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Introduzione – “La vita come plusvalore”

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di MELINDA COOPER

All’inizio degli anni Ottanta comincia un’era di intensa creatività concettuale, istituzionale e tecnologica nel campo delle scienze della vita e delle discipline contigue. Le scoperte in biologia molecolare, cellulare e in microbiologia non hanno solo promesso di aprire nuove possibilità tecnologiche, ma hanno anche chiamato in causa molte delle assunzioni fondamentali delle scienze della vita del xx secolo. Quest’era, inoltre, è anche quella della rivoluzione neoliberale, dal momento che simili drammatici cambiamenti stanno scuotendo le sfere politico-economiche e sociali.

Avviato nel Regno Unito e negli Usa, l’esperimento neoliberale tentava di minare le basi esistenti della crescita economica, della produttività e del valore, mentre al contempo cercava di raggiungere una più stretta alleanza tra la ricerca finanziata dallo stato, il mercato delle nuove tecnologie e il capitale finanziario. Negli Stati Uniti, in particolare, questi interventi ebbero notevoli conseguenze per le scienze della vita. Quando il presidente Reagan propose una serie di riforme finalizzate a sollecitare una rivoluzione nelle scienze della vita, nella salute pubblica e nella biomedicina, egli toccò un tasto che, da allora, rimase fondamentale per ogni amministrazione. Il progetto del neoliberismo americano, come cerco di spiegare in questo libro, è connesso in modo cruciale all’emergere di nuove possibilità nelle scienze della vita e nelle discipline correlate.

Da quando gli ambiti della (ri)produzione biologica e dell’accumulazione si sono avvicinati, è diventato difficile pensare alle scienze della vita senza chiamare in causa i concetti tradizionali dell’economia politica – produzione, valore, crescita, crisi, resistenza, rivoluzione. Al contempo, tuttavia, l’estensione dei processi commerciali alla sfera della “vita in sé” ha avuto un effetto problematico sull’auto-evidenza delle tradizionali categorie economiche, spingendoci a riconcettualizzare i loro scopi in relazione alle stesse scienze della vita. L’era biotech pone delle questioni che ci sfidano circa la relazione tra crescita economica e biologica, rievocando, spesso in modi inattesi, gli interrogativi che hanno accompagnato la nascita della moderna economia politica: dove termina la (ri)produzione e dove inizia l’invenzione tecnologica, quando la vita è messa al lavoro a livello microbiologico o cellulare? Qual’è la posta in palio, vista l’espansione delle leggi sulla proprietà privata, che ormai coprono qualsiasi cosa, dagli elementi molecolari della vita (brevetti biologici) agli accidenti della biosfera (crediti da catastrofi)?

Che rapporto c’è tra le nuove teorie biologiche sulla crescita, sulla complessità e sull’evoluzione e le recenti teorie neoliberali sull’accumulazione? E in che modo è possibile lottare contro questi nuovi dogmatismi senza cadere nella trappola della politica neo-fondamentalista della vita (un esempio ne sono il movimento per la vita e il catastrofismo vitalista)?

Ora più di prima, dobbiamo essere consapevoli dell’intenso traffico esistente tra la sfera economica e la sfera biologica, senza ridurre l’una all’altra, o meglio, senza bloccarne una per favorire l’ascesa dell’altra. Collocandosi tra la storia e la filosofia della scienza, tra science e technology studies, tra biologia teorica ed economia politica, questo libro tenta di essere ibrido nelle sue ricerche almeno quanto oggi lo sono le stesse scienze della vita.

