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Introduzione. C’era una volta la politica

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di DOUGLAS MORTIMER

1492-1527: in una celebre battuta del Terzo uomo, Orson Welles fa dire al personaggio Harry Lime da lui interpretato: «In Italia per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage, e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto?...L’orologio a cucù».

I trent’anni a cui si riferisce Welles sono quelli che vanno dall’elezione a Papa di Alessandro VI al sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi e che sono tra i più sanguinosi della storia del nostro paese: anni segnati da sfrenati egoismi, da una pluralità di aggregazioni politiche in lotta perenne tra loro, da infinite crudeltà di principi e condottieri, da stermini di massa, da individualismi più forti di qualsiasi legge o consuetudine. In questo contesto stravolto da continui mutamenti della fortuna e dominato da comportamenti violenti, la ricerca del particulare diventa la strenua difesa dalla pericolosità del mondo.

1964-1980: anche questo è un periodo travolgente della nostra storia che vede la ripresa delle lotte operaie, la nascita dell’operaio-massa e della sua concezione del salario come variabile indipendente dalla produttività del lavoro e dall’interesse generale, l’autunno caldo, gli anni di piombo e delle stragi, i movimenti, il referendum sul divorzio e la legge sull’aborto. Una stagione di conflitti che investe tutti gli strati della società italiana e che, per durata, non ha nulla di simile in alcun paese dell’area occidentale. Ma questi sono anche gli anni che vanno da Per un pugno di dollari di Sergio Leone a Il nome della rosa di Umberto Eco: due momenti che rappresentano l’inizio e la fine di un periodo irripetibile della nostra cultura, l’ultimo in cui occupa un ruolo centrale a livello internazionale. E questo mentre le strade delle città vengono attraversate da conflitti sociali violenti – che traducono immediatamente in agire politico la loro intensità – e l’innovazione culturale gioca un ruolo essenziale per legittimare la radicalità delle scelte di campo.

Siamo consapevoli del rischio che corriamo proponendo un modello di sviluppo dei processi culturali specificamente italiano. Ma lo facciamo non per dare dignità a un passato di cui ci sentiamo eredi (se il passato viene celebrato come “eredità”, sostiene Walter Benjamin, diventa un modo più disastroso di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa) o di cui abbiamo nostalgia (non sia mai che la storia si ripeta due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa) ma per sottolineare l’ipotesi da cui siamo partiti, e che è ancora tutta da verificare, e cioè che sembra proprio della tradizione italiana, dal Rinascimento in poi, far nascere su questo terreno del conflitto interno, dello scontro violento tra fazioni, il dinamismo creativo della sua cultura. Ci conforta il fatto che l’unica epopea nazionale a cui noi italiani possiamo far riferimento, e cioè il Risorgimento, non abbia prodotto, a parte il melodramma (le cui origini si possono comunque collocare tra il Cinquecento e il Seicento), nulla che possa far parte della cultura internazionale. E rimane anche il fatto che, a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, con la scomparsa del conflitto politico, la cultura italiana, come era già accaduto in altri periodi storici, torna ad avere un ruolo periferico e marginale nel contesto mondiale. 

Dal cinema alla musica, dall’architettura all’arte, dalla pubblicità ai fumetti, dall’editoria alla fiction televisiva, dal design alla moda e al teatro la cultura italiana degli anni Sessanta e Settanta sapeva invece trasformare, riproporre e anticipare in maniera assolutamente originale interi generi di consumo.

Nel cinema, ad esempio, oltre allo spaghetti-western di Sergio Leone e dei suoi epigoni, Mario Bava e Dario Argento insegnano agli americani i nuovi codici dell’horror tendente allo splatter; Ferdinando Di Leo, Umberto Lenzi e Marino Girolami producono a bassissimo costo il noir all’italiana violento e nichilista che ha ispirato, per sua stessa ammissione, i film di Tarantino; alla innovazione dei codici del fumetto operate da Magnus e Andrea Pazienza si accosta la radicalità della sperimentazione architettonica e stilistica di Superstudio e dell’ anti-design; musicisti e dj hanno una funzione centrale nello sviluppo di quella musica elettronica (la Italodisco come fu definita) che più tardi diventerà musica techno mentre Armando Testa e Oliviero Toscani rivoluzionano i linguaggi pubblicitari e Umberto Eco, con Il nome della rosa, immagina un nuovo modello di romanzo di consumo che precede di vent’anni il successo de Il Codice da Vinci. Nello stesso periodo, infine, nascono le radio libere e illegali, i cui promotori anticipano gli attuali discorsi sulla rete e sugli hackers e che ora si trovano tra i massimi esperti di teoria della comunicazione. Sono solo alcuni esempi ma già sufficienti a mostrare come l’Italia torni a produrre modelli culturali di massa alternativi a quelli angloamericani e per di più esportabili. E questo grazie, secondo noi, proprio a un estremo livello di conflittualità politica e sociale.

