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Postfazione – Cambiamenti critici del clima

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di ROSI BRAIDOTTI

Il lavoro di Melinda Cooper illumina con genialità e intuizione l’economia politica perversa del capitalismo avanzato. La sua perversione consiste nella coesistenza di regimi biopolitici di coltivazione e sfruttamento di tutto ciò che vive, con le pratiche crudeli tipiche della distruzione necropolitica mirata. Modi di morire e modi di vivere vengono strategicamente schierati attraverso gli spazi sociali sfaccettati e sconvolti della sostenibilità di stampo aziendale, del mix culturale globalizzato e del consumismo monotono e coercitivo.

Altrettanto perversa è l’ideologia contemporanea della “libera” mobilità. Il capitalismo avanzato è una forza centrifuga che produce freneticamente e mette in circolazione beni differenziati a livello quantitativo: dati, capitali, bit e byte di informazioni, a tutto vantaggio della mercificazione e del profitto. Gli individui, soprattutto i non europei, i migranti e i rifugiati apolidi, così come i membri delle minoranze sociali, culturali e di genere, non circolano affatto altrettanto “liberamente” (Braidotti 2003). A livello dei processi di soggettivazione, questo sistema appare come un moltiplicatore di differenze deterritorializzate, che vengono confezionate e commercializzate grazie all’etichetta del “nuovo”, identità negoziabili e fluide create su misura delle infinite scelte dei consumatori. Proliferazioni quantitative senza cambiamenti qualitativi.

Questo contesto globalizzato provoca inoltre un decentramento tattico dell’antropocentrismo, che opera su due livelli. In primo luogo, nella misura in cui l’economia politica del consumo ha per oggetto tutte le specie viventi e capitalizza essenzialmente il capitale informativo di tutto ciò che vive, il capitalismo avanzato genera una modalità opportunistica di spostamento della centralità degli umani, come Cooper sostiene in modo convincente. Tutte le specie sono, infatti, ugualmente minacciate dalla sussunzione strumentale in questa economia del mercato globale. Gli eccessi di questo sistema minacciano la sostenibilità del nostro pianeta nel suo complesso. Questo genera una tendenza post-antropocentrica nelle economie avanzate e nelle tecnologie che le sostengono. La attuale sfida teorica consiste nel fare i conti con cambiamenti senza precedenti, ovvero con le trasformazioni delle unità di base di riferimento di ciò che conta come umano.

La seconda caratteristica saliente dell’economia globale contemporanea è proprio la sua struttura tecno-scientifica e bio-genetica. Essa è costruita sulla convergenza tra settori diversi e precedentemente non comunicanti della tecnologia. In particolare possiamo indicare i seguenti settori come i quattro cavalieri dell’apocalisse post-umana: nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive.

La struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo è particolarmente importante e centrale in questa discussione, come attesta il lavoro della Cooper. Questa struttura comprende il Progetto genoma umano, la ricerca sulle cellule staminali, l’intervento bio-tecnologico su animali, semi, cellule e piante, la biologia sintetica. In sostanza, il capitalismo avanzato investe ed al contempo trae profitti dal controllo scientifico-economico e dalla mercificazione di tutto il vivente. Questi settori post-antropocentrici si uniformano al fine di confondere le linee qualitative di demarcazione, non solo tra categorie distinte (maschile/femminile, nero/bianco, uomo/animale; morto/vivo; centro/margine ecc.), ma anche all’interno di ciascuna di esse. L’uomo stesso si ritrova integrato in reti globali di controllo e mercificazione, che ritengono la “vita” obiettivo principale. La rappresentazione generica dell’umano è di conseguenza in grave difficoltà.

La dimensione postumana del post-antropocentrismo può quindi essere letta come un gesto decostruttivo. Ad essere descostruita è la supremazia della specie, ma a subire un duro colpo è ogni nozione persistente di natura umana, di anthropos e bios, come categoricamente distinti dalla vita di animali e non-umani, ovvero da zoe. A venire in primo piano, invece, è il continuum natura/cultura nella struttura incarnata della soggettività estesa. Questo cambiamento può essere interpretato come una sorta di “esodo antropologico”, una fuga dalla concezione dominante di uomo come signore incontrastato del creato (Hardt e Negri 2002, 206) – una colossale ibridazione della specie.

