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Economia dell’affetto/economia affettiva: verso una critica spinozista dell’economia politica

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di JASON READ

Antonio Negri sostiene che “… nell’era post-industriale la critica spinoziana della rappresentazione del potere capitalistico corrisponde più alla verità di quanto non faccia l’analisi dell’economia politica”. Molti dei ritorni contemporanei a Spinoza nel pensiero marxista hanno seguito questa traiettoria, allontanamento dalla critica dell’economia politica verso critiche dell’ideologia o, nel caso di Negri, della rappresentazione del potere. Questo forse non è sorprendente, è più facile fare collegamenti tra la critica di Spinoza della superstizione e le teorie dell’ideologia che rispetto alla sua comprensione dei desideri e della voglia di consumo con la produzione. Tanto Spinoza ha offerto una critica tagliente dell’ideologia religiosa, monarchica, e anche umanista del suo tempo, quanto ha avuto poco da dire, almeno direttamente, sul capitalismo emergente. Il denaro è menzionato solo una volta nell’Etica, dove viene definito come l’oggetto del desiderio universale che “occupa la mente della moltitudine più di qualsiasi altra cosa” (E, IV, APP. XXVIII). Mentre una tale affermazione si interseca con le critiche dell’avidità e la trasformazione capitalistica del desiderio, resta parziale e incidentale per lo sviluppo di una critica dell’economia politica spinoziana.

Frédéric Lordon ha sostenuto che il punto di intersezione tra il pensiero di Spinoza e di Marx non si trova nel rileggere la superstizione come ideologia, e nemmeno nell’affermazione isolata della dimensione affettiva del denaro. È  da ricercarsi invece in una più profonda intersezione tra la soggettività e l’economia. Come Lordon sostiene la teoria del conatus di Spinoza, del conatus che definisce ogni cosa, è il punto di connessione tra una ontologia o antropologia spinoziana e una critica marxista dell’economia politica. Questa non è la connessione sostenuta in alcune appropriazioni di destra di Spinoza, o in alcuni rifiuti di sinistra del suo pensiero, che vedono nel conatus l’affermazione del proprio interesse che sottende tutte le azioni umane. Il conatus di Spinoza non è la massimizzazione dell’utilità individuale dell’economia contemporanea. Come sostiene Lordon, il conatus si sforza, ma quello per cui si sforza, gli oggetti che ritiene opportuni e le relazioni da esso attuate, sono a loro volta determinati dalla sua capacità di essere colpito. Questo fondamentale postulato ontologico e antropologico ha come suo corollario una teoria sociale in cui ogni modo di produzione deve essere considerato come un particolare problema di “co-linearizzazione”, una particolare articolazione del suo conatus con il conatus degli individui che lo compongono.

Un’introduzione a quella che Lordon chiama “co-linearizzazione” si trova nella teoria marxiana dell’accumulazione originaria, una teoria che tratta molto della trasformazione della soggettività delle abitudini e delle idee come della trasformazione economica.[i] Marx ha definito la fase iniziale del capitalismo come segue, “il progresso della produzione capitalistica sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione e abitudine  guarda alle esigenze di quel modo di produzione come leggi naturali auto-evidenti”.[ii] Questo adattamento, il riorientamento del conatus, avviene, almeno in un primo momento, sulla base di una riorganizzazione del desiderio basilare per la sopravvivenza, per il perseverare nel proprio essere. Anche questo desiderio, un desiderio che non è altro che l’autoconservazione, deve essere inteso come strutturato. Il concetto di Spinoza di conatus è libero da ogni naturalismo, da qualsiasi riduzione del conatus a lotta per la vita. È proprio a causa della mancanza di ogni teleologia del conatus che lo sforzo è per nient’altro che ciò da cui è determinato a sforzarsi, che è al tempo stesso singolare e relazionale.[iii] La base relazionale del conatus include, nell’interpretazione di Lordon, non solo immediatamente gli altri presenti e la loro composizione affettiva, ma il conatus passato che  struttura e determina le istituzioni.[iv] Per quanto il desiderio immediato per la sopravvivenza, il bisogno di cibo e riparo, è alla base del lavoro salariato, questo “immediato” sforzo deve essere allontanato da altri mezzi di sopravvivenza, dalla sua connessione con altre forme preesistenti di sopravvivenza o  dal semplice atto di prendere quello che si vuole. La descrizione di Marx dell’“accumulazione originaria” non è solo la distruzione di eventuali commons e l’accumulo di ricchezza, ma è anche la distruzione dell’idea stessa di un’esistenza non basata sulla merce e la forma salario. Si tratta di una accumulazione originaria del conatus.[v] La storia di ogni istituzione, di ogni pratica, è la distruzione di certe modalità di conatus e la creazione, o canalizzazione, di altre forme. La natura non crea né le nazioni, né le economie. Nessun ordine sociale si basa su un qualche conatus naturale o meglio ogni ordine sociale, la differenza sta nel modo in cui è articolato il conatus, i suoi oggetti e le sue attività.

