro. L’intensità delle lotte costituisce tuttora una variabile rilevante per l’allocazione geografica e qualitativa (dove e su cosa investire?) dei capitali.

2. Finanzcapitalismo e sostanza del valore

Dell’ascesa del capitale finanziario, progressivamente liberato a partire dagli anni Settanta dai precedenti vincoli regolativi, è stata data una rappresentazione prevalente che ne ha enfatizzato l’autoreferenzialità. La “preferenza per la liquidità” e lo “sciopero degli investimenti” attuato dai detentori di capitale a fronte delle ridotte capacità di estrarre profitti dalla cosiddetta “economia reale”, ha in effetti rivoluzionato il capitalismo. La leva finanziaria, inoltre, ha costituito modalità per estrarre valore (in una molteplicità di settori) basata, prima che sui profitti, sulla promessa di profitti futuri – ma immediatamente valorizzabili sul mercato dei capitali. Certo, gli scambi interni ai player finanziari si realizzano in uno spazio sottratto a controlli e regolazione, costituendo un “mondo di produzione” strutturato da proprie convenzioni, che in virtù dell’eccezionale accumulo di liquidità e del potere discrezionale di cui gode nell’allocarla, ha acquisito un potere smisurato sulla produzione, sul lavoro e sulle vite – si pensi, ad esempio, al potere sanzionatorio dei “mercati” verso scelte redistributive sfavorevoli ai creditori degli stati indebitati.

Siamo dell’opinione che il finanzcapitalismo vada analizzato non solo per questa sua autonomia, ma anche per le mutevoli e cangianti relazioni che intrattiene con la produzione di beni e servizi. Le attività finanziarie non sono affatto “improduttive”; l’indebitamento (pubblico e privato) ha funzionato come leva dell’accumulazione per tutti gli anni Ottanta, Novanta e Duemila e costituisce una modalità del tutto materiale di creare valore. Nonostante la maggior parte dei redditi prodotti nel circuito finanziario (nei mercati primari e secondari della moneta) sia realizzato secondo il ciclo abbreviato D-D’, affinché il circuito funzioni (produca surplus di capitale) deve però mobilitare aspettative di redditività le quali, in ultima istanza, richiedono sottostanti materiali – non importa qui se siano mutui ipotecari e immobili (come negli anni Duemila), web companies (come negli anni Novanta), suoli, materie prime, servizi alla persona o titoli pubblici. Capovolgendo l’idea ricevuta per cui la nuova grande crisi sarebbe originata dal fallimento dei mercati finanziari, è stato piuttosto il venire meno delle condizioni – o della percezione – di profittabilità dei sottostanti (profitti industriali, rendite, debiti cartolarizzati, ecc.) che ne ha causato il blocco – temporaneamente superato grazie agli interventi delle autorità politiche e delle banche centrali. In una prospettiva di lungo periodo, la finanziarizzazione[3] ha costituito soprattutto il tentativo (riuscito) di riallocare verso l’alto i redditi, elaborare nuove modalità di comando sulla produzione e sul lavoro, concentrare ricchezza e potere.

Nella crisi si è tuttavia affermata la necessità di una parziale risostanzializzazione del valore. Chiariamo da subito che questa ipotesi non prevede alcun “ritorno al passato”, ma la ricerca attiva, perseguita per via politica (stabilizzazione e radicalizzazione della condizione precaria, incentivi al sistema bancario, nuove enclosures su beni e servizi collettivi, ecc.) e tecnologica (e qui occorrerebbe un osservatorio efficace e sistematico), di una parziale ricostruzione dei presupposti “industriali” del valore. Esaurita la scorta delle soluzioni monetarie, per riprendere qui l’analisi di Wolfgang Streeck, funzionali a preservare livelli sostenibili di consenso e riproduzione delle vite – perseguiti dapprima con l’inflazione, poi con il debito pubblico, quindi attraverso l’indebitamento privato di massa – le soluzioni alla crisi dell’accumulazione sperimentate in questi anni appaiono tutte di corto respiro.