Una volta sfidata la centralità di anthropos, un certo numero di confini tra l’“uomo” e “gli altri da sé” cominciano a cadere, con un effetto a cascata che apre prospettive inaspettate. La crisi di anthropos spiana la strada all’irruzione delle forze demoniache degli altri naturalizzati, che finora erano state tenute a debita distanza. Animali, insetti, piante e ambiente, addirittura pianeta e cosmo nel suo insieme vengono ora chiamati in gioco. Questo pone un diverso carico di responsabilità sulla nostra specie, che è la causa principale del disastro ecologico. Il fatto che la nostra era geologica sia conosciuta come antropocene[1] evidenzia allo stesso tempo la potenza tecnologicamente mediata acquisita da anthropos e le sue conseguenze potenzialmente letali per tutti gli altri.

Inoltre, la trasposizione degli altri naturalizzati pone una serie di complicazioni concettuali e metodologiche legate alla critica dell’antropocentrismo. Ciò è dovuto al fatto pratico che, in qualità di entità incarnate, siamo tutti parte della natura, anche se la filosofia accademica continua a cercare fondamenti trascendentali per la coscienza umana. Come conciliare questa consapevolezza materialistica, questo naturalismo strategico con le esigenze del pensiero critico?

Materialismo vitalista, la teoria nomade postumana contesta l’arroganza dell’antropocentrismo e l’“eccezionalismo” dell’umano in quanto categoria trascendentale. Esso sancisce piuttosto un’alleanza con la forza generativa e immanente di zoe, ovvero la vita nei suoi aspetti non umani. Ciò richiede un cambiamento del nostro comune concetto di pensiero in sé, figuriamoci del pensiero critico. È urgente imparare a pensare in modo diverso su ciò che siamo in procinto di divenire.

Cosmopolitismo negativo

I paradossi che strutturano la situazione post-umana sono: il crollo della distinzione tra natura e cultura, l’ascesa di un post-antropocentrismo opportunistico, la pan-umanità elettronicamente collegata in cui però si annidano l’intolleranza e la violenza xenofoba. Piante geneticamente ricombinate, animali e vegetali proliferano a fianco di computer e di altri virus, mentre veicoli senza pilota ci mettono, in cielo e in terra, di fronte a nuovi modi di morire. Il solo paradosso rilevante ad emergere come reazione difensiva nei confronti di questa economia politica perversa è una ricomposizione negativa dell’umanità in qualità di categoria vulnerabile.

L’umanità viene ricreata come specie minacciata – una sorta di ultima spiaggia – tenuta insieme dalla vulnerabilità condivisa e dallo spettro dell’estinzione, descritta come colpita da nuove e vecchie epidemie, da “nuove” guerre senza fine, affranta dai campi di detenzione e dall’esodo dei rifugiati. Gli appelli per le nuove forme di relazioni cosmopolite o per l’ethos globale si tengono in equilibrio tra la realtà delle guerre permanenti e gli atti di genocidio su scala globale.

Questa sorta di interconnessione cosmopolita in senso negativo, pertanto, si articola intorno a un legame di paura panumano. La mole dei recenti studi sulla crisi ambientale e il cambiamento climatico basterebbe da sola a testimoniare lo stato attuale di emergenza, nonché l’assunzione della Terra a fattore di importanza politica.

La retorica ammonitrice del post antropocentrismo è oggi particolarmente fiorente nella cultura popolare. Essa è stata criticata (Smelik e Lykke 2008) in quanto tendenza negativa, che rappresenta le trasformazioni nelle relazioni tra gli esseri umani e gli apparecchi tecnologici o le macchine tramite lo stile dell’orrore neo-gotico. La letteratura e il cinema sull’estinzione della nostra e di altre specie, tra cui i film catastrofici, costituiscono un genere di largo successo, che gode di ampio richiamo popolare.

