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Lo spettro dei saperi autonomi

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di NICOLAS SLACHEVSKY AGUILERA*

Il tema della conoscenza è senza dubbio uno tra i temi chiave emersi da quella che viene definita come “l’esplosione dei movimenti sociali” in Cile, iniziata con il movimento studentesco nel 2006 e proseguita, con maggior intensità, nel 2011 ed oltre. Un’implicazione diretta ed ovvia è il fatto che queste lotte hanno sì iniziato a svilupparsi intorno al tema dell’istruzione, ponendo però in gioco non solamente le questioni dell’accessibilità, della mercificazione dei beni pubblici e dei prezzi elevati per lo studio in Cile, ma anche temi di contenuto che hanno generato discussioni e prese di posizioni, ovvero un’intera produzione autonoma di saperi da parte dei movimenti.

A partire dal modo in cui si sta delineando il tema dei saperi all’interno della cornice degli eventi politici che si stanno dando in Cile, affermiamo che è necessario andare oltre, effettuare una rivisitazione dei saperi implicati nelle lotte attualmente in corso con il fine di aprirli alla molteplicità delle loro direzioni e configurazioni. Al contempo, è importante mantenere una certa cautela fenomenologica: una prospettiva che ci permetta di lavorare con gli enunciati che emergono da tutti i campi di conflitto e costituzione, evitando di focalizzare la nostra riflessione esclusivamente sul criterio di verità, ma piuttosto orientarsi verso un’analisi su come il potere agisce dentro lo stesso framework prodotto da questi saperi di rottura e resistenza, mano a mano che questa geografia sinuosa li fa emergere.

Per contestualizzare meglio, bisognerebbe aggiungere che la formazione dello Stato moderno in Cile a metà del secolo XIX, diversamente da quanto accaduto alla maggior parte dei paesi latinoamericani, non fu tanto opera dell’influsso della rivoluzione francese e dei grandi progetti politici latinoamericani, ma piuttosto fu una reazione a questa ondata: l’impronta fu eminentemente prussiana, tanto nel suo carattere militare quanto amministrativo. Diego Portales, primo uomo forte di Stato in Cile, diceva che il popolo cileno dovesse esser governato per mezzo del “fardello della notte”. Questa affermazione si è propagata come una potente eco tra i corridoi della storia. Partire con una simile affermazione è stato un modo non solamente per mantenere intatta la violenza delle oligarchie e dei poteri fattuali nella “democrazia più stabile della storia” dell’America Latina, ma soprattutto un modo per innestare dispositivi polizieschi sulle articolazioni soggettivanti, sulle territorializzioni più intime del paese in questione.

Ereditaria di questa tradizione forte, che riconosciamo come l’ovvia coscienza biopolitica della classe dominante atta a porre un particolare e prolifico accento sullo sviluppo devastatore del pensiero liberale in Cile, è la dittatura di Pinochet e l’innestarsi del neoliberismo attraverso la rigorosa applicazione del “Ladrillo”: il programma teorico dei Chicago boys non deve infatti intendersi come una mera sperimentazione astratta, ma costituisce piuttosto, nella sua applicazione pratica, il dispiegamento di una governamentalità calcolata, che agisce insieme ad una nuova produzione di soggettività, di articolazione di saperi, intensità ed oppressioni.

Analogamente, il successo della dittatura in Cile tra il 1973 ed il 1990 non può essere compreso esclusivamente attraverso la mercificazione dei beni pubblici, ma dallo sviluppo di un’economia generale, ovvero dell’avvenuto dispiegamento di una superficie neoliberale: lo stabilirsi di un sapere di governo il cui immediato correlato nella popolazione era quello di un saper-vivere. É comunemente risaputo, infatti, che la fine della dittatura nel ‘90 ed i seguenti vent’anni di governo del centro-sinistra hanno acutizzato le riforme implementate dai Chicago boys: è quello che chiamiamo la transizione concordata, la transazione dagli uomini di governo ad un sapere della governabilità. Gli anni ’90 in Cile sono senza dubbio stati un disastro politico ed un deserto sociale. Riferirsi dunque alle politiche di shock del Capitale implica non solo comprendere un modus operandi dal carattere frontale, ma anche, più propriamente, di uno stato di shock che segue: atrofia e sconcerto.

Tutto ciò ci permette di fare una prima constatazione: l’emersione dei movimenti sociali in Cile si presenta come un terremoto nella cartografia della superficie del potere imperiale, è uno spiazzamento di quel saper-vivere che sembrava aver stabilito la propria egemonia nel mondo della conformità.

