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L’Archivio Disobedience: agire sul tempo

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di ELVIRA VANNINI e DUCCIO SCOTINI

“Ciò che diviene storia è sempre determinato da quello che è stato archiviato. Ma nel caso delle attuali mobilitazioni collettive dal basso (del loro dispiegamento molecolare e globale) c’è qualcosa di costitutivamente inarchiviabile. Questa riluttanza all’archiviazione in un sistema coerente è nella stessa natura della disobbedienza sociale”[1].

Dopo oltre dieci anni di ricerca, esperimenti e collaborazioni, esposto nelle principali istituzioni museali internazionali, Disobedience Archive, progetto curato da Marco Scotini a partire dal 2004[2], è cresciuto nel tempo e ha raccolto un centinaio di materiali video e filmici che documentano istanze autonome di empowerment, resistenza e conflitto, senza prescindere da un’analisi politica del grande ciclo di lotte iniziato in quel laboratorio italiano[3] degli anni Settanta, che trova una forte eco nelle sollevazioni moltitudinarie più recenti. “È il corpo vivo, dinamico ed eterogeneo che vigila i poteri fattuali della rete, dove ci si organizza per andare in piazza” (Hardt) che diventa luogo di elaborazione e produzione di movimenti politici. Come una sorta di cassetta degli attrezzi, Disobedience raccoglie una molteplicità di focolai d’enunciazione, irriducibili a qualsiasi tassonomia del potere e della storia: è un archivio time-based, la configurazione che la contingenza assume nella riarticolazione di pratiche affermative di insubordinazione, di ribellione, di sperimentazione linguistica e politica, legate alle forme della disobbedienza sociale e a una pluralità di insorgenze molecolari - dall’uscita italiana del ’77 alle proteste post-Seattle, fino alle manifestazioni insurrezionali del mondo arabo - preludio inconsapevole di una rivolta generale dentro la crisi e i suoi rapporti di sfruttamento, cui abbiamo assistito nelle recenti sommosse di piazza a partire dai vari Occupy[4]

“Disobbedire non significa semplicemente destituire, negare qualcosa. Disobbedire è all’opposto un’azione innovativa, sperimentale, fondativa”[5], un atto attraverso cui creare nuovi dispositivi linguistici, istituzioni e soggettività militanti, che implicano tanto modelli estetici, quanto paradigmi produttivi, che registrano una tensione, sul terreno dello scontro e dell’autonomia, nell’orizzontalità dei movimenti, attraverso tattiche costituenti che mostrano il dissenso, che reinventano un’organizzazione politica quando la funzione d’avanguardia è immersa nella ricomposizione di classe, riscrivono i linguaggi della lotta e le sue costruzioni, l’immaginario e il potere creativo di nuovi spazi di agibilità politica in cui la politica stessa non è mai separata dalla sua rappresentazione ma passa per un regime semiotico attraverso forme oppositive, di controinformazione e resistenza. Disobedience, a partire da una prospettiva d’indagine storica, ci dimostra come un atto artistico può diventare un atto politico se l’organizzazione, in quel punto conosce, una discontinuità, una rottura.

Un archivio ongoing di video e documenti che, nell’accezione foucaultiana, ha un carattere empirico e la sua esistenza è sempre una ricomposizione situazionale e temporanea: non si tratta solo di “contare”, quindi, ma di “raccontare”, ogni volta in modo differente, relazioni di potere e asimmetrie, socializzazione dei saperi e visioni antagoniste. Disobedience è uno strumento comune per la pratica artistica e la mobilitazione politica, vive nel tempo e nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la decisione di cosa guardare e cosa scegliere, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale, paratattico e senza successione lineare: nei dieci anni di spostamenti la sua natura di raccolta documentale audio-visiva ha assunto, ad ogni sua presentazione, una differente struttura spaziale. Diversi artisti hanno ripensato il display in relazione contestuale rispetto agli spazi occupati, i video, le opere e i documenti si sono accumulati a dismisura, sono stati de-archiviati e re-archiviati costantemente, continuando a sopravvivere alle (violente) spinte reazionarie e di carattere repressivo in atto.

