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Prefazione – “La nuova ragione del mondo”

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di PAOLO NAPOLI

«Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa» (p. 358). Non potrebbe essere espressa in maniera più efficace la vocazione egemonica della cultura neoliberale che punta a inaridere la possibilità stessa di una posizione critica situata al suo esterno. Semplicemente una esteriorità è giudicata ontologicamente inammissibile, poiché ogni tipo di opposizione a questa «pragmatica generale» sarebbe priva del benché minimo aggancio alla realtà. Alla luce di una simile pretesa affermatasi ormai con i crismi imperturbabili dell’evidenza, si capisce che occorre molto coraggio a intraprendere un viaggio critico che non si preclude alcun ambito d’indagine e fa tappa circolarmente a Parigi, Bruxelles, Londra, Berlino e Washington. Ma forti di un bagaglio forgiato in gran parte nella boîte à outils foucaultiana, Pierre Dardot e Christian Laval permettono ora anche al lettore italiano di accedere a uno studio ponderoso, che spazia senza attrito ma con vigile profondità dalla riflessione filosofica alla politica economica e legislativa delle burocrazie nazionali e internazionali, passando per quel vero e proprio amplificatore mediatico che è la retorica manageriale. Variegato assemblaggio di registri pratici e discorsivi che si fanno eco l’un l’altro senza nuocere alla linearità delle tesi, La nuova ragione del mondo è una genealogia del presente. Gli autori spiegano infatti come le società occidentali siano divenute ciò che sono, ma indicano anche le soglie da varcare per riscoprire la possibilità di essere altro che delle volenterose creature della razionalità neoliberale. E siccome per quest’ultima la società è un concetto dotato di senso soltanto come aggregato di processi che s’incardinano in primo luogo sulle condotte dei singoli soggetti, allo stesso modo in cui il modello dell’impresa economica suppone che ogni individuo si trasformi in imprenditore di se stesso, ecco che la critica radicale di un simile sistema dovrà per forza esibire una portata antropologica. Un obiettivo del genere non si persegue tuttavia riabilitando un’essenza umana vilipesa dal cieco dominio della razionalità strumentale, come pretendevano i «francofortesi» delle origini e continuano tuttora a suggerire i loro epigoni post-habermasiani. La risposta per Dardot e Laval si situa invece sempre sul piano della tecnica di governo, la sola matrice storica da cui prendere le mosse, visto che né Dio, né la natura, né una classe sociale sono abilitati a fornire argomenti di giustificazione universali. Illusorio e fuorviante vagheggiare un anacronistico ritorno al bel tempo antico in cui lo Stato regolava e pianificava, così come profondamente regressiva sarebbe la ricerca di un’origine come luogo autentico del soggetto da opporre alla normatività neoliberale. Per gli autori occorre invece ripartire proprio da questo artefatto che è la condotta di sé e degli altri, cioè dal processo che lega il modo di farsi soggetto individualmente e collettivamente, per inventare come sosteneva Foucault delle contro-condotte che rivaleggino con quell’essere «nella» e «per la» concorrenza che il liberalismo ha eretto a ontologia sociale.

La storia intellettuale del liberalismo è segnata da pietre miliari su cui sono scolpiti i volti classici di Smith, Hume, Ferguson, dei Fisiocrati, di Mill, Toqueville fino ai più celebrati autori novecenteschi come von Mises e Hayek, per culminare con premi nobel per l’economia quali Milton Friedman e Gary Becker. Tuttavia accanto alla galleria prosopopografica di cui il libro ricompone le filiazioni ideali, valorizzando al meglio il poliedrico e lungimirante pensiero di Bentham, non sono affatto trascurati eventi più discreti, maturati all’ombra di crisi epocali come la grande depressione seguita al ’29. In tale contesto si sono prodotte tra le riflessioni più interessanti sulle teorie che hanno accompagnato il trionfo in Occidente della logica capitalista fino al momento del suo crollo finanziario. Uno snodo seminale in tal senso è rappresentato dal convegno Lippmann svoltosi a Parigi nel 1938 il cui scopo era quello di individuare principi e mezzi concreti per preservare l’economia di mercato dagli attacchi concentrici del collettivismo socialista, «pericolo mortale dell’Occidente» come sosteneva l’ordoliberale W. Röpke, e del totalitarismo fascista, benché quest’ultimo fosse assai più colluso con la libera iniziativa in campo economico. Nella loro lucida e documentatissima rassegna, Dardot e Laval hanno la sensibilità di riportare al centro della storia questo segmento discorsivo a più voci, sulla scia peraltro di quanto aveva fatto Michel Foucault nel corso al Collège de France del 1979 dedicato proprio alla razionalità liberale classica e alla sua rivisitazione novecentesca. A differenza del marxismo la cui storia istituzionale è stata ritmata dagli squilli di tromba delle internazionali comuniste, il neoliberalismo, per ovvie ragioni teoriche e sociologiche, affida i suoi messaggi culturali a eminenti accademici, ma colpisce in maniera più incisiva nella penombra di protocolli austeri come la conferenza ospitata dall’istituto Eucken di Friburgo il 10 luglio 2000, quando il commissario europeo per il mercato interno e la fiscalità Fritz Bolkenstein delinea i quattro principi di un’economia sociale di mercato, destinati a impregnare la Costituzione europea e nel 2007 il Trattato di Lisbona: flessibilità di salari e prezzi, riforma del sistema pensionistico, promozione dello spirito d’impresa, lotta contro le dottrine che instillano scetticismo verso i valori liberali.