Assumendo come punto di partenza il mercato delle scienze della vita in Nord America, questo libro non si pone l’obiettivo di ripercorrere l’intera storia delle biotecnologie o di spiegare i vari e diversi modi in cui le scienze della vita e le nuove tecnologie sono state impiegate e regolamentate in differenti aree del mondo. Come alcuni studi recenti hanno ampiamente dimostrato, persino le differenze tra concorrenti economici quali Usa, Regno Unito e Germania sono così marcate da rendere cauta ogni analisi comparativa (Jasanoff 2008). E la politica di un paese come l’India, con la sua storia unica di produzione di farmaci, brevetti e leggi, mette fine all’idea che la bioeconomia emergente del xxi secolo sarà organizzata intorno a rigide linee divisorie tra vincitori imperialisti e sconfitti postcoloniali (Sunder Rajan 2006). Con l’ascesa dell’Asia dell’est quale punto centrale della ricerca e dell’investimento nelle scienze della vita, le dinamiche globali di potere sono lontane dall’essere determinate aprioristicamente.

Tuttavia, ritengo che vi sia una specificità nello sviluppo delle scienze della vita in Nord America che richiede un’analisi adeguata. Questa specificità è dovuta tanto alla recente storia della crisi economica negli Stati Uniti, quanto alla sua attuale posizione di paese centrale per l’economia mondiale e per il potere imperialista. Come mostro nel primo capitolo, il 1980 segna un punto di svolta nelle politiche di ricerca e sviluppo degli Stati Uniti. Da allora, le scienze della vita hanno assunto un ruolo trainante per la strategia americana di reinvenzione economica e imperialista.

Nei decenni trascorsi il governo degli Stati Uniti è stato al centro degli sforzi di riorganizzazione delle regole del mercato globale e delle leggi sulla proprietà intellettuale, riorganizzazione perseguita attraverso modalità che favorivano le sue stesse case farmaceutiche, il suo stesso agro-business, e la sua stessa industria biotech. In aggiunta, la posizione privilegiata degli Usa in relazione ai flussi finanziari mondiali ha comportato la conseguenza che anche la più speculativa delle imprese nelle scienze della vita attraesse un costante, e incomparabile, flusso di fondi. La mia prospettiva sull’imperialismo differisce quindi da quella dei marxisti postoperaisti Negri e Hardt (2002), i quali sostengono che oggi non esistono centri nazionali nevralgici per le relazioni di potere globali. Al contrario, io affermo che oggi la nazionalità occupa una posizione centrale, anche se precaria, nella costituzione del debito globale. Questa posizione si giustifica solo non separando lo sviluppo americano dagli investimenti nelle scienze della vita.

Economia politica e biologia: genealogie

È molto difficile parlare di biopolitica oggi senza evocare un intero campo di battaglia tra posizioni differenti. Per quanto possibile, ho evitato di rendere questo libro un dialogo impegnato con l’esistente letteratura teoretica sulla biopolitica, semplicemente perché ritengo che molte domande urgenti siano ancora lontane dall’essere poste.

In ogni caso, le questioni qui formulate derivano da due momenti cruciali nel lavoro del filosofo politico Michel Foucault. La prima di esse si può rintracciare nel suo libro Le parole e le cose (2004), in cui egli suggerisce che gli sviluppi delle scienze moderne e dell’economia politica classica dovrebbero essere interpretati come eventi paralleli ma reciprocamente costituenti. Foucault colloca il punto di svolta decisivo tra il xviii e il xix secolo, quando le scienze classiche della ricchezza (dai mercantilisti ai fisiocratici) furono sostituite dalla moderna scienza dell’economia politica (Adam Smith e David Ricardo), quando la storia naturale del periodo classico (Leclerc de Buffon e Linneo) fece spazio alla scienza della vita in sé, alla moderna biologia di Bichat e Couvier. Prima di allora, suggerisce Foucault, non vi era vita nel senso moderno, biologico del termine, così come non vi era alcun concetto di lavoro come forza produttiva fondamentale alla base dello scambio monetario.