Un database non è una semplice selezione o una collezione di immagini di protesta, attraverso cui è possibile ripercorrere la storia delle lotte e delle realtà di movimento degli ultimi decenni, piuttosto contiene materiali che vanno dal documentario al teatro di strada, dal film-essay all’agit-prop, dal videoattivismo al cinema comunitario di base, sviluppando una nuova modalità di visualizzazione politica, una cartografia capace di attivare processi di soggettivazione e rifiutare qualsiasi sistema di rappresentanza imposto dagli apparati del potere.

L’opposizione che separa espressione artistica e rivendicazioni attiviste è ideologica e serve a disgregare le condizioni di possibilità dell’arte come politica e degli artisti come agenti sociali, contribuendo alla concezione che la produzione simbolica non possa avere quegli effetti trasformativi, che solo l’azione diretta consente. Al contrario in un momento in cui non è possibile separare i gesti dalle loro immagini, in cui si assiste alla morte del simbolico come sfera improduttiva ed inefficace, le stesse articolazioni estetico-politiche presenti in Disobedience possono essere considerate come altre modalità di azione diretta. L’archivio ci permette di ricostruire una genealogia della mobilitazione antagonista a partire dai modi della sua rappresentazione dentro il mondo dell’arte, con l’emersione di pratiche sociali di liberazione, in rapporto alle istituzioni, le teorie critiche, i modelli storiografici ed espositivi.

1977 L’uscita italiana è la prima sezione dell’archivio. I video erano strumenti comuni di lotta, tra la svolta operaista e i tumulti studenteschi del movimento universitario nella sua componente più anti-autoritaria. È in questo punto che inizia l’archivio Disobedience per dare forza linguistica, pratica e di prospettiva alle funzioni di attacco al comando capitalistico: la defezione italiana degli anni Settanta, in cui il concetto di autonomia diffusa si applicava a istanze di rottura, rifiuto del lavoro, comportamenti sovversivi e illegali non durò una stagione primaverile ma diede avvio a una nuova direzione di produzione politica attraverso pratiche artistiche e critiche di radicalizzazione del conflitto e dei suoi rapporti di forza, diventando un indicatore politico sul fronte della disobbedienza sociale e una riflessione sul carattere mediatizzato della storia. Bisognava cambiare i modi e gli spazi della contestazione: nuovi soggetti rivoluzionari entravano a far parte dell’antagonismo. L’esplosione di un nuovo ciclo di movimento di massa, dall’offensiva operaia nella fabbrica sociale alle manifestazioni di piazza di carattere insurrezionale, corrispondevano a una vera e propria fuoriuscita dal “sistema” che Disobedience registra: dal cinema militante, che sente il bisogno di autorappresentarsi, come Lotte in Italia di Jean-Luc Godard, che si ispira alle rivendicazioni di Battipaglia e Mirafiori; dalle radio libere come fuoriuscita dalla letteratura, in particolare con l’esperienza di Radio Alice e l’irruzione della polizia durante gli scontri di Bologna nel 1977 (tanto che per Guattari proprio Radio Alice e la rivista “A/traverso” diventano laboratori per l’emersione di un nuovo linguaggio in grado di promuovere rapporti di produzione fra classi sociali). Il lavoro intellettuale non si pone più all’esterno o al servizio del movimento ma all’interno per cui il libro diventa agente di enunciazione collettiva con Nanni Balestrini, l’Oratorio di supporto agli scioperi del Living Theatre, che a metà anni Settanta, abbandonano gli spazi teatrali per una pratica nomade che, iniziata nella strada, è portata avanti nei luoghi del conflitto: senza sede e sovvenzioni si organizzano laboratori e spettacoli all’interno delle fabbriche occupate a sostegno dei lavoratori appena licenziati, assumendo lo sciopero come atto di creazione sociale. Anche Piero Gilardi lascia in questi anni la sua carriera artistica nelle file dell’arte povera per sperimentare modi e forme di contro-informazione che permettevano di stabilire una comunicazione tra la figura dell’operaio-massa e i nuovi soggetti antagonisti, cui aveva preso parte come militante di un collettivo extra-partitico.