Ho definito questo immaginario sociale, ridotto e negativo, come tecno-teratologico (Braidotti 2003), cioè come oggetto di ammirazione culturale e aberrazione. Il riflesso distopico della struttura bio-genetica del capitalismo contemporaneo è fondamentale per spiegare la popolarità di questo genere.

Le teorie sociali e politiche sono state colpite da panico cognitivo e morale di fronte alla prospettiva di una grave minaccia per il futuro umano. Nei dibattiti pubblici tradizionali il postumano è solitamente accompagnato dall’ansia per gli eccessi dell’intervento tecnico e per la minaccia del cambiamento climatico, o dall’euforia suscitata dal potenziale trans-umanista per il miglioramento umano.

Nella cultura accademica, d’altra parte, la critica dell’antropocentrismo ha implicazioni ancora più sorprendenti. La svolta post-antropocentrica, legata agli impatti aggravati della globalizzazione e delle forme di mediazione guidate tecnologicamente, colpisce l’essere umano nel suo nocciolo e provoca il cedimento dei parametri utilizzati per definire l’anthropos. La domanda chiave diventa: quali concezioni della soggettività contemporanea e dei processi di soggettivazione sono attivati dall’approccio post-antropocentrico? Che cosa c’è oltre il soggetto antropocentrico? Importanti pensatori liberali come Habermas (2003), influenti come Fukuyama (2002), sono molto attenti a questo tema, come si dimostrano essere anche i critici sociali Sloterdijk (2009) e Borradori (2003). In modo diverso, esprimono profonda preoccupazione per lo statuto della persona umana e sembrano particolarmente attenti alla metamorfosi del postumano, per la quale indicano come responsabili le nuove tecnologie avanzate.

Se è vero che la capitalizzazione della materia vivente, processo che Melinda Cooper chiama “la vita come plusvalore”, costituisce la base degli investimenti e delle forze di mercato neoliberiste, ne consegue che essa innova sia gli obiettivi che il mezzo del potere biopolitico. Questo processo di capitalizzazione della materia vivente introduce tecniche politiche discorsivo-materiali di controllo della popolazione di un ordine molto diverso da quello della demografia, che occupa ampio spazio nell’opera di Foucault sulla governamentalità biopolitica. Gli avvertimenti sono ora globali. Oggi noi stiamo conducendo le ‘analisi del rischio’ non solo su interi sistemi sociali e nazionali, ma anche su interi settori della popolazione nella società mondiale del pericolo (Beck 1999). Il vero capitale oggi sono le banche dati di informazioni bio-genetiche, neuronali e mediatiche sugli individui, come il successo di Facebook dimostra ad un livello più banale. Il “data-mining” comprende profili pratici che identificano diverse tipologie e caratteristiche e li mette in evidenza come obiettivi strategici specifici per gli investimenti di capitale. Questo tipo di analisi predittiva si applica anche alle tecniche di “life-mining[2]”, i cui criteri di selezione fondamentali sono visibilità, prevedibilità e esportabilità.

Patricia Clough segue una linea simile nella sua analisi sulla “svolta affettiva” (2008). Nel momento in cui il capitalismo avanzato riduce i corpi alla loro superficie informativa espressa in termini di risorse energetiche, esso livella altre differenze categoriche. Ciò che costituisce il valore del capitale nel nostro sistema sociale è l’accumulo di informazioni in sé, l’immanente qualità della vita, la sua capacità di auto-organizzazione, estratta attraverso le tecniche impiegate dal “capitalismo cognitivo” (cfr. Moulier-Butang 2012) per testare e monitorare le capacità affettive dei corpi “bio-mediati”: la prova del dna, le impronte digitali del cervello, l’imaging neuronale, la rilevazione del calore corporeo e il riconoscimento virtuale dell’iride o della mano. Tutte queste tecnologie sono immediatamente rese operative come dispositivi di sorveglianza, sia nella società civile che nella guerra contro il terrorismo: una governamentalità necro-politica che convive felicemente con la gestione della vita stessa.