È vero, ammette Foucault, che la tassonomia del periodo classico divideva la natura nelle tre classi dei minerali, dei vegetali e degli animali, seguendo Aristotele; al contempo, però, non si è mai accordata nessuna rilevanza alla distinzione tra organico e inorganico. Se la vita esisteva come categoria di classificazione era solo per giustificare il passaggio da una parte all’altra della scala, ma non ha mai rappresentato una soglia autoevidente grazie alla quale nuove forme di sapere, di scienza e di sperimentazione si sono rese necessarie. Ed è a questo proposito, seguendo Foucault, che le moderne scienze della vita, vitaliste o meccaniciste che siano, rappresentano un radicale cambiamento rispetto alle scienze classiche della natura. A un certo punto, tra il 1775 e il 1800, l’opposizione tra organico e inorganico inizia a essere percepita come fondamentale, si impone sul vecchio ordine dei tre regni e reinventa completamente le sue categorie di somiglianza e differenza (ivi, 251). Da Bichat a Couvier la condizione della moderna biologia si stabilizza quando “la vita assume la sua autonomia in relazione al concetto di classificazione”, e si ritira dall’ordine delle relazioni visibili per rifugiarsi nella profondità fisiologica e metabolica dell’organismo (ivi, 178).

Foucault vede una simile transizione in atto nei testi a fondamento della moderna economia politica, dove la nozione di lavoro è elaborata per la prima volta come risorsa indispensabile e originaria di ogni forma di valore. Ed è nell’opera di Ricardo, più che in quella di Smith, che Foucault rintraccia la piena realizzazione di tale transizione: dal momento che gli economisti del periodo classico avevano interpretato il valore come funzione del commercio, dello scambio e della circolazione, movimenti che potevano essere immessi nella creazione di elaborate tavole economiche, si può dire che Ricardo ha inaugurato una vera e propria scienza moderna dell’economia, poiché ha separato il valore dalla sua rappresentazione e ha ricollocato l’origine di tutta la ricchezza dietro la superficie dello scambio, nel processo e nel tempo della forza, del lavoro e della fatica (ivi, 275). Nell’opera di Ricardo, il valore, per la prima volta, cessa di essere un mero segno di equivalenza, situato nel mondo piano della rappresentazione, per diventare misura ed essere misurato da qualcosa di diverso da se stesso: l’impiego di forza nel tempo, “l’essere umano che passa, si logora e perde la propria vita nello sfuggire all’imminenza della morte” (ivi, 279).

Da Ricardo a Marx l’economia ha poi scoperto la produzione come fonte ultima di valore, nonostante le distorsioni che avrebbe potuto comportare nella sfera dello scambio. Seguendo ancora Foucault, quello che questo passaggio dalla rappresentazione alla produzione riflette, in senso più generale, è la ricollocazione della ricchezza nelle sfere creative della vita biologica umana, piuttosto che nei frutti della terra – come è ancora evidente nell’opera di Adam Smith. E qui risiede un primo elemento dell’articolazione che lega la moderna economia e le moderne scienze della vita: nel concetto di “struttura organica”, spiega Foucault, i moderni biologi hanno trovato un principio “corrispondente al lavoro nella sfera economica” (ivi, 245). Nel xix secolo l’economia comincia a crescere per la prima volta, proprio nel momento in cui la vita inizia a essere interpretata come un processo di evoluzione e sviluppo ontogenetico: “l’organico diviene il vivente e il vivente è ciò che produce, crescendo e riproducendosi; l’inorganico è il non vivente, che non si sviluppa né si riproduce; ai confini della vita, esso è l’inerte e l’infecondo, la morte” (ivi, 251). Come Malthus e Marx hanno chiarito in modi diversi, la crescita della popolazione diviene così inseparabile dalla crescita economica. D’ora in poi, l’economia politica analizzerà i processi di lavoro e produzione insieme a quelli di riproduzione umana e biologica – e sesso e razza, come condizioni liminari della riproduzione, si troveranno al centro delle strategie biopolitiche di potere.