Lasciandosi trasportare nei tanti meandri di questo monumentale lavoro, il lettore avrà fatto l’esperienza di una costante morfologica fondamentale: l’evoluzione del liberalismo, dai suoi albori tardo seicenteschi (Locke) fino alle sofisticate ingegnerie di governance contemporanee, è quella di un pensiero singolarmente invertebrato. Se infatti si potessero classificare i discorsi economici, politici e sociali secondo i criteri della tassonomia animale non vi è dubbio alcuno che il liberalismo troverebbe il suo posto tra lombrichi e millepiedi. Una parola d’ordine concettualmente meno anodina di quel che sembri riaffiora in ogni passaggio decisivo del libro, spia compulsiva di una vera e propria forma fluens che caratterizza il liberalismo: adattamento. Nell’introduzione all’edizione italiana Dardot e Laval confessano con l’onestà dei militanti senza partito che il marxismo non è stato capace di «scoprire il segreto di quella strana facoltà del neoliberalismo di estendersi ovunque, nonostante le sue crisi e le rivolte che induce nel mondo intero» (p. 13). E che proclamarne la fine alla luce del terremoto finanziario del 2008 significa misconoscerne la capacità di riorganizzazione su basi che sono già tragicamente operative nelle nostre vite quotidiane. Presentandosi fin dalle elaborazioni fondative di Smith come una filosofia che aderisce alla natura dell’uomo fatta di desiderio, passione, guadagno, piacere, il liberalismo si vuole complice di un’antropologia guidata dall’interesse individuale. Questo adattamento primordiale a una natura umana presentata con precise caratteristiche è all’origine di tutta una serie di compromessi e aggiustamenti che nel corso della sua storia il liberalismo esige da se stesso come rappresentazione adeguata non solo della natura umana ma anche dei cambiamenti sociali. Nato con l’obiettivo di impedire al governo di porre ostacoli alla società civile, il liberalismo della prima ora si troverà a dover fare i conti con l’erosione di questo assioma dovendo riconoscere che un limite eccessivo all’intervento del governo non fa molto bene alla società. Naturalmente questa flessibilità teorica che aveva piuttosto affascinato lo stesso Foucault, si può cogliere a condizione di osservare il fenomeno non dalla feritoia dei diritti naturali dell’uomo, ma attraverso la valvola pragmatica del governo. Ragionando non tanto in termini d’intervento statale ma di dosi governamentali che una società è in grado di ricevere dalle istituzioni politiche, giuridiche, economiche, religiose, culturali senza che i suoi membri smarriscano la libertà di scelta e di competizione e l’amministrazione pubblica degeneri in burocrazia parassitaria, il liberalismo si predispone quasi spontaneamente a metabolizzare ogni scossa degli eventi. E del resto solo l’arma diagnostica a doppio taglio del governo permette di spiegare quello che agli occhi di Polanyi sembrava giustamente un paradosso del corso storico: la civiltà occidentale, eleggendo il mercato della libera concorrenza a scuola del mondo per un individuo che solo così conosce e progredisce (Hayek), avverte allo stesso tempo la necessità di escogitare le misure per resistere alla sua logica. In questo senso il già citato convegno Lippmann del 1938 si conferma essere una palestra in cui il liberalismo si produce in quello che resterà un esercizio autocorrettivo strutturale: tagliare i ponti col dogma della naturalità del mercato e scoprire la prassi istituente delle forme giuridiche. In particolare di quel ganglio vitale nella mediazione tra potere e società che è l’attività giudiziaria, visto che alla luce della massima di Montesquieu venerata da tanti economisti, sociologi e storici del diritto (conservatori) il cambiamento non si realizza mai per decreto.