“Da un lato troviamo Alberto Grifi che, al Parco Lambro di Milano, filma la disobbedienza di migliaia di giovani disobbedendo, a sua volta, al ruolo di regista che ha come compito quello di filmare e di testimoniare. Dall’altro lato vi è il cinema di movimento nei giorni del Congresso contro la Repressione a Bologna che, registrando il vagabondare esistenziale di quei giorni, destituisce la militanza del suo valore storico. Questo cinema non è più militante, non è più dominato dalla preoccupazione di servire un obiettivo politico preciso: il popolo, il gruppo, la rivoluzione. È un cinema di nuove soggettività ‘senza padrone’,  di singolarità moltiplicate che non si ricompongono: non solo Parco Lambro è molti film in uno, ma anche Videograms of a Revolution di Harun Farocki o Karama has no walls della yemenita Sara Ishaq. Siamo lontani dalle immagini del cinema militante, quelle che detenevano l’intelligenza del movimento, anticipavano le sue scelte e traevano la loro legittimità dalla giusta interpretazione delle forme del potere. Queste nuove immagini, al contrario, si impegnano e si sottraggono allo stesso tempo, negandosi alle abitudini, alle definizioni che codificano e reificano lo spazio del politico. Lavorano come dispositivi di profanazione e rivendicano un potenziale di sperimentazione rispetto alla direzione politica o al comando. Disegnano una politica dell’immanenza, mai già data una volta per tutte ma sempre da conquistare attraverso una pragmatica dell’esperienza”[6].

Questa fuoriuscita da rappresentanze, seppur vicine a movimenti extra-parlamentari, che trovava nell’arte un interlocutore privilegiato per ripensare nuovi rapporti sociali, è presente anche nel gruppo di Rivolta femminile nel momento fondativo in cui Carla Lonzi lascia il mestiere della critica e si sposta a quella di genere sull’esclusione della donna dalla creatività maschile. Nella prepotente emergenza del femminismo italiano, col suo carattere contestativo e biopolitico, la donna irrompe come soggetto imprevisto, che abbandona una cultura della presa del potere maschile, per disfare l’ordine costituito e trovare un altro tempo, un altro spazio attraverso la soggettivazione conflittuale dell’esperienza e del sapere, rovesciando anche il canone che la storia ci aveva consegnato nella dialettica dello scontro tra operai-capitale, servo-padrone, in un processo artistico che diventa politico ma di cui non ne conosciamo ancora i confini. Un atto di rottura che inaugura una pratica di pensiero e sottolinea quanto questo momento inaugurale sia stato profondamente legato al mondo dell’arte, per riflettere non tanto su quanto Carla Lonzi abbia dato all’arte ma quanto ha ripensato in termini artistici la politica.

Gli anni 2000, della controrivoluzione neoliberale, rappresentano invece il cambio di paradigma nella storia del dissenso civile (Negri-Hardt) in cui l’avversario è ben identificato, a cominciare dalle dimostrazioni contro il vertice del WTO di Seattle, che inaugura una nuova realtà di movimento, reticolare, assembleare, moltitudinaria, aperta a processi orizzontali, in uno spazio indistinto tra attivismo e militanza, dentro cui l’artista fornisce gli strumenti della protesta, soprattutto gadgets e props, e i suoi modi di organizzazione, anche linguistica, costituiscono una spaccatura rispetto alle metodologie di opposizione del passato. Ed è proprio nel riconoscimento della crisi irreversibile delle forme di governo e della rappresentanza politica, che tutto si trasforma in una parata dove il tempo dell’evento è quello della resistenza e della ricomposizione sociale, dove cade anche la separazione tra analisi estetica e politica, nella tensione creativa di cooperazione e produzione del comune.