Biopolitica: dal New Deal al neoliberismo

Un secondo e più immediato luogo di riferimento per i miei argomenti è rintracciabile nel seminario di Foucault sulla nascita della biopolitica di stato. Nelle sue lezioni del 1975-76 Foucault (1998) guarda alle varie strategie promosse dallo stato nel corso del xviii e xix secolo come mezzi per organizzare i processi temporali di riproduzione, malattia e mortalità. Queste strategie, egli afferma, sono inseparabili dalla nascita del calcolo dei rischi e della normalizzazione statistica – la Bell curve[1]o normale distribuzione come modo per standardizzare e controllare l’avvento di contingenze future su un livello collettivo. In fondo, qui Foucault sta rintracciando la genealogia dello stato sociale a metà del xx secolo – la forma costituzionale che più delle altre tiene insieme amministrazione della demografia e crescita economica.

Questo aspetto del lavoro di Foucault è stato approfondito dallo storico François Ewald, il cui studio del 1986, L’État providence, sostiene che il welfare state o lo stato sociale del New Deal è la prima forma politica a porre al centro dell’azione di governo le strategie di socializzazione del rischio. Lo stato sociale mutua, dunque, la sua forma giuridica dall’assicurazione per la vita, per poi estendere all’intera nazione i suoi principi di reciproco scambio del rischio. Contrariamente ai suoi precursori liberali, lo stato sociale promette di farsi carico dell’intera cronologia della vita umana, dall’inizio alla fine. Non è interessato solo alla vita produttiva dei lavoratori, ma anche alla vita riproduttiva della nazione nella sua totalità. Il contratto cui dà luogo è quello del mutuo dovere, una mutualizzazione del biologico al servizio della vita collettiva della nazione. In questo modo, osserva Ewald (1986, 326), il contratto dello stato sociale istituzionalizza una forma di generazione sociale e collettiva: “la relazione che intercorre tra l’individuo e la società è quella della generazione, della specie e della successione” a tal punto che la protezione della vita diventa un problema politico alla pari della riproduzione della nazione, della sua continuità nel futuro.

Lo stato sociale è, dunque, la prima forma politica che non solo comprende il dovere in termini immediatamente sociali e collettivi, ma che anche iscrive le relazioni di debito al livello del biologico. Esso si assume il compito di proteggere la vita attraverso la redistribuzione dei frutti della ricchezza nazionale a tutti i cittadini, persino quelli che non possono lavorare, ma in cambio esso impone un obbligo reciproco: i suoi firmatari devono donare la loro vita alla nazione. Agli inizi dello sviluppo della filosofia dello stato sociale vi sono sostenitori del calibro di Beveridge e Roosevelt, i quali affermano che la sopravvivenza economica della nazione si basa per necessità sull’economia sotterranea della riproduzione biologica: “lo stato sociale si articola intorno all’idea di protezione del vivente. Se l’economia è al centro delle sue preoccupazioni, come per lo stato liberale, non si tratta dell’economia della ricchezza materiale, bensì di un’economia della vita” (ivi, 375). E per Ewald, il discorso diffusosi verso la metà del xx secolo sulla nascita dei diritti umani – con il suo appello a un diritto originario alla vita – è solo l’espressione idealizzata dell’economia della vita nello stato sociale:

“L’idea di diritto alla vita non è altro che un principio di generalizzata socializzazione delle esistenze, delle anime e dei corpi, un modo di costituirli come indefinitamente debitari della società”.

L’idea di diritto alla vita o di diritto all’esistenza è collegata a un’economia degli obblighi, che è molto diversa da quella liberale. Essa richiede di essere formulata più secondo il linguaggio dei doveri che quello dei diritti. La società dona la vita e si impegna a proteggerla. Cosa chiede in cambio? Che ognuno le doni la propria vita. [...] La controparte del diritto alla vita può essere solo, senza riserve, il dare in pegno la propria esistenza. La base del nuovo linguaggio dei diritti è la donazione (ivi, 326-327).

Questo libro non riguarda in primo luogo lo stato sociale, la biopolitica e i suoi sviluppi o le sue propaggini coloniali. Piuttosto, mi sono impegnata qui ad analizzare le strategie specifiche delle biopolitiche neoliberali, così come sono state perseguite dagli Stati Uniti sul fronte interno e su quello globale negli ultimi trent’anni.