Politica postumana ed etica nomade

Ho definito questo insieme di contraddizioni: “la situazione postumana”. Essendo criticamente consapevole delle insidie e dei pericoli politici di una tale posizione, come post-strutturalista dai risaputi sentimenti anti-umanisti, sono tanto poco incline a farmi prendere dal panico di fronte alla prospettiva di uno slittamento della centralità della persona umana, quanto capace di vedere i vantaggi di una tale evoluzione. Ritengo l’opera di Melinda Cooper un forte incoraggiamento a sviluppare una analisi politica di questa condizione.

Concordo con Cooper nel sostenere che non c’è libertà possibile nel capitalismo perché l’assioma del denaro e del profitto non conosce limiti. Un sistema che funziona in modo assiomatico, come ha sottolineato Toscano (2005), rifiuta di fornire le definizioni dei termini con cui lavora. Gli assiomi semplicemente non necessitano di essere spiegati così come le loro condizioni di relazione non necessitano di essere definite, i loro oggetti vengono trattati come puramente funzionali. Essendo fondamentalmente privi di senso, i flussi decodificati del capitalismo sono soltanto modalità operative di regolazione. Essi operano svuotando il loro significato specifico nel loro contesto codificato e quindi de-codificando loro stessi (Protevi 2009), trasformano l’attività in lavoro, i territori in proprietà e il plusvalore in profitto. Essi riescono inoltre ad attecchire in ogni tipo di organizzazione sociale – nelle piantagioni degli schiavi così come nelle fabbriche – e in strutture statali differenti – il socialismo cinese e le democrazie liberali. Come tali, gli assiomi del capitalismo sono estremamente adattabili, capaci di grandi variazioni interne, mezzi di approvvigionamento di ogni sorta di perverso opportunismo. Tale flessibilità e praticabilità multipla concorre a costituire un formidabile apparato di dominio e di cattura.

Di conseguenza, il capitalismo avanzato non raggiunge mai l’assoluta de-territorializzazione e produce sempre soggezione sociale. La teoria critica nomade sostituisce il modello assiomatico con il processo diagrammatico del divenire schizofrenico, che favorisce i flussi senza prevedere l’inserimento degli assiomi. Questa teoria si concentra sulla analisi dei modi in cui il capitalismo assiomatizza e cattura la soggettività al fine di sottoporla agli imperativi del plusvalore. La prassi politica relativa si dedica pertanto alla costituzione di modelli alternativi di soggettività. In tale ottica, ho sostenuto la necessità di attuare un programma sociale di assemblaggi collettivi intensivi o di reti trasversali tra soggettività nomadi. Melinda Cooper offre un altro importante modello di teoria critica che ci aiuta a rimanere tecnofile e a schierarci con decisione a favore del potenziale liberatorio, e trasgressivo, di queste tecnologie, contro coloro che tentano di richiuderle all’interno di un prevedibile schema conservatore, o di ridurle ad un sistema orientato al profitto che favorisce e nutre l’individualismo. Credo che uno dei paradossi più taglienti della nostra epoca sia proprio la tensione tra, da un lato, l’urgenza di trovare nuove e alternative modalità di azione politica ed etica per il nostro mondo tecnologicamente mediato e, dall’altro, l’inerzia di abitudini mentali sancite dalla tradizione. Donna Haraway lo intuisce con il suo consueto acume: le macchine sono così vive, mentre gli esseri umani sono così inerti! (Haraway 1995).

Il mantra moralizzatore

Uno degli effetti più problematici di questa ricomposizione negativa della categoria di umanità descritta come perennemente in pericolo, è la rinnovata intrusione del discorso morale nel dibattito pubblico. L’istintivo, e talvolta viscerale, appello ai valori dell’umanesimo adempie a uno scopo doppiamente subdolo: esso mette in ombra i rapporti di potere spietati che sostengono questo sistema e moralizza il discorso ideologico del neoliberismo. Trovare nuovi modi per resistere a questo ipocrita appello alle norme e ai valori umanistici rappresenta per me una vera e propria priorità.