“Diventa evidente  - sostiene Gerald Raunig - che le macchine rivoluzionarie hanno due differenti concetti del tempo: il tempo della durata, della rivoluzione molecolare permanente, e il tempo della rottura, cioè dell’evento. Resistenza e potere costituente sono delle componenti della macchina rivoluzionaria che rappresentano la durata”[7]. L’insurrezione è una rottura, un flash temporaneo, in breve, un evento. Diversamente da resistenza e potere costituente, l’insurrezione insiste permanentemente sull’immediata imminenza. Questo non consente di posporre.

Immaginazione radicale (Carnaval de Resistencia, 2004) di Marcelo Expósito presenta l’esperienza di Reclaim the Streets, uno dei più importanti gruppi che dagli anni ’90 lavora con nuove forme, in parte artistiche, di attivismo politico e recupera storici antecedenti del carnevale come insorgenza, anticipando le azioni del movimento contro la globalizzazione, da cui emerge una “massa non-conforme” (Raunig) che, come scrive l’attivista John Jordan: “vuole prendere le distanze da una situazione di protesta di tipo tradizionale e prefigurare un (nostro) mondo immaginato nel momento della protesta stessa”. E una moltitudine attraversa lo spazio transnazionale, tra cui gli artisti e attivisti che hanno preso parte all’archivio Disobedience sin dalla primissima apparizione - da Marcélo Exposito a Oliver Ressler, il collettivo americano Critical Art Ensemble, il gruppo Chto Delat, Nomeda e Gediminas Urbonas, Park Fiction e molti altri, che hanno elaborato, anche da un punto di vista teorico, questo rapporto tra produzione intellettuale, prassi estetica e azione politica.

A partire dal 2011 si apre un nuovo ciclo di lotte - in cui l’attualità della rivoluzione irrompe dentro i processi di crisi globale con le primavere arabe fino ai presidi più o meno spontanei, dagli indignados, a piazza Syntagma, a tutta l’onda lunga di Occupy – e si registra un cambiamento decisivo: gli artisti e i collettivi hanno avuto una parte importante nell’organizzazione dei movimenti, da 16 Beaver Group nell’occupazione di Wall Street, al collettivo Mosireen nell’insurrezione di piazza Tahrir. In altre parole possiamo dire che le istanze di narrazione e rappresentazione, e di creazione di immaginario, si sono socializzate e sono divenute modalità di dominio comune:

“Ognuno adesso è un film-maker. Le nostre rivoluzioni – scrivono i Mosireen - devono essere tra gli eventi più registrati di tutti i tempi. Il divario tra il classico e costoso, processo di produzione e la disponibilità della vita quotidiana è sempre più fermamente superato. Ogni cellulare ha ora il potere di contestare, di divenire una narrazione. Questo decentramento dirompente della notizia, l’occasionale incursione della partecipazione civile, è già accaduta molte volte”, in un precipitato di tensioni soggettive, passioni, pratiche di rivolta.

Ma se The Revolution Will Not be Tweeted, come significativamente si intitola uno dei video di Mitra Azar, mediattivista presente nell’archivio, sono i processi di soggettivazione, che resi straordinariamente efficaci dalla rete, ci riportano alla materialità dei corpi, a chi comanda e chi disobbedisce, alla determinazione dei rapporti di sfruttamento, alla composizione politica che è anche resistenza, desiderio di cambiare la società, scontro e immaginazione costruttiva.