Dunque, inizio la mia analisi nel punto preciso in cui Foucault si è fermato durante il suo seminario del 1978-79 intitolato Nascita della biopolitica, la prima e ultima volta in cui egli volge la sua attenzione all’ascesa del neoliberismo. In accordo con Foucault parto dalla premessa che il neoliberismo riconfigura il valore della vita rispetto a come era stato stabilito dal welfare state e dal modello di riproduzione sociale del New Deal. La sua differenza risiede nell’intento di forzare i confini tra le sfere della produzione e della riproduzione, tra lavoro e vita, tra mercato e tessuti vivi – confini che sono stati davvero costituenti per la biopolitica del welfare state e del discorso sui diritti umani.

Come il sociologo britannico Titmuss (1971) aveva predetto, è qui emblematico il caso del sangue. Quando il sangue umano non è più trattato come proprietà nazionale e non è più estrapolato dalle fluttuazioni del mercato, l’intero spazio della riproduzione diviene in tal modo potenzialmente disponibile per la mercificazione.

Di conseguenza, quello che il neoliberismo vuole capitalizzare non riguarda semplicemente la sfera pubblica e le sue istituzioni, ma in modo più pertinente la vita della nazione, la riproduzione sociale e biologica come riserva nazionale e valore fondamentale dello stato sociale. Nel fare ciò, rovescia la mediazione costitutiva dello stato sociale keynesiano, esponendo il dominio della riproduzione alla violenta luce del mero calcolo economico.

A questo punto, però, la mia analisi della biopolitica neoliberista differisce da quella di Foucault. Nascita della biopolitica si concentra sui teorici della scuola economica di Chicago, per i quali l’assunzione neoclassica dell’equilibrio del mercato rappresenta qualcosa di simile a una legge di natura. La tendenza neoclassica si riflette nella teoria del “capitale umano” della scuola di Chicago e informa le basi della critica foucaultiana al neoliberismo (2005, 221-244, 249). La mia analisi, tuttavia, accorda maggiore importanza a quelle correnti della teoria neoliberale che hanno sviluppato una propria critica al modello neoclassico dell’equilibrio, correnti che sono più strettamente connesse all’ascesa delle teorie del caos e della complessità, come il ritorno della teoria evoluzionista economica di Schumpter (1934), e più tardi, come i modelli di auto-organizzazione proposti da Friedrich von Hayek (1969). Nel primo capitolo, ad esempio, tratto della critica alle previsioni razionali e ai modelli dell’equilibrio del mercato sviluppatasi nel contesto della conferenza di Santa Fe sulla teoria economica. Sono questi approcci alternativi a quelli dell’equilibrio, suggerisco, ad aver esercitato un’imponente influenza sulle forme politiche e sociali del neoliberismo. E sono proprio queste teorie, anche quando fallimentari, a essere maggiormente in sintonia con le attuali condizioni di lavoro e di accumulazione del capitale nell’era neoliberale.

Vi è quindi una distinzione preliminare da tracciare tra l’interpretazione keynesiana e quella neoliberale della crescita. Laddove le strategie di crescita dello stato sociale richiedono la costituzione di una riserva istituzionale o di un valore fondamentale, il neoliberalismo si libera di ogni fondamento nazionale, proiettando le sue strategie di accumulazione in un futuro speculativo. Essenziale per l’economia keynesiana è l’idea che i cicli di crescita della produzione, della riproduzione e dell’accumulazione di capitale possano essere sufficientemente calibrati in modo da evitare i continui rischi di catastrofe del capitale – le insorgenze sul lavoro e le crisi finanziarie (alle quali aggiungo femminismo e politiche queer come rifiuto della riproduzione normalizzata).