Ma quale linguaggio critico e quale metodologia possiamo utilizzare per questo scopo? Tra tutti i paradossi del capitalismo bio-genetico, la malinconia è un valore vincente. Hal Foster (1996) descrive le nostre politiche culturali schizoidi in termini di “realismo traumatico” – l’ossessione per le ferite, il dolore e la sofferenza, in combinazione con la voglia irresistibile di visualizzarli in pubblico. Si moltiplicano i panopticons medici che producono la pato-grafia globale (Seltzer 1997): si va in televisione ai talk-show per trasformare in uno spettacolo pubblico il nostro dolore. Questa è quasi una conferma parodica della diagnosi di Michel Foucault circa l’impoverimento sessuale ed emotivo del mondo occidentale. Nel primo volume della sua Storia della sessualità, Foucault analizza i paradossi della cultura occidentale che verbalizza e visualizza al massimo delle sue capacità il sesso, ma solo tramite l’affermazione che si è sessualmente oppressi, emotivamente e culturalmente miserabili e frustrati. Urliamo il nostro dolore con tutta la nostra voce e rivendichiamo pubblicamente il diritto di essere liberati dalle catene invisibili della nostra repressione. Il programma politico di Foucault parte da questa premessa ironica per arrivare a una critica a tutto tondo della teoria e della pratica della liberazione.

La questione cruciale diviene dunque la scelta dei concetti con cui orientare un’etica e una posizione politica adatte alla complessità perversa dei nostri tempi. È in quest’orizzonte di pensiero che voglio difendere la politica affermativa. La vita, lungi dall’essere codificata come esclusiva proprietà o diritto inalienabile della specie umana su tutte le altre, lungi dall’essere sacralizzata come dato prestabilito, si pone come processo interattivo e senza fine. Questo approccio vitalistico alla materia vivente sposta il confine tra la porzione di vita – sia organica e discorsiva – che è stata tradizionalmente riservata a anthropos, cioè al bios, e il campo di applicazione più ampio della vita animale e non umana, nota anche come zoe. Zoe in quanto vita a struttura dinamica, capace di autogestione, (Braidotti 2011) è sinonimo di vitalità generativa. È la forza trasversale che attraversa e riconnette specie precedentemente separate, categorie e domini prima non comunicanti. L’egualitarismo zoo-centrato è, per me, il nocciolo della svolta post-antropocentrica: essa è la risposta materialista, laica, pragmatica, all’opportunistica, e trans-specie, mercificazione delle forme di vita che è la logica del capitalismo bio-genetico.

Questa posizione affermativa richiede forme alternative delle sperimentazioni con altre forme di “soggettivita”, a scopo di no-profit, tramite relazioni incarnate ed affettive. La teoria post-umana del soggetto politico emerge quindi come progetto empirico che mira a sperimentare ciò che i corpi contemporanei, bio-tecnologicamente mediati, sono capaci di fare e diventare. Questi esperimenti no-profit delle soggettività contemporanee attualizzano le possibilità virtuali del sé relazionale esteso, che opera nel continuum natura-cultura ed è tecnologicamente mediato. Essi militano contro la logica del profitto e dell’avidità e sollevano il coperchio su promesse di mobilità senza limiti.

Non sorprende che questo approccio sperimentale no-profit alle diverse pratiche di soggettivazione sia in aperto dissenso contro lo spirito del capitalismo contemporaneo. Sotto la copertura dell’individualismo, alimentato dall’insieme quantitativo delle scelte di consumo, il sistema promuove efficacemente l’uniformità e il conformismo all’ideologia dominante. La perversione del capitalismo avanzato, e il suo innegabile successo, consiste nel ricollegare nuovamente il potenziale per la sperimentazione all’ultrainflazionato discorso dell’individualismo possessivo (MacPherson 1962), legato al principio del profitto. E questo è esattamente il senso opposto a quello delle sperimentazioni intensive no-profit, che difendo nella mia teoria sulla soggettività politica postumana.