Anni di grandi trasformazioni, dunque, dove i vecchi valori di una società contadina vengono definitamene stravolti da una industrializzazione accelerata che in Italia coincide direttamente con l’emergere di una società del consumo che non solo rinnega gli antichi modelli di vita ma rifiuta – per un’antica pulsione al ribellismo che percorre, questa sì, ininterrottamente la nostra storia – ordini, gerarchie e soprattutto valori morali che avrebbero garantito quella stabilità sociale necessaria per lo sviluppo di un sistema di mercato: il consumo come semplice appendice della produzione, il primato dell’interesse generale, la funzione etico-politica del lavoro come capacità di divenire misura del comportamento sociale, la formazione di una coscienza da parte del produttore che renda compatibili bene comune e utilità privata, la formazione di un ceto medio in grado di identificarsi ideologicamente e praticamente con i contenuti più dinamico-progressivi del capitalismo, invece di assorbirne solo i caratteri più estrinsecamente consumistici. Rifiuta, in altre parole, di divenire una società pacificata in nome di particolarismi e individualismi estremi che instaurano, senza alcuna mediazione né di tempo né di luogo, un rapporto diretto e immediato con la merce: una specie di diritto al consumo al di là delle possibilità offerte dal reddito e dal lavoro e senza alcuna teorizzazione in termini di “bisogni sociali” o “diritto alla ricchezza”.

Va ricordato che negli anni Settanta, in piena crisi economica e sociale, i consumi in Italia non subiscono flessioni, anzi, nel caso dei consumi voluttuari, manifestano una sorprendente spinta all’aumento. Per quanto riguarda gli spettacoli, l’istruzione e la cultura passano da 98,9 (base 1970=100) del 1971 a 200,7 del 1980; per i beni di carattere creativo c’è un salto da 98,5 del 1971 a 238,6 del 1980; e, infine, per i servizi per l’igiene da 100,2 del 1971 a 284,9 del 1980.

Negli stessi anni, l’entrata in scena di soggetti sociali provenienti dalle periferie urbane – da sempre esclusi dalla rete di negoziazione di governo e sindacati a cui hanno accesso i soli interessi forti e, di conseguenza, legati a forme di socialità che non riconoscono alla sfera della politica e sindacale i valori tradizionali della mediazione e della rappresentatività – aprono, dopo il ’68, un nuovo ciclo di lotte dove il conflitto si traduce immediatamente in illegalità e violenza, e con un’intensità tale da sconfinare, in molti casi, nella dimensione di una guerra civile strisciante, perché la mediazione politica non riesce più a sincronizzarsi con la macchina dei desideri che non conosce scambi e tempi declinati al futuro. Non solo: questa nuova cultura invade i santuari delle antiche città, rompe la tradizionale separazione tra centro e periferia, trasforma il territorio chiuso della città nello spazio aperto della metropoli. Una cultura dello spazio (basata sul presente e sull’azione) prende il posto di quella fondata sul tempo (storia e politica).

Lo scontro con la sinistra istituzionale é inevitabile e alla fine vincente. Eppure, sul piano culturale, con gli anni ’60 era iniziata proprio l’egemonia della sinistra fondata su un pensiero critico radicale che poneva la teoria come momento del conflitto reale. Egemonia come produzione di senso comune attraverso la formazione di una cultura politica che si innestava direttamente e materialmente nella realtà sociale del paese amplificata dalle lotte operaie e dal movimento del ’68. Ma, negli anni Settanta, quella strana compresenza di “compromesso storico” e “austerità” sul piano politico-istituzionale, e di cultura politica radicale sul piano sociale, porta a una drammatica separazione tra la politica – che non riesce a disegnare una forma di gestione dei conflitti – e la cultura, che invece produce conflitti sempre più violenti. Questa difficoltà della sinistra istituzionale a rapportarsi con i settori sociali più attivi non è tanto dovuta alla ricerca di una compatibilità con un sistema (di cui per altro è diventata compartecipe), ma al fatto che essa esprime una linea politica strategica, quella del “compromesso storico”, estrema e incompatibile con le alleanze interne e internazionali. Un’autonomia della politica che entra in collisione violenta, da una parte, con i gruppi più conservatori e reazionari e, dall’altra, con quella cultura antagonista che vede così non recepite le spinte alla trasformazione e, pur divenuta egemone in una società fortemente politicizzata e insieme consumista, non trova più possibilità di negoziato nei limiti del sistema.