Se il capitalismo ha come caratteristica che lo definisce la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, allora questa separazione altera radicalmente l’immediatezza del bisogno e del desiderio. La fame può portare la gente a lavorare, ma il lavoro sarà sempre fuori sincronia rispetto all’immediatezza di quel desiderio.[vi] Lordon sostiene che la trasformazione fondamentale necessaria per portare la composizione affettiva di Spinoza nel presente è la separazione fondamentale tra il conatus, l’attività  e il suo oggetto. Questa separazione dai mezzi di produzione è meno una perdita fondamentale, come lo è nelle teorie dell’alienazione, di quanto sia una trasformazione fondamentale dell’attività, di cosa vuol dire impegnarsi nell’auto-conservazione o nel lavoro. C’è un disinteresse per l’attività stessa, gli obiettivi di ogni particolare attività sono spogliati del loro significato, dei loro particolari orientamenti di bene e male, perfetto e imperfetto. Per quanto potremmo affettivamente attaccarci a un particolare lavoro, a qualsiasi compito particolare, sviluppando il nostro potenziale e le nostre relazioni, diventando causa della nostra gioia, questo è secondario rispetto al desiderio e alla necessità di denaro. Il lavoro concreto è subordinato al lavoro astratto. Vi è quindi una incrinatura affettiva al centro del processo lavorativo, tra il possibile amore per la mia attività, le sue gioie concrete, ed i suoi risultati, la sua capacità di scambio astratta. Quella che potremmo chiamare la composizione affettiva del lavoro è come, in un dato momento nel tempo, questi due aspetti sono valutati o svalutati, quanta gioia viene ricercata nell’attività del lavoro stesso, o quanta ne è richiesta nei termini dell’accumulazione che esso rende possibile. Questa variazione tra attività e oggetto è complicata, al contempo causa ed effetto, dai mutati rapporti di speranza e di paura in un dato momento storico.

Lordon offre uno schizzo di questa storia della composizione affettiva del lavoro, formulata nei termini di tre periodi, in primo luogo il periodo corrispondente all’accumulazione originaria e l’avvento della sussunzione formale, seguita dal fordismo e infine dal neoliberalismo. Nel primo periodo di accumulazione originaria del conatus, la semplice mancanza di una alternativa  è sufficiente, il conatus è determinato dalla paura di morire di fame. Come scrive Marx il modo di produzione capitalistico dipende in parte dal fatto che “il lavoratore si batte per l’auto- conservazione e la riproduzione”.[vii] Al suo livello più fondamentale, tutto quello che il capitalismo deve fare è distruggere eventuali alternative, ridurre i commons, e attuare un giro di vite su coloro che si sforzano di realizzare la loro esistenza al di fuori del lavoro salariato. Il secondo periodo, il fordismo, è definito da trasformazioni che si intersecano: la separazione dell’attività da qualsiasi gioia intrinseca e l’investimento affettivo nel consumo. Il lavoro è semplificato e frammentato, spogliato dei piaceri e della competenza. Questo è il lavoro della catena di montaggio. Allo stesso tempo la sfera del consumo è espansa. Il famoso “cinque dollari al giorno” di Ford aumenta la capacità di spesa e di consumo.[viii] La composizione affettiva del fordismo potrebbe essere descritta  come una riorganizzazione fondamentale del conatus, via dal lavoro, dall’attività e verso il consumo. L’attività del lavoratore è frammentata, parte di un tutto che lo supera, divenendo più passività che attività. La tristezza del lavoro, il suo sfinimento, è compensata con le gioie del consumo. Questa trasformazione da un investimento affettivo nel lavoro a un investimento affettivo nei consumi potrebbe anche essere descritta come un passaggio dalla gioia attiva, la gioia per la propria capacità di agire e la trasformazione dell’azione, alla gioia passiva. Gli affetti gioiosi  passivi sono quelli che aumentano il nostro potere di agire, pur rimanendo al di fuori del nostro controllo. I piaceri del consumo, del consumismo, possono essere intesi come gioie passive, promettono un certo aumento del nostro potere, delle nostre gioie e aspirazioni, ma ciò che non possono mai dare, ciò che non può essere venduto è la capacità stessa di produrre attivamente nuovi piaceri.

