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Urban Revolution (has been and must be)

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di SIMONA DE SIMONI*

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Nel 1970 esce in Francia un libro importante che s'intitola La Révolution urbaine (Lefebvre, 1970). Richiamo qui il testo e il suo titolo per una ragione semplice: perché l'ambiguità semantica della formula «rivoluzione urbana» consente di focalizzare due ordini di questioni. Anzitutto l'ipotesi secondo cui una certa trasformazione della città (o della dimensione urbana) si accompagna a una “rivoluzione spaziale” tout court (Lefebvre parla di “urbanizzazione completa della società”); in secondo luogo la convinzione che qualsiasi possibilità di innovazione politica radicale sia definibile soltanto “a partire da” e “all'interno di” configurazioni spaziali non predefinite: la rivoluzione, appunto, diventa urbana. È forse superfluo ribadire la natura politica di entrambi i fattori: da un lato una svolta spaziale – qualcosa di assimilabile a una “rivoluzione copernicana” per radicalità e incisività epistemica e politica – in cui la geografia del capitalismo va complessivamente ridefinendosi (dove per geografia s'intende sia la produzione materiale del mondo sia un assetto complessivo di discorsi su di esso); per altro verso, l'emergere di nuove condizioni di pensabilità e agibilità politiche che definiscono possibilità e modalità di lotta, conflitto, emancipazione e liberazione. Ovviamente, l'immagine di questa rottura è una “finzione teorica” che tiene insieme “eventi-scalari” diversi (cioè, molto semplicemente, fatti e cose che occupano spazi e luoghi diversi). Questo per liberare il campo da equivoci sul posizionamento teorico: non si tratta in alcun modo di narrare una storia universale e omogenea della città, né tanto meno dello spazio tout court. Il rifiuto di quello che Doreen Massey ha definito un “olismo claustrofobico”, mi sembra un assunzione metodologica minima per non fare cattiva metafisica (Massey, 2005). La “rivoluzione urbana”, dunque, va interpretata e usata come una categoria che nomina e pensa molteplicità e differenza, sia in termini teorici che politici.

Volendo parlare di città e metropoli da un punto di vista che assuma la prospettiva della “rivoluzione urbana” (e qui la si assume), si pongono due ordini di problemi: 1) la “rivoluzione urbana” e la geografia del capitale; 2) la “rivoluzione urbana” e la geografia delle lotte. O – per dirla un po' seccamente – quali forme di sfruttamento, quali interazioni scalari, quali processi di soggettivazione e quali chances?

Con la crisi del fordismo lo spazio si è definitivamente disarticolato, “disconnesso” (Soja, 2007 et al.) imponendo, così, la critica e la dismissione di una concezione “a taglia unica” dello spazio (Brenner Theodore, 2002). È in questo contesto che si consuma una rottura definitiva rispetto alla dimensione metropolitana tradizionalmente intesa (ciò non vuol dire che le metropoli industriali – o, meglio, che distretti metropolitani industriali – siano scomparsi, ma soltanto che viene meno la relazione biunivoca tra industrializzazione e urbanizzazione). Sul piano della metropoli, infatti, l'esplosione di una spazialità di matrice fordista si traduce nella rottura di una relazione equilibrata tra la dimensione urbana, la produzione e la riproduzione sociale: salta la mediazione spaziale tra tempi di vita e tempi di lavoro che, per oltre mezzo secolo, ha determinato la crescita e l'infrastrutturazione metropolitana (Smith, 1996). Dunque non tanto un fatto compiuto o un evento storico preciso e localizzato, ma piuttosto il ridefinirsi processuale e differenziato delle relazioni che definiscono i rapporti di forza dentro il capitalismo su diverse scale.

Riferendosi a questo ordine di questioni, David Harvey parla di “urbanizzazione del capitale” (ad esempio: Harvey, 2011). Condividendo l'impostazione teorica, Neil Brenner suggerisce di trasformare la cosiddetta urban question in una urbanisation question:una domanda che – con un gesto autenticamente marxiano – sposta l'attenzione dalla “cosa” al processo conflittuale della sua produzione (Brenner, 2013). Gli assemblaggi sempre più complessi ed eterogenei che chiamiamo città e metropoli sono configurazioni determinate ed eterogenee all'interno di questo processo di “produzione dello spazio” che eccede su molti piani la distinzione tradizionale tra città e “non-città” (tra città e campagna).