Disobedience è un’esposizione politica non perché mette in scena, nel teatro della rappresentazione contemporanea, una grammatica del dissenso attraverso format sperimentali e sempre diversi, ma perché in questa discontinuità è in grado di definire una durata per le soggettività militanti. La pratica di archivio (una pratica dinamica) fa fronte dunque ad un’epoca in cui il tempo è l’oggetto di espropriazione. Ricomporre la dispersione e la frammentazione delle insorgenze attuali è uno dei compiti più urgenti del presente. La riattivazione di memorie contro-storiografiche radicali, sia storicamente che sul terreno dei movimenti e dei nuovi protagonismi sociali, trasforma lo spettatore in soggetto politico e a differenza di altri dispositivi narrativi l’archivio diventa un tool, chesfuggendo all’autorità della storia produce emancipazione e traiettorie di fuga: perché in fondo non obbedire più all’ordine sociale apre uno spazio costituente dove non riconosci più il potere ma solo il conflitto.



[1] Marco Scotini, Dall’Arte alla disobbedienza. Quarant’anni di storie, Intervista a cura di Manuela Gandini, in “Arte e disobbedienza”, Supplemento al n. 30 della rivista Alfabeta2, giugno 2013.

[2] Disobedience Archive, elaborato e costruito nel 2004, inaugura al Kunstraum Kreuzberg/Bethanien di Berlino all’inizio del 2005. Dopo qualche mese viene subito invitato a Città del Messico, in un luogo storico come la Sala De Arte Publico Siqueiros (SAPS), in una capitale della lotta alteromondista. Se il Messico era simbolo della rivolta zapatista, Atlanta nel 2010 sarà il simbolo della disobbedienza civile di Martin Luther King e Boston, dove esporrà al Massachusetts Institute of Technology nel 2011-12, il luogo dove nasce l’idea di Civil Disobedience nel 1849 con H. David Thoreau lungo le rive del lago Walden. Partecipa alla mostra Forms of  Resistance al Van Abbemuseum di Eindhoven nel 2007-2008, poi altri appuntamenti espositivi al Nottingham Contemporary, Raven Row a Londra, Publik Bureak a Copenhagen, visitando nei dieci anni della sua esistenza molte capitali dell’Est tra cui Zagabria, Bucharest e Riga. Le ultime importanti mostre al Bildmuseet di Umeå e per la prima volta viene ospitato in una istituzione italiana come il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea a Torino (22 aprile-31 agosto 2013).

[3] Laboratory Italy è in riferimento alla formula usata da Michael Hardt e Paolo Virno, nel 1996, per descrivere a venti anni di distanza, la produzione teorica e politica occorsa nell’Italia degli anni Settanta. “In our  time the  axes  have  shifted so  that,  if  we  remain  within  the  same Euro-American  framework,  revolutionary thinking  might  be  said  to  draw on  French  philosophy,  U.S.  economics,  and  Italian politics. This is not  to  say that  Italian  revolutionary  movements have met only with great  successes in  recent  decades; in  fact,  their  defeats  have been  almost  as spectacular  as  those  suffered  by  the  French  proletariat  in  the  nineteenth  century. I  take Italian  revolutionary politics  as model,  rather,  because  it  has  constituted  a kind  of laboratory  for  experimentation  in new forms of political thinking  that  help us  conceive  a revolutionary practice in our  times”, cfr. Michael Hardt, Paolo Virno, Radical Thought in Italy: A Potential Politics, Minneapolis-London: University of Minnesota Press, 1996, p.2.

[4] L’archivio è strutturato in nove sezioni:1977 The Italian Exit - Protesting Capitalist Globalization - Reclaim   the Streets - Bioresistence and Society of Control - Argentina Fabrica Social - Disobedience East - Disobedience University - Gender Politics e The Arab Dissent.

[5] Marco Scotini, Disobedience Archive: tattiche d’esposizione, testo introduttivo dell’exhibition guide al Castello di Rivoli, Torino, 2013.

[6] Marco Scotini, Disobedient Images. Autonomia and the politics of representation,  in “Open. Cahier on Art & the Public Domain”, http://www.onlineopen.org, 2013.

[7] Gerald Raunig, Art and Revolution. Transversal Activism in the long Twentieth Century, Semiotext(e), 2007, p.56.