Il compromesso fordista può quindi essere distinto da articolazioni di affetti successive, quella postfordista e quella neoliberale, trasformazioni che possono anche essere descritte attraverso una trasformazione del lavoro e del consumo. In generale, queste trasformazioni possono inizialmente essere descritte con lo smantellamento della sicurezza e della stabilità del lavoro. Il compromesso fordista portava con sé una dimensione di stabilità, determinata dalla contrattazione collettiva e dalla centralità del contratto.[ix] Il neoliberalismo come viene definito da Lordon,  è in primo luogo e prima di tutto una trasformazione delle norme e delle strutture che organizzano e strutturano l’azione. Come tale è fondamentalmente asimmetrico, i lavoratori sono esposti a sempre più rischi, mentre i capitalisti, in particolare quelli addetti al capitale finanziario, sono liberati dai classici rischi di investimento.[x] Questa perdita di sicurezza per il lavoratore cambia radicalmente la dimensione affettiva del denaro. Non è più un oggetto di speranza, il possibile mezzo per realizzare i propri desideri, ma diventa ciò che scongiura la paura. Il denaro diventa parte del desiderio di sicurezza, l’unica sicurezza possibile: le proprie capacità, le proprie azioni, non avranno alcun valore in futuro, ma il denaro ne avrà sempre.[xi] Si potrebbe intendere questo passaggio dal fordismo al neoliberalismo come un passaggio da un regime di speranza (venato di paura) ad un regime di paura (venato di speranza). La speranza e la paura non possono essere separate, ma questo non significa che una data composizione affettiva non è definita più da uno che dall’altro. Così, si potrebbe sostenere che la precarietà è meglio compresa come concetto affettivo. È meno una questione di qualche cambiamento oggettivo nello status della sicurezza: è più un cambiamento nel modo in cui il lavoro e la sicurezza sono percepiti.[xii] Se la precarietà può essere usata per descrivere adeguatamente la vita economica contemporanea è meno perché ognuno sta lavorando sotto un tipo di contratto a tempo determinato o part-time, anche se questi sono diventati importanti, ma è più a causa di un costante senso di insicurezza che pervade ogni situazione di lavoro.[xiii] La precarietà colpisce persino l’occupazione stabile attraverso la sua trasformazione tecnologica, è sempre possibile lavorare o per lo meno essere in contatto con il lavoro, e un’ansia generalizzata si instilla in tutto il lavoro, via via che  misure più indirette di produttività sostituiscono la produttività della catena di montaggio.[xiv] L’indiretto, frammentato e immateriale lavoro dei servizi, il management della conoscenza e il lavoro emozionale sono meno soggetti alla quantificazione diretta, alla misura di unità prodotte, e sono quindi soggetti a revisione e valutazione. L’insicurezza generalizzata, il contatto costante e l’incertezza della valutazione definiscono l’economia neoliberale della paura.

Il passaggio dal fordismo al neoliberalismo non può essere descritto solo come il passaggio dalla speranza alla paura, da un desiderio di denaro sul terreno in espansione di una buona vita a un desiderio basato sulla precarietà del futuro. Si tratta di una composizione affettiva fondamentalmente diversa, che trasforma il rapporto col lavoro quanto quello col denaro. Come Luc Boltanski e Eve Chiapello sostengono ne Le nouvel esprit du capitalism, uno degli aspetti centrali del neoliberalismo, almeno a livello del linguaggio dei manager e degli economisti, è il presentare l’insicurezza come opportunità.[xv] Il collasso della sicurezza che ha funzionato come sfondo del desiderio fordista, rendendo possibile una freccia lineare di accumulo, viene presentata come la liberazione dalla burocrazia e dal controllo. Il costante movimento da progetto a progetto, la mancanza di stabilità e di relazioni a lungo termine, sono legati non alla paura, alla perdita di sicurezza, ma alla speranza, alla costante capacità di crearsi nuove relazioni, di rompere con il passato, in nome di un nuovo futuro. Tanto il lavoro diventa sempre più insicuro, sempre meno capace di fornire una progressione lineare e stabile, quanto diventa sempre più dispendioso di tempo ed energia. Il neoliberalismo è una massiccia riarticolazione non solo del rapporto con il denaro, che diventa sia oggetto di desiderio che di paura, ma anche del rischio come bene. Il nuovo spirito del capitalismo mette a valore il rischio.