In quali direzioni operi questa ricerca è tutto da verificare e dovrebbe anzi costituire uno dei campi di ricerca. Se guardassimo agli istituti di credito, vedremmo che oggi le filiali bancarie funzionano come negozi a debito di elettronica e microelettronica (sostenendo l’acquisto di smartphone, televisori, altri dispositivi) e che sono in corso tentativi di rilancio dei mutui immobiliari. Ad un livello più generale, l’indebitamento degli stati e degli enti pubblici costituisce terreno favorevole per una radicalizzazione dei processi di “mercatizzazione” della vita quotidiana, culturale, riproduttiva, per la privatizzazione di suoli e metri cubi, oltre che di alcuni servizi di welfare. I servizi collettivi (energia, acqua, trasporto, ecc.), particolarmente quelli basati su monopoli “naturali” o quasi delle infrastrutture necessarie alla vita sociale e alla produzione materiale, sono oggetto di sperimentazione di assetti proprietari misti (soggetti finanziari, investitori privati, fondi a titolarità pubblica che operano con medesime aspettative di redditività – “profitti di riserva” – dei fondi d’investimento delle corporation). É sotto questa luce che vanno lette anche le retoriche sulle smart cities e sulla green economy; che resteranno argomenti da convegno fino a quando non costituiranno effettivamente un concreto (profittevole) terreno di espropriazione del comune. Il fatto che finora, almeno in Italia, tale prospettiva non sia decollata (ad esempio gli schemi di project financing, sbandierati a inizio secolo come soluzione alla crisi fiscale degli stati per realizzare opere di interesse collettivo, sono rimasti al palo – vogliamo sapere perché? Basta chiederlo a un qualsiasi manager bancario!) non significa che nel prossimo futuro ciò non possa avvenire.

3. Sul lavoro cognitivo

Pensiamo, per chiudere il cerchio, che uno dei campi di (ri)sostanzializzazione sia ricercato, per dirla in breve, nel rendere più produttivo il lavoro cognitivo. E anche a questo proposito ci troviamo di fronte ad alcuni processi da monitorare e interpretare.

Il primo attiene alla composizione sociale del lavoro. In alcuni paesi, tra cui l’Italia (accomunata in ciò, per limitarsi all’Europa, a Grecia e Portogallo), a partire dal 2008 sembra essersi invertita la tendenza, che appariva ineluttabile, alla sostituzione di posti di lavoro dequalificati con occupazioni high skilled – per quanto precarizzate – che costituiva, per certi versi, la base empirica della retorica sulla knowledge based economy e il riflesso statistico della rilevanza acquisita dagli asset immateriali (conoscenza, ricerca, design, comunicazione, ecc.) nella produzione di beni e servizi. In Italia, a partire dal 2008, gli occupati nelle professioni più qualificate (manager, professionisti e tecnici superiori) sono in costante calo.[4] Il dato sembra correlato più a un declassamento italiano nella divisione cognitiva del lavoro – tenuto conto delle difficoltà ad articolare su scala nazionale questa riflessione[5] – che a una vera inversione di tendenza. Tuttavia, un discusso paperdi tre economisti della Columbia University (Beaudry, Green e Sand) ha evidenziato la medesima dinamica negli USA, dove lo stock di high skilled jobs sarebbe in costante calo dall’inizio degli anni Duemila. La spiegazione fornita dai tre autori è di natura tecnologica; le ICT, dopo aver favorito la razionalizzazione e gli incrementi di produttività nel lavoro impiegatizio e nelle catene logistico distributive, starebbero “risalendo le gerarchie”, aggredendo funzioni e professionalità finora ritenute non “industrializzabili”, in virtù dell’insostituibilità e della limitata riproducibilità tecnica delle conoscenze incorporate da tecnici superiori e professionisti.