Permettetemi di riprendere l’argomento dell’idea del soggetto politico. La diffusione di una nuova idea di umanità connotata negativamente come specie in via di estinzione è attualmente celebrata da pensatori che verrebbe da definire analiticamente post-antropocentrici ma normativamente neo-umanisti. Si passa dagli attivisti per i diritti degli animali (Singer 1975 ) alle eco-femministe (Shiva 1997), attraverso il nuovo primatologismo (de Waal 2006) e gli studi sulla tecnologia (Verbeek 2011). Tutti questi pensatori trattano la questione della “vita come plusvalore”, o la crisi ambientale, come prova della necessità di reintegrare i valori umanistici universali. Non ho veri e propri motivi di dissentire rispetto all’aspirazione morale che guida questo processo e condivido lo stesso desiderio etico. Sono, però, seriamente preoccupata per i limiti di una riaffermazione acritica dell’umanesimo, in quanto esso può rappresentare un fattore vincolante alla nozione reattiva implicita in quella di legame pan-umano. Voglio sottolineare che la consapevolezza dell’ennesima ricostruzione, connotata negativamente, di quel qualcosa che noi chiamiamo “umanità”, non dovrebbe condurre di nuovo all’appiattimento o alla rimozione di tutti i differenziali di potere, che ancora sono emanati e resi efficaci dagli assi di sessualizzazione/razzializzazione/naturalizzazione, sebbene rimescolati dalla forza centrifuga delle tecnologie avanzate, del capitalismo bio-genetico.

La teoria critica oggi ha bisogno di pensare simultaneamente alle sfumature presenti tra le differenze categoriche e alla loro riaffermazione in nuove forme di economia politica bio-mediata e di biopolitica, con modelli ormai familiari di esclusione e di dominazione. Per esempio, nella sua analisi dei doppi limiti dell’Umanesimo classico e della teoria post marxista, Dipesh Chakrabarty solleva una questione molto pertinente a riguardo: se si considera la differenza della produzione di carta carbonio tra le nazioni più ricche e quelle più povere, è davvero giusto parlare della crisi del cambiamento climatico come di una comune preoccupazione ‘umana’? Mi spingo ancora oltre e chiedo: non è forse azzardato accettare la costituzione in senso negativo di una formazione dell’umanità, in qualità di categoria che si estende a tutti gli esseri umani, in deroga a tutte le altre differenze? E se queste differenze esistono e continuano a contare, cosa ce ne facciamo di loro?

La questione delle differenze ci riporta al potere e alla politica della collocazione (Rich 1984). La necessità di una teoria etico-politica della soggettività, risponde all’esigenza di capire chi è esattamente il “noi” di questa pan-umanità bloccata dalla paura della minaccia comune. Chakrabarty scrive lucidamente (2009, 222): “Le altre specie potrebbero costituire una chiave di ingresso, per gli esseri umani, in una nuova storia universale, necessità che è evidenziata dal pericolo del cambiamento climatico”. Infine, direi che i teorici critici avrebbero bisogno di trovare un argomento rigoroso e coerente per resistere alla neutralizzazione delle differenze, fenomeno indotto dalla materialità perversa e dalla mobilità tendenziosa del capitalismo avanzato.