L’economia della stato sociale è una scienza della crescita mediata, quella che stabilisce misure istituzionali e valori fondamentali a partire dalla riserva bancaria fino al tasso di cambio fisso e al salario familiare, come mezzi per vigilare sia sulle insorgenze sociali che sulle bolle finanziarie. Laddove la biopolitica dello stato sociale parla il linguaggio della curva gaussiana e della normalizzazione dei rischi, le teorie neoliberali della crescita economica sembrano maggiormente interessate a concetti quali l’evento non normalizzabile e la curva frattale. Laddove l’economia keynesiana cerca di salvaguardare l’attività produttiva contro le fluttuazioni del capitale finanziario, il neoliberismo istalla la speculazione al cuore stesso della produzione. Il neoliberismo, in altre parole, riconfigura profondamente le relazioni tra debito e vita, così come si erano formalizzate nello stato sociale della metà del xx secolo. E fa questo impegnandosi in un proficuo dialogo con le scienze della vita, scienze in cui le varie nozioni di generazione biologica sono oggetto della stessa crescente attenzione.

Avanzo pertanto una serie di riserve rispetto alla critica foucaultiana del neoliberismo. Per prima cosa, le emozioni all’opera nel neoliberismo non sono gli interessi o le previsioni razionali, quanto piuttosto i movimenti essenzialmente speculativi ma pur sempre produttivi della credenza collettiva, della fiducia, della paura. Quello che il neoliberismo tenta di imporre non è la generale mercificazione della vita quotidiana – la riduzione di ciò che non è economico alla richiesta dello scambio di valore – quanto la sua finanziarizzazione. Il suo imperativo non è più la misurazione del tempo biologico, quanto la sua inscrizione nel campo della non quantificabile e acronologica temporalità dell’accumulazione di capitale finanziario.

In questo senso, perciò, la biopolitica neoliberale ci riporta a forme di valutazione del rischio collettivo che erano molto diffuse nel xix secolo, nel periodo precedente al consolidarsi dello stato sociale. Nel suo libro del 1979 Viviana A. Zelizer ci fornisce uno straordinario inventario delle forme più speculative di assicurazione sulla vita che proliferarono nel tardo xviii secolo e agli inizi del xix. In un contesto in cui la differenza tra speculazione e contropartita del rischio era lontana dal risultare evidente, le polizze assicurative sui poveri e gli anziani erano considerate una forma legittima di investimento, mentre alle lotterie popolari si scommetteva regolarmente sulle chance di sopravvivenza dei naufraghi o dei nuovi immigrati. Oggi una tale pratica può solo provocare uno shock emotivo e cognitivo. Con il suo acquisito interesse nel catastrofismo biologico, il neoliberismo è similmente intenzionato a lucrare sull’irregolare distribuzione delle condizioni di vita, quantunque estreme. La differenza, paradossalmente, è che il catastrofismo neoliberale è molto meglio organizzato. Soprattutto, esso dispone di mezzi materiali molto più adatti allo scopo dei suoi classici predecessori liberali.

L’ambito coperto da questo libro comprende l’era delle biotecnologie contemporanee, dallo sviluppo del dna ricombinate ai più recenti interessi per le terapie cellulari, per la medicina rigenerativa e per la scienza delle cellule staminali. Mentre i primi tre capitoli si focalizzano su dna ricombinante, biologia molecolare e microbiologia, gli ultimi due analizzano l’ambito emergente della scienza delle cellule staminali e dell’ingegneria dei tessuti. Detto ciò, le problematiche indagate non sono facilmente confinabili a una precisa disciplina delle scienze della vita, e sono più propensa a presentare una panoramica delle politiche delle scienze della vita che a fornire una storia precisa per ognuna di esse.