Lo sviluppo “industriale” delle attività in cui preponderante è il capitale conoscitivo dei produttori – in altre parole, dei saperi incorporati nel lavoro vivo o corpo-macchina – è vincolato proprio dalla difficoltà (per i capitalisti) a ottenere incrementi di produttività tramite innovazione tecnologica. In troppe attività siamo ancora in presenza di una sproporzione strutturale tra capitale fisso e variabile, di segno opposto a quanto accade nei settori maturi (capital intensive). Come rendere più produttivo il lavoro skilled è – per farla breve – uno dei problemi (forse, il problema) del capitalismo cognitivo. É anche muovendo da queste basi che in questi anni abbiamo fornito una lettura che enfatizzava i dispositivi di soggettivazione “esterni” al rapporto di lavoro, laddove tutto sommato non ci siamo mai occupati troppo di economia politica del capitalismo cognitivo. Questo perché siamo partiti: i) dall’ipotesi che il salto qualitativo nel passaggio tra fordismo e nuova economia consistesse (per dirla in breve e molto rozzamente) nel tendenziale farsi autonomo della cooperazione sociale rispetto al controllo capitalistico – più interessato a prescrivere la soggettività che a organizzarla, a “catturare” attraverso l’imposizione de facto o ex lege di diritti di prelievo sulla cooperazione che ad orchestrarla; ii) come conseguenza del primo punto, nel farsi predominante delle conoscenze vive sulle altre forme di capitale. Il capitale fisso, nel capitalismo cognitivo, è tendenzialmente incorporato nel lavoro (nella forma di conoscenza, prerogative biologiche, comunicative, affettive, ecc.); per quanto scontato, è da rimarcare che ciò andrebbe sempre letto nella sua duplicità. Da una parte, infatti, l’inalienabilità di questo capitale dalla materia calda e vivente dei corpi e delle relazioni che essi instaurano, restituiscono al lavoro – inteso nell’accezione estesa di cui sopra – parte del potere sulle materiali condizioni della produzione che nella separazione fordista tra scienza, tecnica e lavoro, era concentrato nel management. Dall’altra, però, il lavoro vivo non incorpora solo potenza trasformativa, ma anche informazioni, prescrizioni, schemi operativi, disposizioni senza le quali – banalmente – non potrebbe funzionare come “corpo-macchina”.

Questa lettura delle trasformazioni del capitale e del lavoro ha consentito di sottrarre l’analisi sia alla visione apocalittica della “fine del lavoro”, sia all’esaltazione acritica di una knowledge based economy post-capitalistica. Ciononostante, crediamo che anche queste tesi debbano essere verificate alla luce delle evidenze imposte dalla crisi, e da assumere quindi in modo situazionale e dinamico. Il capitale, per dirla banalmente, non è rimasto fermo, e proprio il controllo su questo corpo-macchina (il suo essere produttivo di valore) è anzi terreno di contesa decisivo.

Controllo che non avviene solo mediante la prescrizione di soggettività, ma anche attraverso industrializzazione (e dunque sussunzione) reale di capacità umana, abilitata e potenziata anche (per quanto la tecnologia non sia fattore in sé risolutivo) dallo sviluppo di una generazione di ICT di nuovo tipo, in grado di assorbire processi cognitivi del vivente – nella produzione di beni e contenuti, di servizi, nel tempo di consumo, riproduzione, ecc. – ad un livello sconosciuto all’epoca del boom della new economy.

Non è dunque ozioso interrogarsi in cosa consista il capitale fisso del capitalismo cognitivo. Domandarsi, ad esempio, cosa implica l’applicazione delle Nict alla produzione di beni e servizi. Sistemi informativi, tecnologie della simulazione, procedure informatizzate, sistemi Gps, ecc. non sono capitale fisso? E le tecnologie di prototipazione rapida – le stampanti digitali 3D, icone dei movimenti dei produttori autonomi, a cui però The Economist dedicava tempo fa uno speciale intitolato Third Industrial Revolution?

Per cogliere il potenziale impatto di queste tecnologie occorre distogliere lo sguardo dai colossi del web 2.0 e verificare cosa accade nella produzione diffusa di beni, servizi, contenuti – e nei consumi. E però, anche se guardassimo solo a Facebook, cos’altro dovremmo osservare se non che la redditività attesa di queste compagnie dipende in larga parte dalla serializzazione e trattabilità delle informazioni sugli utenti (dal loro profiling), attraverso l’imposizione di “standard tecnologici chiusi e software proprietari […] che impoveriscono e omologano le esperienze cognitive degli utilizzatori” (Cagioni)? Aggiungiamo noi, quanto è creativo piuttosto che etero diretto il “lavoro digitale” dei dipendenti di Facebook, Twitter, Spotify, ecc.?

Il capitale fisso digitalizzato ha natura diversa dalle tecnologie meccaniche applicate alla produzione di massa, poiché si nutre dell’attivazione umana e dell’interazione non meccanica con il lavoro vivo. Soprattutto, però, sono i modelli organizzativi abilitati dalla diffusione delle ICT a consentire un potenziale salto di industrialità nello sfruttamento del lavoro cognitivo. In altre parole, se una parte del lavorare nel capitalismo emerso dalle ceneri del fordismo-taylorismo è rimasto “esterno” alle macchine e alle metodiche organizzative (in sostanza, è autodiretto), le nuove macchine – elettroniche, biologiche, informative – e i modelli organizzativi che esse abilitano appaiono in grado di mangiarsi parte di questa capacità – rendendo possibile, probabilmente già oggi ma ancor più in potenza, l’industrializzazione di ambiti che si ritenevano non industrializzabili.