Lo standard, ritenuto universale, di “Uomo” è stato ampiamente criticato dalle femministe, dai teorici della razza e da quelli postcoloniali proprio per la sua parzialità. Questo “Uomo” universale, infatti, rappresenta implicitamente ogni maschio, bianco, urbanizzato, parlante un linguaggio standard, eterosessuale inscritto nell’unità riproduttiva base, cittadino a pieno di una comunità politica riconosciuta (Irigaray 1985; Deleuze e Guattari 1987). Si può ottenere qualcosa di meno rappresentativo? Come se questa linea argomentativa non bastasse, questo ‘uomo’ è anche chiamato a compiti e riportato alla sua particolarità di specie come anthropos (Rabinow 2003; Esposito 2004), vale a dire come rappresentante egemonico di una struttura gerarchica, di una specie violenta la cui centralità è ora messa in discussione dal coincidere dei progressi scientifici e delle evoluzioni dell’economia globale.

Il motivo per cui io sono abbastanza scettica rispetto a questo neo-umanesimo post-antropocentrico, però, è che esso mi sembra piuttosto acritico nei confronti dell’Umanesimo stesso. Per esempio, gli sforzi di compensazione a favore dei diritti degli animali generano quella che io considero una specie tardiva di solidarietà tra gli abitanti umani di questo pianeta, attualmente traumatizzati dalla globalizzazione, dalla tecnologia e dalle “nuove” guerre, e gli “altri” animali. Ammetto che esso è un fenomeno ambivalente, in quanto unisce al desiderio trans-specie di legami con il non-umano, le pretese morali umaniste classiche e piuttosto infarcite di buoni sentimenti. In questo abbraccio trans-specie, l’Umanesimo è in realtà ripristinato in modo acritico sotto l’egida dell’egualitarismo delle specie.

Io preferisco adottare la metodologia materialista che contempla l’analisi dei rapporti di potere. Mi piace affermare decisamente che non dobbiamo lasciare da parte il riconoscimento critico dei difetti dell’Umanesimo. Credo, inoltre, che in un momento di profonda crisi epistemologica, etica e politica, l’estensione dei privilegi legati ai valori umanisti alle altre categorie difficilmente sarebbe considerata come una mossa generosa e disinteressata, più facilmente come un tentativo di rendere produttiva tale inclusione. Sostenere il legame vitale tra gli esseri umani e le altre specie è non solo necessario ma anche utile. Ritengo questo legame negativo in quanto effetto della vulnerabilità condivisa, che è essa stessa una conseguenza delle azioni umane sull’ambiente. È forse questo il momento in cui gli umani estendono ai non-umani la loro continua ansia per il futuro? Il prezzo da pagare è l’umanizzazione degli animali non umani, soprattutto nel momento storico in cui la stessa categoria dell’“umano” è esposta a critiche.

Antropomorfizzare in modo da estendere agli animali il principio di uguaglianza morale e giuridica può essere un gesto nobile, ma è intrinsecamente imperfetto, almeno per due motivi. In primo luogo, essa conferma il sistema binario di distinzione tra uomo/animale, imponendo, anche se per un buon fine, la categoria egemonica dell’umano agli altri. In secondo luogo, essa nega del tutto le specificità degli animali, perché li tratta in modo uniforme come simboli del valore trans-specie, tramite lo stesso e universale sentimento di empatia. A mio avviso, il punto sulle relazioni postumane, tuttavia, è quello di comprendere l’interrelazione tra umano e animale come costitutiva della identità di ciascuno. È un rapporto di trasformazione o di simbiosi che si ibrida e altera la “natura” di ciascuno per porre in primo piano i motivi centrali della loro interazione. Questo è il milieu del continuum umano/non umano, esso ha bisogno di essere esplorato come fosse un esperimento aperto, non come una deduzione morale scontata di valori presunti universali. La terra di mezzo di quella particolare interazione deve rimanere normativamente neutrale, al fine di consentire ai nuovi parametri di emergere per il divenire-animale di anthropos, un argomento di cui troppo a lungo si è taciuto a causa del pregiudizio della supremazia della specie. Occorre aprire nuovi spazi intensivi di divenire e, cosa ancora più importante, occorre vigilare affinché tali spazi rimangano aperti.