Il primo capitolo suggerisce che la rivoluzione biotech del periodo reaganiano deve essere compresa all’interno del più ampio contesto della “rivoluzione neoliberale” e dei suoi tentativi di ristrutturare l’economia statunitense lungo linee postindustriali. In particolare esso indaga il confine tra le teorie neoliberali della crescita, della crisi e del limite e le strategie di crescita speculativa emerse dallo svilupparsi delle nuove tecnologie delle scienze della vita. Il neoliberismo e l’industria biotech condividono la comune ambizione a superare i limiti ecologici ed economici della crescita associati alla fine della produzione industriale, attraverso una reinvenzione speculativa del futuro. All’apice dell’euforia high-tech degli anni Novanta, l’industria bioetch promise di risolvere problemi come la fame, l’inquinamento, la perdita della biodiversità, dello spreco in generale, mentre i problemi ecologici e biopolitici del capitalismo industriale potevano solo continuare a peggiorare la situazione. Questo capitolo punta una luce critica sulla retorica della crescita perpetua associata alla rivoluzione biotech, suggerendo che il neoliberismo non risolve lo spreco industriale, piuttosto lo distribuisce diversamente nello spazio e nel tempo. Esso analizza esempi specifici di soluzioni biotecnologiche proposte per affrontare i problemi dell’industrialismo (batteri mangia petrolio, pesticidi ed erbicidi, raccolti resistenti, bio-rimedi), così come progetti più estremi quali il tentativo di ricreare la vita su Marte. Sviluppo il concetto di delirio come mezzo per interpretare il progetto biotecnologico di reinventare la vita oltre i suoi limiti. Questo delirio, suggerisco, è inseparabile dalle dinamiche attuali dell’imperialismo del debito e del ruolo degli Usa in esso.

Nel secondo capitolo sposto la mia attenzione sulle questioni del plusvalore umano, dell’epidemia di hiv/aids, e sulla violenza strutturale dell’industria farmaceutica contemporanea. Qui affronto la problematica del debito imperialista dal punto di vista dell’Africa sub-sahariana, dove le nuove leggi del wto sui brevetti e le strategie sui prezzi delle cordate farmaceutiche americane ed europee, insieme al rigore della soggezione causata dal debito, hanno avuto effetti devastanti sulle opportunità di vita di intere popolazioni. Il diffondersi dell’epidemia di hiv, suggerisco, è sintomatica della forma biopolitica che va assumendo l’attuale imperialismo del debito. Quello che viene alla luce è l’imperativo alla violenza che sottende la promessa neolibeale di una vita migliore. Ritroviamo la forma retorica della violenza neoliberale nei contemporanei discorsi sulla sicurezza biologica e sul concetto umanitario di “emergenza complessa”[2].

In ogni caso, non intendo stabilire una semplice opposizione tra il centro imperialista e le periferie, o suggerire che l’imperialismo del debito statunitense sia il solo ad avere un futuro, al contrario del generico “non occidente”. Mi sembra, invece, che il progetto del fmi e della Banca mondiale – sponsor del neoliberismo imperialista –, il cosiddetto consenso di Washington, possa essere compreso solo come una strategia diretta al contempo ad attaccare le classi sociali più deboli degli stessi Stati Uniti e dei paesi in via di sviluppo. Neppure voglio omettere le uguali colpe delle politiche del governo post apartheid di Mbeki. Le politiche del presidente Mbeki sono sintomatiche dei pericoli della risposta neofondamentalista all’imperialismo del debito.

Il terzo capitolo riguarda la svolta biologica nella guerra al terrore. Durante la presidenza di Bush era diventato difficile distinguere le politiche di salute pubblica sulle emergenti malattie infettive dalla dottrina militare sui cosiddetti problemi emergenti, mentre il futuro della ricerca delle scienze della vita veniva indirizzato verso applicazioni belliche. Il problema è qui l’estensione della logica speculativa del capitale finanziario alla sfera militare e alla ricerca nelle scienze della vita. In aggiunta, le politiche dell’era Bush sulle malattie infettive e sul warfare biologico portano a un punto di svolta delle strategie del warfare umanitario, a tal punto che l’“emergenza complessa” viene riscoperta sul suolo americano. Questo capitolo si concentra maggiormente sui concetti di prevenzione, emergenza e rischio di catastrofe così come si sviluppano nell’intersezione tra economia e scienze della vita.