Dentro il processo di modernizzazione delle società occidentali, la differenza italiana sta proprio qui, in questo connubio esplosivo di cultura politica di massa che produce senso comune e agire consumistico, che indirizza e frantuma la radicalità sociale fino a portarla a livello individuale. Un individuo che diventa tale perché finalmente fuoriesce dal privato e dall’universalismo neutro dei valori della democrazia di massa in cui era stato rinchiuso negli anni del dopoguerra per diventare parte, fazione, partito. E lo fa sulla “strada”, che viene riconquistata così come spazio pubblico per eccellenza.

La conquista della strada non si traduce esclusivamente nell’organizzazione di cortei o spese proletarie, ma diviene lo strumento primario per soddisfare l’esigenza irreprimibile di rendere pubblica la propria individualità: visioni del mondo, desideri, creatività o ideologie hanno senso solo se riescono a proiettarsi immediatamente in ogni possibile ambito del reale, anche a costo di doverlo inventare di sana pianta, come nel caso delle radio libere.

Strada in questo libro vuol dire cinema, radio libere, fumetti, cartelloni pubblicitari, dischi di vinile, curve degli stadi, spazi artistici e architettonici. Strada è ogni spazio materiale o immateriale, sociale o mediale, suscettibile di essere conquistato dall’irriducibile esigenza di visibilità dell’individuo. E poiché questa esigenza non ammette compromessi e mediazioni, produce la più generalizzata stagione di conflitti del dopoguerra e probabilmente di tutto il Novecento, a tal punto che si può affermare che in quel periodo il conflitto diventa la condizione normale della vita di ciascuno.

Alla fine, sbarrata ogni possibilità di relazione tra politica e cultura politica, è la violenza a sostituire la cultura politica. La violenza come atto distruttivo mai fine a se stesso, ma attraverso il quale una moltitudine di individui dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti e eventi, ma affettività, valori, interessi generali, forme di rappresentanza, istituzioni. La violenza che diventa costume, comportamento, codice morale di una società che ha sopraffatto e assorbito la politica.

La violenza, dunque, rimane nella dimensione della politica, non è né un fenomeno naturale né un processo vitale. Ed è proprio questo che marca drammaticamente la differenza tra il ventennio 1960-1980 e gli anni successivi. Non è che oggi non esistano la conflittualità e la violenza; il fatto è che la pervasività del consumo e dei media ha fatto scomparire totalmente il primo termine – la cultura politica di massa – producendo una microconflittualità diffusa che non ha più avuto l’intensità per divenire politica. E così la cultura italiana, a partire dagli anni Ottanta, si è ritrovata orfana dell’unico filtro – la politica appunto – che la può mettere in grado di raffigurare simbolicamente il conflitto e il mutamento sociale.

Una cultura che non sa leggere, rappresentare, anticipare luoghi e forme in cui il conflitto si dispiega è una cultura agonizzante se non morta. Nel ventennio preso in esame, invece, è proprio la pratica di una violenza comunque sentita come politica e l’esigenza di una sua rappresentazione, a connettere la produzione culturale con la realtà di una nuova società.

Da La battaglia d’Algeri a Per un pugno di dollari: solo quattro anni separano i due film, ma in mezzo c’è il ritorno della classe operaia che riconquista il centro della scena nazionale. Per una classe che vuole innanzitutto aumenti salariali e la diminuzione delle ore di lavoro, che non è stata mai né terzomondista né internazionalista se non nella testa di qualche intellettuale organico, e che ritrova unità di intenti solo nella pratica del conflitto, la rappresentazione simbolica delle lotte – come in ogni società del consumo l’azione politica ha bisogno di un immaginario essenzialmente visuale – non può che passare attraverso l’azione di un pugno di eroi cinici e disincantati che sono contro tutti e tutto e che usano la violenza allo stato puro come unico strumento di relazione sociale.

Torino, 1969: «Quella sera – racconta Romolo Gobbi – non ero andato a fare lavoro di porta, ma al cinema a vedere Per un pugni di dollari con Clint Eastwood. Arrivai all’assemblea nel grande anfiteatro di Patologia medica caricato psicologicamente e, dopo aver proposto il corteo esterno, argomentai che gli operai, che per due mesi avevano fatto massimo scioperi di squadra, di reparto, talvolta di officina, avevano l’esigenza di uscire all’esterno per far conoscere la loro lotta a tutta la città. Quella sera sparai in alto: “Trecentomila, è sufficiente che arrivino in Piazza Castello, non hanno bisogno di usare violenza, devono solo gonfiare il torace e crolla tutto”».