Gli stessi economisti della conoscenza (David, Foray, ecc.) hanno da tempo stilizzato la questione distinguendo tra informazione (lavoro morto incorporato in archivi, dispositivi, procedure, algoritmi, ecc.) e conoscenza (lavoro vivo generante nuova capacità attiva e lavorativa). Il fatto che la stessa produzione di conoscenza (scientifica, tecnologica, organizzativa) per l’industrializzazione del lavoro cognitivo sia prodotta non solo nei reparti ricerca e sviluppo delle imprese, ma sia al contrario ricerca diffusa e sociale (fatto peraltro da tempo riconosciuto da economisti mainstream come Arrows, Von Hippel, ecc.), non sposta l’analisi. Il problema è che senza riproducibilità, assorbimento e simulazione di capacità umana – senza “capitale fisso”, macchinino, digitale, organizzativo che sia – la potenza intellettuale del lavoro non produce valore capitalistico. Ma è una partita che i capitalisti non hanno mai considerato chiusa!

Quanto argomentato non intende accreditare l’idea di un capitalismo capace, attraverso l’azione combinata di dispositivi culturali e tecnologie, di imbrigliare la cooperazione e l’intelligenza sociale. Certo che c’è eccedenza! Che solo una frazione della capacità intellettuale collettiva può essere lavorizzata. Il resto, il capitale lo spreca. Questa eccedenza può essere però a sua volta piegata ai fini dell’innovazione capitalistica o valorizzata politicamente come ideologia dell’innovazione – visto che nella realtà a investitori e banche le start up non piacciono poi molto. Così come può divenire risorsa per progetti cooperativi e di autoproduzione, e qualche volta anche sapere per l’antagonismo sociale. Difficile però che possa essere entrambe le cose (innovazione capitalistica e contro-soggettività) nello stesso momento.

4. Knowledge working come lavoro industriale?

Riepilogando l’ipotesi, siamo in presenza ad un tentativo – che a chi scrive pare “sistemico” – di riconfigurare l’articolazione del rapporto finanza-produzione in direzione di una parziale re-industrializzazione. Occorre però capirsi (qui lo diamo in parte per scontato, ma probabilmente non lo è) sulle implicazioni politiche di questo processo, e definire quindi i caratteri per certi versi inediti di questa industrializzazione.

Per quanto riguarda le prime, occorre guardare al divenire e ai possibili esiti della crisi in corso, di cui si danno normalmente due letture di fondo. La prima è la “distruzione creatrice” schumpeteriana, che interpreta la crisi come ciclo lungo di trasformazione attraversato dalla rottura dei paradigmi tecnologici. Rientra in questa visione anche la retorica sulle “nuove geografie del lavoro” che insiste sulla divergenza tra poli a declino ineluttabile (negli USA la rust belt di Cleveland, Detroit, ecc.) e i nuovi motori della crescita (l’apologia della San Francisco di Twitter, Google, Apple, Facebook, ecc.). Tra i primi e i secondi sarebbero in crescita le differenze – oltre che occupazionali – di reddito e di salario, anche a parità di mansioni e di settore. Questa visione, evidentemente, ritiene “possibile” (o meglio, quasi automatico) il rilancio dell’accumulazione attraverso nuove generazioni di prodotti, tecnologie, che riflettono (e secondo taluni trainano) un più generale mutamento di culture, stili di vita, modelli di consumo, ecc.

All’opposto, tesi che ha trovato ad esempio nell’ultimo lavoro di Wolfgang Streeck una ricostruzione sistematica e argomentata, siamo al capitolo terminale di una crisi sistemica di lungo periodo, i cui effetti sociali sono stati diluiti dal capitalismo occidentale “guadagnando tempo” (con l’inflazione, il debito pubblico, l’indebitamento privato); questa strategia ha tuttavia ottenuto il solo effetto di riprodurre ad un nuovo livello le contraddizioni che si proponeva di addomesticare, e di accentuare il processo storico di scissione tra capitalismo e democrazia, oggi giunto ad un passaggio decisivo (con la dismissione dei residui elementi sociali nelle democrazie occidentali).