La seconda parte del libro è dedicata invece all’analisi delle scienze e delle politiche sulle cellule staminali e sulla medicina rigenerativa. Il quarto capitolo conduce un’accurata analisi degli esperimenti correnti nell’ingegneria dei tessuti e compara i suoi metodi a quelli delle prime tecnologie del xx secolo come il trapianto degli organi e le protesi. Ho scelto di partire dall’analisi del campo tecnologicamente informato dell’ingegneria dei tessuti, piuttosto che dagli sviluppi più teorici associati alla biologia delle cellule staminali, perché credo che gli esperimenti nella trasformazione corporea stanno informando i nuovi concetti di potenzialità cellulare, di plasticità e malleabilità. L’ingegneria dei tessuti si delinea implicitamente sui metodi topologici di trasformazione. Al contrario delle prime tecnologie, è più legata ai processi di embriogenesi permanente che agli stati di animazione sospesa. Di nuovo, un complesso scambio tra le epistemologie biologiche ed economiche è qui all’opera, da quando le modalità posfordiste di produzione sono allo stesso modo connesse alle possibilità di trasformazione topologica.

Il quinto capitolo volge lo sguardo al più conservatore e fondamentalista impulso al lavoro nelle biopolitiche neoliberali attuali. Qui mi confronto con l’ascesa dell’evangelismo americano e la sua cultura di politica della vita. Quali sono le connessioni tra le dottrine evangeliche della resurrezione personale, del fato e del capitale e le politiche dell’attuale movimento per la vita? Ancora, come possiamo comprendere la complessa articolazione che avviene tra la politica della vita neoliberale e quella neofondamentalista?

Qui di nuovo ritorno sulla problematica del debito imperialista e sulla nazionalità statunitense che avevo analizzato nel primo capitolo, suggerendo che il movimento evangelico per il diritto alla vita è inseparabile dagli elementi promissori e violenti dell’indebitamento americano e del ruolo che oggi esso assume nell’economia mondiale.

Ognuno di questi capitoli cerca di illuminare un aspetto particolare della politica delle scienze della vita nell’era neoliberale. Alcuni dei capitoli sono direttamente dedicati alla dimensione promissoria, trasformativa e terapeutica delle attuali scienze della vita. Altri capitoli sono più attenti a esplorare le forme di violenza, obbligo e soggezione al debito che si cristallizzano intorno alla nascente bioeconomia. Tuttavia, non intendo avanzare alcuna linea-rità o finalità per questa sequenza di idee. Per questo vi è un forte contrasto tra il terzo e il quarto capitolo, dove passo dalla militarizzazione della ricerca delle scienze della vita alle possibilità rigenerative aperte dalle scienze delle cellule staminali e dall’ingegneria dei tessuti. Eppure anche qui il contrasto apparente richiede maggiori specificazioni, dal momento che la scienza delle cellule staminali si è sviluppata anche attraverso investimenti per fini bellici (riscontrabili nella produzione di cellule biosensori), così come è molto probabile che gli investimenti per la ricerca nella biodifesa producano inattese scoperte terapeutiche. Nell’organizzazione dei capitoli e nella giustapposizione delle idee spero di aver restituito il senso della mia incertezza a proposito del futuro biopolitico aperto dall’attuale produzione delle scienze della vita. Come molti biologi continuano oggi a ripetere, questi futuri non possono essere determinati aprioristicamente.



[1] La Bell curve, detta anche distribuzione normale, o Curva di Gauss, dal nome del matematico tedesco Carl Friederich Gauss, è una curva a campana che descrive la distribuzione di un set di variabili casuali attorno al valore medio o più probabile [N.d.C.].

[2] “Complex emergency” è una espressione in uso per indicare una situazione di emergenza dovuta a una calamità naturale o provocata dall’uomo con cause ed effetti complessi che riguardano tanto la dimensione economica quanto quella politica e sociale [N.d.C.].