Vorrei proporre di sviluppare il potenziale affermativo della condizione postumana, nella misura in cui tale condizione apre prospettive per trasformazioni positive sia della soggettività che della produzione di teoria e di conoscenza. Per questo, ci occorre più creatività concettuale. In un’epoca in cui la filiazione naturale è sostituitia dai marchi aziendali e dai bio-prodotti brevettati, gli imperativi etici di creare legami transpecie e di essere responsabili per il benessere degli “altri” rimangono forti come sempre. Abbiamo bisogno di nuove genealogie, rappresentazioni alternative, teoriche e giuridiche, del nuovo sistema di parentela, di narrazioni all’altezza di questa sfida. L’universo che mi trovo a vivere come soggetto post-industriale del cosiddetto capitalismo avanzato, è caratterizzato da una buona dose di familiarità e da molti punti in comune tra le diverse collocazioni incarnate, tra gli esseri umani di sesso femminile, i topi usati come cavie e la pecora clonata Dolly. Io sono in debito allo stesso tempo verso i membri geneticamente modificati dell’ex regno animale, che verso gli ideali umanistici della unicità della mia specie. Allo stesso modo, la mia posizione situata di femmina della specie mi rende strutturalmente più vicina agli organismi da cui preleviamo organi e cellule senza il loro consenso, che a qualsiasi nozione di inviolabilità e di integrità della specie umana.

In contrasto alla tendenza nostalgica tanto dominante nella politica contemporanea, ma anche in contrasto alla malinconia, dalla parte della sinistra progressista (Derrida 2001; Butler 2004; Gilroy 2005), vorrei pertanto sostenere che l’enfasi postumana sulla vita intesa come zoe è in grado di generare politiche affermative.

La teoria politica nomade del postumano evidenzia gli aspetti produttivi della condizione del non-uno, cioè sostiene una nozione generativa della complessità. All’inizio, c’è sempre già una relazione affettiva, un’entità interattiva dotata di carne intelligente e mente incarnata: relazionalità ontologica. Una politica materialista di differenze postumane opera attraverso dei divenire potenziali che richiedono attualizzazione.

Essi si compiono attraverso pratiche collettivamente condivise, a base comunitaria, e si rivelano fondamentali per sostenere il processo vitalista, non unitario e tuttavia responsabile della ricomposizione di un popolo oggi assente. Questo è il “noi”, dal potenziale affermativo, che viene evocato e concretizzato dalla creazione post-antropocentrica di una pan-umanità nuova. Esso esprime la dimensione etica del divenire postumano come gesto collettivo di auto-determinazione. Si concretizza così una comunità che non è tenuta insieme negativamente dalla vulnerabilità condivisa, dalla colpevolezza dell’ancestrale violenza comune, o dalla malinconia di impagabili debiti ontologici, ma piuttosto dal riconoscimento empatico della interdipendenza reciproca con i molteplici altri, la maggior parte dei quali, nell’era definita dell’Antropocene, sono semplicemente non antropomorfi.

La parte etica del progetto riguarda la creazione di nuove reti sociali e nuove forme di connessione relazionale con questi tecno-altri. Quali tipi di responsabilità si possono agire all’interno del continuum natura/cultura, verso gli organismi tecnologicamente modificati, e come possono essere sostenuti? La parentela e la responsabilità etica devono essere ridefinite in modo da ripensare tali legami non solo nei riguardi dei non-antropomorfi “altri organici”, ma anche verso gli “altri tecnologicamente modificati”, creature appena brevettate con cui condividiamo il pianeta. Interpreto la mutazione postumana come una straordinaria opportunità per decidere insieme cosa e chi siamo capaci di divenire e una possibilità unica per l’umanità di reinventare se stessa in senso affermativo, attraverso la creatività e il potenziamento delle relazioni etiche, non in senso negativo, non mediante vulnerabilità e paura. In gioco vi è la possibilità di riconoscere i momenti opportuni per la resistenza e la responsabilizzazione su scala planetaria.



[1] Il termine fu coniato dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen nel 2002. Il suo uso è ampiamente diffuso e condiviso.

[2] Per questa particolare espressione ringrazio Jose van Dijck.