Detto che di entrambe le tesi, qui proposte a titolo esemplificativo, si possono trovare mille varianti, è opportuno evidenziare – ai nostri fini – che si tratta di due sviluppi non del tutto mutuamente esclusivi. Il parziale rilancio dell’accumulazione a base industriale è compatibile con la definitiva dismissione dei residui di democrazia sociale imposti dalle lotte di classe del Novecento. Anzi, la seconda è per molti aspetti condizione necessaria del primo. L’esperienza della lunga crisi, da questo punto di vista, costituisce (e costituirà) un formidabile esperimento di rieducazione di massa. Per queste ragioni, a differenza del neo-produttivismo di sinistra, riteniamo che non ci sarebbe molto di cui gioire per un eventuale (e finora ipotetico) rilancio selettivo di alcuni investimenti produttivi; d’altra parte questi sarebbero costantemente sottoposti alle valutazioni di redditività del capitale finanziario.

É necessario chiarire ulteriormente. La ricerca di nuove convergenze tra le diverse frazioni che compongono l’assemblaggio politico-economico del capitalismo contemporaneo, oltre a non implicare un ritorno al passato, non assicura una via d’uscita alla crisi dell’accumulazione. Ipotizziamo, in ogni caso, che quel “farsi rendita del profitto” con cui abbiamo sintetizzato il progressivo disallineamento del capitalismo dalle sue radici industriali, conviva oggi con la necessità di un “farsi profitto della rendita”. Questo non significa che tale obiettivo sia perseguito strategicamente da tutte le componenti del capitalismo, né che sia in contraddizione con altre forme di valorizzazione. Anzi! Nella crisi si radicalizzano i meccanismi estrattivi di plusvalore da asset basati sull’esercizio forzoso di diritti di prelievo, ed è proprio qui che si cerca prioritariamente di ridare sostanza al valore; pensiamo, per esemplificare, ai servizi collettivi (mobilità, infrastrutture, reti per il trasporto di dati, ambiente, produzione, trasformazione e distribuzione di energia, manutenzione urbana e dei territori, e poi formazione, salute, per finire ai servizi finanziari e assicurativi). Ciò non si pone però all’esterno della riflessione che proponiamo. É del tutto evidente che Politecnici, Università, Aziende Ospedaliere, Public utilities, Concessionari Autostradali, Porti, Aeroporti, Compagnie Telefoniche sono industrie che perseguono profitti agendo congiuntamente sul piano industriale (quando sono capitalisti “seri”, il che avviene raramente) e sulle regole del gioco – garantendosi, in altre parole, condizioni di profittabilità assicurate per via politica.

Cosa implica (implicherebbe) quanto argomentato dal punto di vista della “stratificazione” sociale e della soggettivazione del lavoro?

É evidente che la nostra riflessione –mentre sottolinea la qualità dei processi di espropriazione e industrializzazione di capacità umana come istanza immanente al capitalismo cognitivo – non intende affatto (ri)attribuire una astratta centralità ai conflitti salariali (sebbene chi scrive li consideri ancora molto importanti e certamente lo sono per i capitalisti) a discapito di altre lotte “periferiche”. I subalterni non vivono sulla loro pelle solo la violenza del comando diretto nell’orario di lavoro, ma anche la violenza dell’indebitamento per acquistare casa e mobili, del costo per formarsi o formare i figli o per mantenersi in salute, per accedere ai servizi collettivi ecc. Queste diverse forme di sfruttamento sono scindibili solo in astratto, poiché concorrono nel definire il campo della vita quotidiana, orientare i comportamenti, individuali e collettivi, definire le ragionevoli aspettative di ciascuno. Essere coscienti di questa molteplicità non è tuttavia buona ragione per dimenticarsi del primo.

In secondo luogo, lo diamo per scontato, da queste trasformazioni non discendono meccaniche determinazioni della “composizione di classe”, né la demarcazione su basi tecniche di soggettività “centrali”. Lo diciamo tuttavia anche per sottolineare una certa insoddisfazione verso letture troppo “orizzontali” o “liquide”; detto chiaramente, la capacità di “dare crisi” e imporre in modo antagonista le trasformazioni (o negoziare una più vantaggiosa redistribuzione) all’avversario non sono distribuite in modo uniforme lungo l’intera composizione sociale.