Il passaggio alla urbanization question permette di ragionare sulla metropoli e nella metropoli adottando un quadro analitico ampio, assestato sulle acquisizioni teoriche della geografia critica contemporanea e, soprattutto, sensibile alla complessità dei movimenti sociali che si sono dati negli ultimi anni (da intendersi come uno dei fattori principali di turbolenza spaziale, come spinta soggettiva di continua trasformazione). Movimenti che, non solo sono “isomorfi” sul piano dell'immaginario (questo è evidente), ma che tracciano e ritracciano assi di collegamento entro cui si definiscono forme di lotta capaci di mettere in atto una “politica trasversale” e dal basso (Yuval-Davis, 1997). Sono movimenti che si “mettono di traverso” su piani di convergenza imprevisti: lo si è visto, per limitarsi a due esempi particolarmente significativi, a Istanbul e a Rio. In forma situata, declinata, spuria e imperfetta – come sempre vuole la realtà – le stesse considerazioni si possono estendere a ciò che è emerso a Roma il 19 Ottobre e alle sperimentazioni continue di forme di “cittadinanza insorgente”.

Il 19 Ottobre, infatti, si è espressa (e si è organizzata) una consapevolezza collettiva e massificata (da non intendersi come una sintesi, ma come una convergenza di esperienze) della molteplicità delle forme di sfruttamento, impoverimento e sofferenza di cui si nutre il capitalismo contemporaneo e, al contempo della potenza comune che produce e vivifica la metropoli stessa e, dunque, della necessità di agire su livelli diversi ma simultanei. Una sola grande opera: casa e reddito per tutti è uno slogan che traduce la contrapposizione a numerosi fenomeni che è possibile esplicitare: rendita e speculazione immobiliare, speculazione infrastrutturale, estrazione di valore dalle forme di vita, sfruttamento del lavoro, sussunzione tramite indebitamento, differenziazione e segmentazione del lavoro attraverso la governance dei flussi migratori, “spacchettamento” territoriale su base estrattiva e imprenditoriale (competizione inter-urbana e grandi opere/grandi eventi). L'elenco potrebbe probabilmente arricchirsi o affinarsi dal punto di vista analitico, ma – in linea generale – rende conto del passaggio alla cosiddetta “città imprenditoriale” (Harvey, 1989) cioè della ridefinizione delle politiche urbane in chiave neoliberale (nei due cicli roll-back e roll-out).

La metropoli, infatti, non è più – o non è più soltanto – il prodotto di un organizzazione della produzione su scala allargata (come è stato a cominciare dalle prime big city a fine Ottocento sino all'espansione della città fordista) e non è neppure riducibile a un dispositivo articolato e sofisticato per il consumo di massa. Essa è divenuta – e in questo divenire la metropoli si dissolve – un assemblaggio di forme differenti, eterogenee e contemporanee di valorizzazione: non è il luogo (o l'insediamento) che definisce la metropoli, ma un insieme di relazioni (senza che questo significhi fludificazione e scorporazione di contrapposizioni, disuguaglianze, ingiustizie e conflitti). Semplicemente, la dimensione urbana non si definisce tanto per localizzazioni geografiche/topologiche e interazioni neutre (la città non è un contenitore), ma, al contrario, tramite localizzazioni produttive (in senso lato) e relazioni incarnate.

Il che, per altro, appare abbastanza ovvio se proviamo a pensare alle metropoli dal punto di vista soggettivo a partire dal quale, ad esempio, una mappa della metropoli è divenuta letteralmente impossibile (il venir meno della mappa, per altro, non pone tanto un problema di “rappresentazione”, ma di pianificazione: se viene meno la possibilità della mappa, viene meno la possibilità del “piano”. Per chi pianificare, a vantaggio di quale segmento sociale, di quale flusso produttivo, …? E' evidente – basti un cenno – il legame con l'esaurimento della centralità dello “Stato-piano”).

Dunque, tra i numerosi assi che definiscono il “mondo urbano” (e determinano variazioni d'intensità al suo interno e, quindi, eterogeneità) è forse utile rimarcarne qualcuno: la centralità della città nei processi di valorizzazione (dova la “città” , a questo punto, si può definire come una sorta di taglio spaziale a cui si accompagna una proiezione ideologica rivolta a produrre convergenza di capitali); i processi di re-scaling geografico e istituzionale e le forme di regolazione monetaria e finanziaria; la trasformazione delle forme di governance territoriale su scale differenti con “sperimentazioni”in chiave sempre più tecno-militarizzata nel contesto di una vera e propria “guerra ai poveri” (Wacquant, 2006); la segmentazione letteralmente bio-politica (e di classe) dei consumi, in primis quelli alimentari; i processi di inclusione differenziale e la proliferazione dei confini che definisce forme di gerarchizzazione del lavoro disseminate, differenziate e incarnate che complicano il quadro rispetto alla più tradizionale concezione della divisione internazionale del lavoro (Mezzadra/Neilson, 2013); la moltiplicazione delle lotte su scala urbana e le forme di soggettivazione.