Lungi dall’essere un ritorno a qualche paura fondamentale, il neoliberalismo richiede il più alto coefficiente di co-linearizzazione, la correlazione dei singoli conatus e del conatus del modo di produzione. Non è un caso che nel vocabolario del neoliberalismo, termini come “capitale umano”,  “personal brand”, “rete”, ecc. riproducono tutti l’idea di una identità tra l’individuale e il capitale. È una trasformazione del lavoro come bene; il lavoro non è più definito come qualcosa di duraturo, come una passività necessaria che viene scambiata per il denaro, per la gioia del consumo. Il lavoro diventa invece il terreno dell’auto-realizzazione e dell’attualizzazione. Questa trasformazione non è solo questione di una diversa rappresentazione fondamentale del collasso della stabilità, il presentare l’insicurezza come libertà, di per sé una variante della filosofia spontanea della sfera del consumo, ma è anche un collasso dei confini che separano il lavoro dalla vita. Ciò è in parte un effetto dell’instabilità del lavoro, via via che i lavori diventano più precari, o  sembrano essere precari, il lavoro stesso diventa una sorta di richiesta perpetua di lavoro.[xvi] L’uso della locuzione “networking” riflette questo collasso, è un’idea sociale non solo per i periodi di disoccupazione, in cui creare nuovi contatti diventa fondamentale, ma diventa un ideale che racchiude tutti i rapporti sociali. I legami deboli, i legami che collegano una persona ai collaboratori e ai colleghi, sono investiti da speranza e paura massime, perché ogni legame, ogni rapporto potrebbe alterare quelli futuri. Questo investimento precario nelle relazioni con gli altri è ulteriormente complicato dalla proliferazione di tecnologie di condivisione e di sorveglianza che rendono l’auto-presentazione non solo un momento isolato, nella giornata lavorativa o nel colloquio di lavoro, ma un compito costante. Il networking, la flessibilità e la costante auto-sorveglianza della ricerca di lavoro diventano una caratteristica peculiare del lavoro contemporaneo. Per tutto il tempo questa caratteristica pretende di essere non una repressione di se stessi e della propria identità, ma la sua espressione.[xvii] Non è solo  la messa in rete e la fatica di apparire motivati, impegnati ed entusiasti che deve essere una sorta di profonda interpretazione, che richiede un grande impegno, ma il posto di lavoro comprende anche quelle attività e relazioni che sembrano essere al di fuori di esso, cercando sempre di rendere il tempo libero, il gioco e la creatività  parte della sua struttura.

La presentazione di Lordon è schematica, eccessivamente, nella sua recente pubblicazione La Société des Affects, argomenta questo schema girando attorno a due delle proposizioni finali della terza parte dell’Etica. In quei passaggi finali Spinoza sostiene che ci sono tanti amori e tanti odi “quante specie di oggetti dai quali siamo affetti” (E, III, P. 56) e “ogni effetto di ogni individuo differisce dall’effetto di un altro tanto quanto l’essenza di uno dall’essenza dell’altro”  (E, III, P. 57). Gli oggetti molteplici e i conati molteplici costituiscono la base per composizioni affettive molteplici, ognuno è mutevole e ambivalente come lo stesso oggetto è sia oggetto di amore che di odio, e lo stesso individuo arriva ad odiare quello che una volta amava. Rileggendo queste proposizioni alla luce della storia schematica dei diversi modi affettivi di produzione non trascura l’ultimo, mandandolo in frantumi in una pura molteplicità, dove mille fiori sbocciano. Queste differenze, variazioni di amore e odio, devono essere intese come variazioni su un tema dominante. Come Lordon sostiene ci saranno sempre capi che sono gentili e generosi, situazioni di lavoro che svolgono una gamma più ampia di attività, ma queste differenze e le deviazioni non sono altro che diverse espressioni della stessa relazione fondamentale. Il capo più gentile al mondo non può modificare radicalmente la struttura fondamentale delle condizioni di lavoro fordista o neoliberale, l’impegno affettivo a livello di intenzione individuale non può far nulla per alterare il rapporto di base con l’attività e l’oggetto.[xviii] Questa impiallacciatura affettiva, il lavoro di relazioni umane, non è irrilevante: più che il suo ruolo nel motivare i singoli lavoratori, il vero lavoro lo fa produrre l’aspetto della differenza, una società di azioni individuali piuttosto che le strutture persistenti. Gran parte della critica quotidiana del lavoro, o del capitalismo in generale, si concentra sulle differenze: ci lamentiamo di quel capo o protestiamo contro quella grande società perché è particolarmente offensiva, ma non affrontiamo la relazione fondamentale di sfruttamento o di profitto che supera i diversi modi in cui viene esemplificata. La pluralità, una pluralità dettata da ciò che Spinoza avrebbe chiamato l’ordine spontaneo della natura, i diversi modi in cui le cose ci hanno colpiti, ha la precedenza sulla percezione delle relazioni comuni.