Terzo punto, se ci siamo dilungati sul lavoro qualificato (che richiede la mobilitazione di facoltà intellettuali più o meno complesse) è poiché crediamo che è soprattutto intorno a questa frazione che si concentrano le empasse analitiche, ma è evidente a chiunque in questi anni abbia indagato il working di molti settori apparentemente esecutivi – es. lavoro di cura non professionale, filiera logistica, catene distributive, servizi di customer care, le tante operaietà terziarie legate alla vendita, al marketing, ecc. – che la categoria di lavoro cognitivo acquista valore solo se sottratto alla descrizione sociologica degli strati superiori della gerarchia socio-professionale. Lo sfruttamento cognitivo (e il suo ineliminabile corollario di espropriazione di capacità umana) riguarda in realtà la larga parte delle figure del lavoro contemporaneo, anche di quelle componenti di lavoro sociale erogata in forma gratuita attraverso attività riproduttive e di consumo.

Se quanto argomentato è vero, o coglie almeno una parte dei processi di trasformazione in corso, occorre trarne alcune provvisorie conseguenze, da verificare con l’inchiesta e il lavoro politico sui territori.

1. La larga maggioranza dei lavoratori cognitivi non è sfruttata solo in quanto esposta alla precarietà, al ricatto dell’indebitamento privato (aspetto importante, ma che forse non andrebbe assolutizzato) e di quello collettivo, ma anche (e tendenzialmente sempre più) in quanto espropriato di capacità e di esperienza conoscitiva. Il disagio, il rancore e talvolta la rabbia di ampi strati di lavoratori e lavoratrici cognitivi/e – soprattutto giovani – non deriva tanto (o solo) dalla percezione di una impossibilità a convertire gli “investimenti educativi” in posizioni sociali adeguate, come una condivisa retorica enuncia ossessivamente (reclamando più meritocrazia e altre amenità), ma anche dall’immiserimento o svalorizzazione del lavoro (eterodiretto o autodiretto che sia) e della banalizzazione delle loro conoscenze (individuali e sociali). Fare un “lavoro stupido” o “essere alienati” sono traduzioni generiche ma del tutto eloquenti degli stati d’animo che attraversano la composizione del lavoro cognitivo, e a molti non bastano più le compensazioni simboliche assicurate dall’esibizione di curriculum e biglietti da visita altisonanti.

2. Entro questo quadro, la distinzione tra precariato e componenti dinamiche del lavoro della conoscenza, che pure aveva una base materiale fino a una decina di anni addietro, tende a perdere – o ha perso del tutto – rilevanza, come sostengono tra gli altri Sergio Bologna o Franco Berardi (“non esiste più alcuna condizione di privilegio del lavoro cognitivo”). Come sempre, nell’analisi della stratificazione sociale, occorre riporre attenzione ai processi di differenziazione. É chiaro che nella produzione di beni e contenuti ad alta intensità di lavoro intellettuale cooperano figure non riducibili a un profilo modale. Schematizzando in modo eccessivo, ma utile a rappresentare il concetto, esiste un lavoro di produzione della conoscenza e dell’innovazione, ne esiste un secondo di cattura, traduzione e industrializzazione (i famosi knowledge integrator) dell’innovazione, ne esiste infine – ma è quello numericamente e politicamente più importante – un terzo che si basa sull’applicazione, sull’uso, sul trasferimento, sulla circolazione di conoscenze ridotte a informazioni e processi standard. E poi, di controllo e valutazione, di governo dei processi, e via di seguito. In ciascuno di questi momenti qui grossolanamente stilizzati opera una divisione gerarchica e cognitiva del lavoro: anche la produzione di nuove conoscenze presuppone molto “lavoro stupido”. Va oltremodo chiarito che l’allocazione delle risorse di ricchezza, prestigio, potere, raramente hanno a che fare con la qualità delle conoscenze detenute dai singoli. Quasi tutti i lavoratori cognitivi inseriti in organizzazioni (pubbliche o private che siano) sono convinti di essere diretti da superiori inetti o poco preparati. In molti casi è probabile che abbiano ragione: l’integrazione delle conoscenze e il governo dei knowledge worker è infatti una funzione politica, non tecnico-scientifica. In breve, per chiudere questo punto, la rappresentazione del knowledge working come di uno strato (o una “quasi classe”) sociale tendenzialmente omogeneo è del tutto fuorviante; lo stesso parlarne in questi termini genera fraintendimenti. Volendo semplificare, ma non è detto che lo schema sia efficace, negli anni si è piuttosto ampliata la distanza tra uno strato superiore (a sua volta disomogeneo per ricchezza, prestigio, potere) e un ampio strato inferiore di lavoratori della conoscenza.