Mi pare che questo sia un punto importante, che funziona come scudo contro la spettacolarizzazione di cui gli stessi movimenti risultano essere vittime. Il movimento studentesco è costantemente personificato e convertito in un’unità razionale e coerente. E, dato che è necessario distinguere tendenze generali e linee di forza, riconosciamo in questa totalizzazione il modo in cui i dispositivi di polizia e di informazione provano a striare il territorio apertosi grazie a questo sisma, ed a prioritarizzare solo alcuni enunciati tra la costellazione di enunciati che emerge: la rigidità che rivela un nome quale movimento studentesco esprime la meccanica attraverso cui il Capitale cerca di sottomettere un fenomeno, che invece si presenta come un’esplosione rispetto alle sue proprie norme di circolazione e valorizzazione.

Tenendo ciò in considerazione, possiamo sorvolare il terreno che si apre a partire da questa nuova impronta di lotta verso le multiple direzioni che questo contiene e da cui è attraversato. Le lotte studentesche, che rappresentano l’evento più eclatante del nuovo clima di proteste in Cile, insieme ai diversi movimenti regionali e sindacali, con il loro avvento hanno generato una proliferazione di spazi di discussione, di produzione di pratiche e di saperi, di cooperazione e di scommessa in comune. Mi pare che molte volte si tenda a valorizzare acriticamente l’interesse politico di quei terreni che si aprono a partire da una data situazione unicamente in funzione della loro esplicita relazione con l’enunciato che in un determinato momento risulta centrale all’interno di una cartografia di battaglie latenti. In questo senso, direi che c’è uno spazio condiviso tra alcune pratiche più propriamente militanti e tra alcune altre che si originano invece a partire dal calore del conflitto. I movimenti cominciano infatti a provocare uno spiazzamento, a produrre un terremoto, nella misura in cui si originano saperi che cominciano a moltiplicarsi, saperi che cominciano ad interpellare la superficie liberale, a liberarsi di una certa apparente conformità imposta dal controllo poliziesco che prima pareva essersi instaurato. Così, si comincia a produrre una de-mitizzazione della formula “i cambiamenti nella misura del possibile”, utilizzata dal centro-sinistra dopo che la dittatura gli ha consegnato il potere, e dunque emergono nuovi spazi di confronto verticale. Ormai non si tratta solo di barricate, ma anche di esperienze concrete come l’auto-organizzazione delle scuole da parte dei liceali, coordinamenti territoriali di assemblee studentesche, di quartiere e di sindacato, spazi di riflessione ed organizzazione politica slegati dalle strutture tradizionali, etc. Si articolano saperi di resistenza e si interpellano pratiche determinate da una struttura sociale forgiata con il marchio a fuoco dall’oligarchia neoliberale e dall’opus dei. E nella misura in cui si danno queste dinamiche di partecipazione, c’è tutto un terreno di relazioni che comincia a svilupparsi e che si propaga, e che è appunto un terreno dove i saperi che fanno circolare le lotte esprimono potenza, producendo tremore e spiazzamento. Un esempio vicino a me è lo sciopero studentesco. C’è una discussione pragmatica sulla funzione e l’efficacia politica dello sciopero, che, senza dubbio, in una maniera assolutamente tangibile, è divenuto un evento politico rilevante negli ultimi tempi, tenendo in considerazione sia la sua reiterazione anno dopo anno sia la sua durata (sebbene sia a sua volta un’esperienza limitata ad alcuni spazi). A lato degli aspetti organizzativi e le attività direttamente politiche di questi spazi, la sola sospensione delle attività accademiche, l’esperienza di disporre autonomamente del proprio tempo, sebbene in circostanze eccezionali, genera relazioni e piccoli eventi esistenziali nei quali avviene uno spiazzamento del soggetto “studente”, incluso il soggetto “figlio” nella misura in cui si produce una dinamica familiare nello sciopero, ed incluso anche il soggetto “amante”. Le lotte producono uno spiazzamento nel saper-vivere della superficie neoliberale, e quindi c’è un’esplosione di saperi che, sebbene devono poi esser pronti a difendersi dalla sussunzione della circolazione capitalista, fanno di fatto emergere la potenza del comune. In un certo senso percepisco che questo è lo spettro che comincia ad apparire e ad estendersi nel nuovo territorio di conflitto, nelle svariate zone dove ci sono scintille, a contagiarsi come una eco di qualcosa che sembrava essersi spento: zone d’intensità, pratiche e saperi di autonomia.

 

* Intervento all’incontro sui “saperi” del ciclo di Commonware a Bologna, “Cartografia delle lotte”. Traduzione di Ivan Bonnin (@ivnbkn).