La forza di adattamento di cui stiamo parlando, che il neoliberalismo sembra aver interiorizzato come cifra autoriflessiva permanente, coinvolge però in primo luogo i soggetti in carne e ossa non solo nella sfera lavorativa ma nella totalità della loro esistenza. Il prezzo da pagare si fa onerosissimo, ma sotto l’influenza di potenti dispositivi pratici e comunicativi viene presentato come disperatamente sostenibile per gli individui, visto che non si dà alternativa alla base reale del mercato. Su questo punto la svolta della fine degli anni Settanta con l’avvento del duo Thatcher-Reagan riattiva anche una verità ormai consolidata: l’antistatalismo aggressivo e senza sconti di Milton Friedman non fa che trarre le logiche conseguenze delle premesse poste da un riformatore dal volto umano come lo stesso Lippmann, secondo il quale non vi erano dubbi che il sistema sociale dovesse adattarsi alla divisione del lavoro su cui poggia l’economia di mercato capitalista. Si trattava di capire se lo Stato dovesse accompagnare questo processo, ma l’esigenza di fondo rimaneva quella di modificare l’uomo per adeguare il sistema sociale a quello economico. La governamentalità neoliberista di Friedman recupera ed esalta questa strategia dell’adattamento che si esige dal soggetto: bollato lo Stato-provvidenza come strumento di demoralizzazione della società, occorrerà allestire le condizioni affinché il soggetto possa sentirsi «istintivamente» sovrano di scegliere e gestire i rischi connessi a questa scelta. E ciò potrà accadere solo creando quei vincoli di mercato che inducano il consumatore ad adattarsi, come se la situazione fosse un dato naturale e non un artificio istituzionale. Anche qui Dardot e Laval fanno bene a dissipare le mistificazioni retoriche che predicano la ritirata dello Stato quando in realtà quest’ultimo, lungi dall’arretrare, non fa che adeguarsi a nuovi criteri gestionali. Le politiche danno manforte a questa attitudine camaleontica del neoliberismo teorico, visto che i governi europei tanto di destra quanto di sinistra appaiono su questo terreno (come in diversi altri) sostanzialmente interscambiabili. Basti pensare alla facilità con cui Blair e Giddens abbiano presentato come acquisita e perciò non problematica per i loro connazionali l’accettazione dello stato di cose ereditato dal quindicennio thatcheriano, consegnatosi senza ritegno al dominio del capitalismo finanziario.

La costruzione del nuovo soggetto imprenditore di se stesso, eretto sulle periclitanti leve del rischio e dell’adattamento, non è tuttavia che il fenomeno in cavo della grande finzione antropomorfica proiettata dall’Occidente sulla scena mondiale negli ultimi decenni : il mercato, anzi i mercati. L’uomo-impresa, il soggetto imprenditore di sé è il corollario materiale di un’entità artificiale «curata» e «trattata» come un paziente assai alterabile e del quale occorre monitorare e decodificare ogni espressione sintomale anche perché ne va della sua salvezza, si potrebbe dire con un’immagine presa in prestito a quella razionalità pastorale che non a caso Foucault aveva considerato come il perno storico fondamentale della governamentalità. I mercati pensano, i mercati dubitano, i mercati sono euforici, i mercati crollano, i mercati vanno incoraggiati, i mercati devono essere guidati verso la buona direzione: tutte situazioni che richiedono una sapiente semiologia, guidata da un animus genuinamente clinico.

Se i mercati sono accuditi da schiere di analisti e operatori, il soggetto imprenditore di se stesso rappresenta una cavia piuttosto ghiotta per gli appetiti inesausti della pratica e della retorica manageriali. Senza questo potente canale discorsivo l’antropologia neoliberale conoscerebbe una legittimazione sociale meno scontata e pervasiva. Il libro dedica pagine illuminanti al dispositivo di efficienza che deve guidare le amministrazioni pubbliche alla luce della nuova razionalità gestionale, mentre un discorso a parte meritano i manager dell’anima, locuzione presa in prestito da Lacan e di cui Pierre Legendre ha restituito il côté esilarante (col neoliberismo, hélas, si ride pure) in una versione cinematografica intitolata La fabrique de l’homme occidental. Migliorare le proprie prestazioni per potenziare quelle dell’impresa: ecco l’obiettivo di quella svolta cosiddetta umanistica del management contemporaneo che vuole attingere a quei saperi tradizionalmente emarginati dal management «scientifico» di tayloriana memoria. Filosofia, letteratura, religione offrono le risorse motivazionali per creare il desiderio di costruire se stessi identificandolo con quello dell’impresa. Tra tecniche improntate allo story-telling (come ricorda Jerome Bruner le storie sono strumenti molto utili nella negoziazione sociale) e forme «terapeutiche» per acquisire l’autostima come il feedback a 360 gradi, torna in mente il caso paradigmatico di un alto manager di JP Morgan, formatosi alla Loyola University di Chicago, che al culmine di una carriera presumibilmente assai redditizia decide di offrire il suo punto di vista alla già copiosa letteratura sulla leadership. Adottando come esempio di modernità permanente la lezione dei padri fondatori gesuiti, una compagnia peraltro non estranea all’ispirazione dell’indirizzo cosiddetto situazionale nell’arte di condurre un’impresa, il manager in questione, Chris Lowney, è persuaso che il vero leader debba restare fedele ad alcuni principi non negoziabili. Tuttavia il valore supremo che deve coltivare è quell’«indifferenza» che gli consente di adattarsi a ogni fenomeno senza perdere la propria sicurezza. Il managing oneself magnificato da P. F. Drucker sulle autorevoli ed egemoniche colonne dell’«Harvard Business » trova nel perfetto gesuita che «vive sempre col piede levato» il tipo tremendamente reale del nuovo ordine del mondo. Più di un dettaglio ci dice che il secolo in cui viviamo rischia di essere ricordato nel segno d’Ignazio di Loyola.