3. La “proletarizzazione” reale (che ci sembra più evidente di quando – anni Sessanta e Settanta – si preconizzava quella di tecnici e professionisti) di ampie frazioni di lavoro high skilled, non implica che la percezione che di sé hanno molti lavoratori cognitivi sia conseguente. É proprio questa, se vogliamo, la questione. Tecnici, pseudo-creativi, free lance, consulenti serializzati, bancari, operatori sociali, promotori vari, e poi traduttori, imputatori di dati, agenti di qualche cosa, anche quando sono brutalizzati e/o mal pagati, pensano (salvo alcune minoranze critiche) di appartenere ad una specie diversa da magazzinieri, commessi, banconisti, addetti alle pulizie, telefonisti. Non è un dato che si nutre solo della divisione del lavoro interna alle organizzazioni, tra imprese, nelle reti diffuse sui territori e nei network ubiquitari della produzione globale. Queste componenti sono separate anche nella vita quotidiana; abitano (solitamente) in quartieri diversi – anche spazialmente segregati – e diversi sono i luoghi che frequentano, consumano forse cose simili ma in spazi differenti, sempre più spesso parlano anche lingue diverse, e via di seguito. Quasi sempre, inoltre, sono divisi da una certificazione gerarchica del capitale culturale detenuto (il titolo di studio), e qui forse intravediamo anche il significato politico dell’accesso di massa all’università post Bologna. Solo tra gli studenti, forse, queste differenze perdono rilevanza. O nelle lotte, nello spazio aperto da una vertenza urbana o territoriale, nel singolo evento di un giorno; talvolta anche in lotte che durano nel tempo, capaci di produrre legami e rapporti sociali di segno differente, sottratti alla riproduzione delle gerarchie prodotte dal mercato. Talvolta ciò accade, è accaduto anche in questi anni, ma sono spazi eccezionali; la composizione di interessi, immaginario, pratica politica, tra queste frazioni è in realtà molto difficile, proprio in virtù dei processi di segmentazione e divisione perseguiti anche politicamente. E qui sta il dilemma. Trovare il piano comune, simbolico (fondato cioè su processi di riconoscimento, sul “sentirsi dalla medesima parte”, se non proprio uguali) e politico, tra questa grandi agglomerati di classe, è una non eludibile priorità dell’agenda anticapitalista.



[1] Anche se non esclusivamente, altri fattori significativi sono individuati nei crescenti costi logistici – settore a sua volta interessato a livello mondiale da un ciclo di lotte globale (Sergio Bologna) – nell’efficienza del time-to-market, e nelle aspettative crescenti di società che hanno visto un forte aumento degli investimenti in istruzione.

[2] Secondo il rapporto sul livello di fiducia verso il mercato cinese elaborato dalla Camera di Commercio dell'Unione europea in Cina e da Roland Berger l'aumento dei salari è percepito come il secondo rischio più significativo dai gruppi europei che vogliono investire in Cina, preceduto solamente dal recente rallentamento subito dall'economia del Dragone.

[3] Ma altrettanto si potrebbe dire del trasferimento dei capitali dall’industria a settori in cui i profitti sii realizzano soprattutto per “riscossione di pedaggi” (Sergio Bologna) – si pensi alla parabola di Benetton, alla mattanza di Olivetti, alla vicenda Telecom, ecc. per restare in Italia, e osservare la mutazione genetica, tra gli anni Settanta e Novanta, degli assetti di potere al vertice del sistema.

[4] La loro incidenza sul totale della forza-lavoro, in cinque anni, è diminuita dal 40% al 34,5%, equivalente di circa un milione 400 mila occupati in meno. Anche in Grecia e Spagna le perdite di lavoro skilled sono state rilevanti, ma va detto che nel resto dell’Unione Europea, come in buona parte dei Brics, il peso delle occupazioni qualificate in questi anni è continuato a crescere.

[5] In merito si rimanda, tra gli altri, al recente lavoro di Brett Neilson e Sandro Mezzadra.