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L'era dei Neet

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di GIGI ROGGERO

“Per lo studente medio, diventare un idraulico potrebbe essere una soluzione migliore che frequentare Harvard”. Che a pronunciare queste parole sia il sindaco di New York, Michael Bloomberg, induce una riflessione. No, non sull’arroganza di un potere che ormai si presenta nella sua forma bruta e senza veli: sono questioni che non vale la pena risolvere con le parole. Ci fa comprendere, invece, come la “rottamazione del general intellect” sia una tendenza globale, esattamente come la crisi del capitalismo. Poi certo, in ogni tendenza esistono temporalità e spazializzazioni molto diversificate: è infatti il mercato globale, costitutivamente, a nutrirsi di differenze. Al suo interno abbiamo in altre occasioni già evidenziato il ruolo dell’Italia, tra dismissione di formazione e ricerca e alto sfruttamento di forza lavoro low skill o pagata come tale (innanzitutto i migranti), con alcune punte di “eccellenza” – cioè il made in Italy, da Ferrari a Slow Food. Quelli che per anni a destra e a sinistra, sul versante neoliberale o dei movimenti, hanno cercato di convincere i capitalisti italici che è nel loro interesse investire in formazione e ricerca, ora sono serviti. La cognitivizzazione del lavoro si accompagna alla sua rottamazione. 

La rottamazione è generazionale

Il Consorzio AlmaLaurea è tra coloro che non hanno mai individuato un nesso tra la riforma Berlinguer-Zecchino, sempre difesa, e la crescente preoccupazione per le condizioni dell’università. Nell’ultimo rapporto annuale il profilo dei laureati è sempre più segnato dall’acuirsi della crisi economica, che però assume quasi i contorni di una catastrofe naturale, senza responsabili e rentier. La fotografia è questa: più giovani alla laurea, più regolari negli studi, più stage e tirocini, sempre meno possibilità di trovare un salario decente, ancora meno un’occupazione qualificata. Gli ex “bamboccioni” sono diventati definitivamente precari o disoccupati. Una parte emigra, “capitale umano” sprecato secondo AlmaLaurea, a cui si accompagna il debole investimento in capitale fisso. Ma cosa trovano i giovani laureati negli altri paesi? Soprattutto la possibilità di muoversi tra lavoretti e opportunità di basso livello, per sperare nell’occasione di occupazioni qualificate: è vero, perfino questo mercato del lavoro precario in Italia è sempre più chiuso, ma certo non è l’immediato “riconoscimento” cui anelano molti knowledge worker. Anche l’“eldorado estero”, calcato per affermare la supposta anomalia italiana, andrebbe quindi demitizzato.

Nella crisi i giovani sono i più colpiti, sostiene AlmaLaurea. Tuttavia, quella generazionale non è più una lettura sociologica, ma politica. Proprio questa generazione è stata l’asse centrale di movimenti e insorgenze nella crisi, fino ad arrivare a Gezi Park e al Brasile. É una generazione altamente scolarizzata e ricca di saperi, le agenzie di ricerca continuano a considerarla un ceto medio in difficoltà senza rendersi conto che socialmente è ormai declassato, mentre politicamente – in assenza di possibilità redistributive e dunque di un compenso per la sua funzione – non è più nelle condizioni di mediare. Oppure, come avviene nei Brics, quel ceto medio nasce già declassato, cioè è da subito proletariato cognitivo.

A cosa serve l’università?

Quella di “giovani” è però una categoria che si sta stratificando. C’è una prima generazione, fotografata in questi anni dal profilo di AlmaLaurea e che ora – dice il rapporto – richiede al contempo stabilità e autonomia, sono stufi della precarietà e vogliono decidere liberamente quale lavoro fare. Emerge poi una seconda generazione di precari: il rapporto evidenzia come solo il 30% dei diciannovenni vada all’università. Del resto, unicamente chi ha ignorato le tendenze di lungo periodo della fine dell’università come ascensore sociale può ora essere sorpreso dai dati del Cun che certificano 50.000 immatricolati in meno negli ultimi dieci anni.

Insomma, cresce la percezione che la laurea serva a poco o a nulla. Lo ha ben chiaro un lavoratore migrante, iscritto a informatica, in lotta contro le cooperative della logistica: “la differenza tra chi di noi è andato all’università e chi no si vede davanti al padrone che cerca di intimidirci con i suoi titoli di studio. Ma semplicemente perché chi è andato all’università sa che quei titoli non contano niente”. La sprezzante frase del milionario Bloomberg viene qui assunta e rovesciata: i saperi passano sempre meno per le istituzioni preposte alla loro trasmissione, e così il loro valore in termini di mercato.

Ecco dunque la base materiale di un principio di rifiuto o indifferenza per l’università che si fa largo tra i precari di seconda generazione, anche tra chi viene dai licei. Non è riducibile esclusivamente ai costi, che pure evidentemente influiscono. “Preoccupante – continua AlmaLaurea – risulta la quota di coloro le cui scelte formative non sono motivate né da fattori culturali né da aspettative occupazionali”. Lo “studente medio” probabilmente perde di interesse per un’università di cui non capisce più il senso.

Muoversi nel rifiuto

É banale avvertire il rischio “nichilistico” insito nel rifiuto della formazione. Osserva con preoccupazione l’Istat: “la quota di Neet, cioè di giovani che non lavorano e non studiano, è aumentata e in misura maggiore degli altri paesi europei, raggiungendo il numero di due milioni e 250 mila: il 24 per cento del totale dei 15-29enni”. A questa perdita di interesse per l’università non corrisponde però un rifiuto dei saperi, che anzi proliferano tra i “Neet” attraverso le reti sociali e telematiche. Anche tra le macerie degli atenei il vuoto di senso è sempre più riempito dalla creazione di spazi autonomi di socialità, aggregazione e circolazione delle conoscenze. I recenti episodi di lotta (dalla resistenza contro lo sgombero dell’Ex-Cuem a Milano alla cacciata della polizia dalla zona universitaria a Bologna) potrebbero essere dei piccoli segnali, ancora embrionali e circoscritti, dell’emersione di nuovi bisogni e comportamenti. Forse è qui che dobbiamo cercare delle prime risposte alla materialità dei processi di declassamento e precarizzazione. É un’ipotesi da verificare; tuttavia, invece di lamentarci della supposta passività di studenti e precari cognitivi, sarebbe il caso di interrogarci se non siano i nostri occhiali interpretativi a essere insufficienti.