In questo quadro, l'urbanizzazione delle lotte – “la politica dell'incontro” su scala planetaria, come l'ha definita Andy Merrifield (2013) – definisce sia la dimensione in cui ci muoviamo sia, forse, la progettualità entro cui ragioniamo. Ovviamente, niente e nessuno è senza storia e, molto spesso, l'immaginazione politica si esprime attraverso capacità di “citazione” e “traduzione”, nel senso conferito a queste pratiche da Walter Benjamin (1997). Un ragionamento sulla geografia del capitalismo (cioè sulla dimensione spazio-temporale specifica che assumono oggi i rapporti di forza dentro il capitalismo), implica ed è inseparabile da una ridefinizione di storie, memorie e genealogie – in breve, di un immaginario.

La dimensione urbana, ad esempio, è ampiamente definita anche attraverso la circolazione di pratiche e immagini in forme inedite rispetto al passato e strettamente legate alle “mutazioni” della soggettività. Quando, ad esempio, circola in una piazza italiana un'immagine del Nordafrica (o dalla Turchia o dal Brasile e così via) non si tratta soltanto di semplici suggestioni. Oppure, la tendenza a filmare/fotografare appositamente per diffondere tramite social all'interno delle mobilitazioni concorre alla creazione progressiva e immanente di un immaginario nella/della mobilitazione che possiede una forte un'intenzione produttiva e non puramente informativa o rappresentativa. In un certo senso, si può sostenere che ci si trovi di fronte a una sorta di “immaginazione geografica” nel senso di Derek Gregory (1994): cioè un'insieme di configurazioni/rappresentazioni del mondo non necessariamente codificate in una disciplina scientifica o in un programma politico, ma che sono altrettanto produttive/ “costituenti”.

In tal senso – e se l'ipotesi è buona – non ci sono paragoni azzardati perché non è sul piano delle comparazione che va posta la questione (questo in linea di principio, ovviamente in forma contestuale, contestualizzata e “prudente”). Di fatto, le composizioni dei movimenti sociali richiedono/producono genealogie eterogenee a partire da posizioni differenti (da incroci spuri e imprevisti) ma che possono entrare in risonanza e che possiedono potenza comune (si pensi, per fare un esempio particolarmente efficace alla citazione/traduzione della figura del black block in Brasile).

D'altro canto, la produzione di un immaginario dell'urbano contro un'immagine della città costituisce un terreno di tensione e di conflitti entro il quale siamo tutti presi e che non descrive inafferrabili processi di soggettivazione, ma le nostre vite quotidiane. L'idea di città, infatti, non è per nulla residuale e possiede, al contrario un fortissimo appeal ideologico: costituisce, cioè un dispositivo discorsivo (ma anche procedurale, istituzionale, etc...) grazie al quale convergono (si articolano, se non si organizzano) diverse forme di valorizzazione (convergono forme di capitale e investimento) e in cui si producono forme di adesione soggettiva (dispositivi di soggettivazione) cioè forme di partecipazione produttiva (in forma cooperativa autonoma o in forma impresa). Forse ci si trova davanti alla variazione specifica di un tema antico/fondativo (la città, infatti, è proiezione ideologica per eccellenza: luogo della politica e definizione del politico al contempo come inclusione differenziale – cioè sfruttamento - delle donne e degli schiavi), ma sta di fatto che la città costituisce sostanzialmente l'archivio dei discorsi entro cui sono iscritti i diversi paradigmi della crescita urbana. Creatività, cultura, conoscenza, sino ad arrivare al modello eco-tecnologico della smart city come progetto unitario di sussunzione di capitali cognitivi, emotivi e comunicativi.

Più la città è cool, più rende (da questo punto di vista, il celebre slogan “povera ma sexy” con cui il sindaco di Berlino lanciava la città mentre s'intensificavano le forme di gentrification choosy e la povera capitale tedesca si condannava a diventare la capitale hipster d'Europa, possiede un qualcosa di non banale e profetico). Ovviamente non interessa fare una critica moralistica o di stile (tanto nelle metropoli c'è spazio per tutti i gusti), ma ragionare sulle energie materiali che si mobilitano in questo contesto e sulle modalità della loro cattura economica. Insomma, tra l'idea che la cooperazione sociale creativa sia una sorta di latenza rivoluzionaria costante e, al suo, opposto la sua condanna ad essere l'espressione contemporanea della falsa coscienza borghese, forse ci possono essere passi intermedi da compiere. E la crisi, forse, ha fatto saltare almeno in parte la tenuta del dispositivo città come dispositivo di soggettivazione (almeno nella sua versione italica dove la creative class non si è mai veramente emancipata dalla tenuta del welfare di famiglia).

In ogni caso, queste contraddizioni vanno tenute in conto in un ragionamento sulla metropoli in quanto è soprattutto nell'ambiguità che il capitale si auto-valorizza, attraverso il consumo vorace del nostro stesso desiderio. Viene in mente – e così chiudo – la città di Anastasia descritta da Calvino (1972):

“La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d'agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo”.

 

* Intervento all’incontro sui “città e metropoli” del ciclo di Commonware a Bologna, “Cartografia delle lotte”.