A proposito di questa enfasi sulla pluralità come alibi perenne, possiamo aggiungere un’altra tesi da Spinoza. Come Spinoza sostiene, siamo più propensi a odiare o amare un atto che riteniamo essere libero di uno che consideriamo necessario. Su quest’ultimo punto l’economia affettiva di Spinoza si interseca con uno dei punti centrali della critica marxiana dell’economia politica, quella del feticismo, che potrebbe in parte essere riassunta come percepire il modo di produzione capitalistico come necessario e naturale, piuttosto che il prodotto delle relazioni sociali. La naturalizzazione dell’economia, la sua esistenza come legge naturale auto-evidente, rende difficile per noi odiarla, indignarsi. L’economia affettiva del capitalismo è quella in cui è facile arrabbiarsi e essere grati verso i crudeli padroni e i filantropi benevoli, mentre la struttura in sé, le relazioni fondamentali di sfruttamento, sono ritenute troppo necessarie, troppo naturali, per meritare indignazione. La naturalizzazione dell’economia, la sua feticizzazione, è accoppiata con la sua complessità, che rende difficile per noi riconoscere la determinazione del nostro conatus. Potremmo essere in grado di rintracciare le cause che hanno determinato che ci piace questa o quella cosa, avere questo o quel gusto, ma è così difficile comprendere le cause che hanno incanalato il nostro conatus nel lavoro salariato e innestato i nostri desideri nell’acquisto di merci, tanto che il lavoro e il consumo sembrano essere condizioni naturali, piuttosto che istituzioni storiche.

La produzione di indignazione è un compito difficile, va non solo contro la necessità percepita del modo di produzione capitalistico, ma contro i modi in cui i nostri stessi desideri, le nostre aspirazioni più intime, sono state prodotte dal capitalismo. Da questa prospettiva lo stimolo centrale di Spinoza ad una critica dell’economia politica non è l’osservazione isolata sul potere del denaro, ma la tesi fondamentale che gli uomini “si credono liberi perché sono consapevoli delle proprie azioni e ignoranti delle cause da cui sono determinati” (E, III, P. 2 S.). Questa affermazione taglia corto contro qualsiasi affermazione sul presunto desiderio per il capitalismo, il desiderio di beni di consumo, ecc., come sua giustificazione, questi desideri sono solo effetti presi come cause. La sua dimensione distruttiva, la sua pars destruens, è abbastanza chiara, ciò che è meno chiaro, tuttavia, è come esso costituisce un progetto politico positivo. Il punto di partenza, al di là del difficile riconoscimento del modo in cui siamo già determinati, è il riconoscimento di Spinoza che ci sforziamo per quelle cose che aumentano la nostra gioia ed evitiamo quei pensieri che ci indeboliscono e ci rattristano. Questa tendenza affettiva non solo spiega perché “lottiamo per la nostra servitù come se fosse la nostra salvezza”, ma anche perché continuiamo contro ogni evidenza  a ritenere che l’attuale sistema economico finirà per cambiare opinione, ci ricompenserà per i nostri sforzi. Non solo ogni trasformazione radicale deve rompere le linee di articolazione che intrecciano il conatus con il lavoro e la felicità con il consumo, si devono produrre altre gioie, altri modi del conatus. Una rivoluzione è un nuovo orientamento tanto delle nostre relazioni affettive quanto delle relazioni sociali, e non può essere l’uno senza l’altro.



[i] Lordon 2010, p. 54.

[ii] Marx 1977, p. 899.

[iii] Macherey 1995, p. 105.

[iv] Lordon 2012, p. 67.

[v] Albiac 1996 p. 15.

[vi] Weeks 2011, p. 43.

[vii] Marx 1977, p.718.

[viii] Lordon 2010, p. 49.

[ix] Lordon 2002, p. 70.

[x] Citton 2012, p. 68.

[xi] Lordon 2010, p. 44.

[xii] Bernant 2011, p. 201.

[xiii] Southwood 2011, p. 16.

[xiv] Berardi 2009, p. 32.

[xv] Boltanski and Chiapello 2005, p. 64.

[xvi] Southwood 2010, p. 27.

[xvii] Cederström and Fleming 2012, p. 10.

[xviii] Lordon 2013, p. 94.

 

* Pubblicato su Unemployed Negativity