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Brasile: la nuova composizione tecnica del lavoro immateriale metropolitano

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Intervista a GIUSEPPE COCCO

Manifestazioni sociali di massa insoddisfatte della politica e dell’economia si sono sviluppate in Nord Africa, in Spagna, a Wall Street. Adesso arrivano in Brasile. Perché? Cosa rappresentano queste manifestazioni sociali?

Possiamo subito cominciare dicendo che ciò che caratterizza le manifestazioni è che non rappresentano niente e insieme, per un tempo più o meno lungo, esprimono e costituiscono tutto. Il primo elemento è questo: hanno una dinamica intempestiva, sfuggono a qualsiasi modello di organizzazione politica (non solo i vecchi partiti o i sindacati, ma anche il terzo settore, le Ong) e affermano una democrazia radicale articolata tra le reti e le strade: autoconvocazione e dibattiti nelle reti sociali, partecipazione di massa alle manifestazioni di piazza, capacità e determinazione di affrontare la repressione e al contempo di autogestione di spazi urbani come sono stati Piazza Tahrir, le acampadas spagnole, i tentativi di Occupy Wall Steet e, infine, Piazza Taksim a Istanbul. Per ognuna di queste onde e “primavere” c’è stato un innesco specifico, ma tutte dispongono di una stessa base sociale (per quanto siano differenti le traiettorie socio-economiche dei diversi paesi) e degli stessi processi di soggettivazione. Nel caso del Brasile tutti sanno che l’innesco è costituito dalle proteste contro l’aumento dei biglietti dei trasporti pubblici. Come è stato il caso di altri cortei, la manifestazione a San Paolo è stata violentemente repressa dalla polizia militare. Solo che questa volta la scintilla non si è spenta in una “marcia della libertà” e ha incendiato San Paolo e tutto il paese. Ma sapere qual è stato l’innesco non ci permette di avanzare nell’analisi.

Perché adesso? É difficile rispondere e forse la caratteristica di questo tipo di movimento è che nessuno sa proporre ragioni “oggettive” indiscutibili. Tuttavia, possiamo avanzare tre spiegazioni: la prima spiegazione ha la forma di un secondo “innesco” ed è la quasi coincidenza tra l’episodio della repressione della marcia per il passe livre a San Paolo e il rinnovamento delle primavere arabe e del 15M spagnolo nelle lotte durissime della moltitudine turca a Piazza Taksim a Istanbul (non a caso nella seconda manifestazione carioca, che già riuniva 10.000 persone, uno degli slogan era “è finita la comodità, Rio diventerà una Turchia”); una seconda spiegazione sta nel fatto che questo ciclo di “rivoluzioni 2.0” comincia ad avere una durata consistente (più di tre anni) ed è entrato nell’immaginario, nel linguaggio di generazioni di giovani che non formano più le loro opinioni attraverso i media mainstream, ma direttamente nelle reti sociali; una terza spiegazione è più consistente ed è la più importante, riguarda quello che sono queste “nuove generazioni” nel Brasile di oggi, ossia generazioni di giovani che hanno solo conosciuto il Brasile di Lula. Ciò che è incredibile e anche ironico è che lo stesso PT non abbia previsto questo e ancora oggi sia incapace di vedere questo dato importantissimo. 

Quali sono le similitudini e le differenze tra le manifestazioni brasiliane e quelle degli altri paesi?

Le similitudini sono più importanti delle differenze, che appena enfatizzano la qualità specifica di ogni evento. A un primo livello, c’è in comune l’articolazione tra le reti e le piazze come processo di autoconvocazione dei cortei e delle manifestazioni che nessuno riesce a rappresentare, nemmeno le organizzazioni che si sono trovate dentro la prima convocazione: il tentativo di “rafforzare” i ragazzi del movimento per il passe livre a San Paolo (“ufficializzato” dalla presenza nel programma tv Roda Viva e dalla negoziazione con il municipio e lo stato) ha dimostrato che loro non controllano né dirigono un movimento che si autoriproduce in maniera rizomatica (le manifestazioni avvengono senza rispettare qualsiasi tipo di “tregua”).

A un secondo livello, c’è in comune l’esaurimento della rappresentanza politica. Nel Brasile questo fenomeno è stato totalmente sottovalutato dalla “sinistra” e, soprattutto, dal PT perché non lo hanno capito (e non lo capiscono). Inizialmente hanno pensato che fosse un problema delle autocrazie del Nord Africa (Tunisia ed Egitto); poi che fosse l’incapacità dei socialisti spagnoli (PSOE) di rispondere in maniera sovrana alle ingiunzioni delle agenzie internazionali o della BCE. Successivamente hanno pensato che il 15M spagnolo non riuscisse a incontrare una nuova dinamica elettorale, mentre in Italia il partito di Beppe Grillo ha mostrato un fenomeno elettorale totalmente nuovo e non governato. In seguito, hanno pensato che l’Egitto e la Tunisia fossero stati normalizzati elettoralmente dall’islamismo conservatore e allora sorge il sollevamento turco contro il governo islamico moderato.

In Brasile il PT e il suo governo (con la sua coalizione) pensavano di essersi blindati con i recenti successi elettorali (l’elezione di Haddad, la ri-elezione quasi plebiscitaria di Paes a Rio), per vivere un ciclo economico positivo e per pensare che il sacro graal del “nuovo modello” economico sarebbe stato, in realtà, la riedizione del vecchio nazional-sviluppismo, ribattezzato neo-sviluppismo. Quello che la sinistra nel suo insieme e il PT in Brasile non hanno capito è che la crisi della rappresentanza è generale (anche se ha sintomi e manifestazioni differenziate), e che i sollevamenti della moltitudine in Egitto, in Tunisia, in Spagna, in Turchia e ora in Brasile sono l’espressione, tra altre cose, di un rifiuto radicale di questa maniera autoreferenziale di pensare da parte dei governi e dei partiti politici.

Al terzo livello vi è la principale similitudine tra tutti i movimenti: la base sociale di questa produzione di soggettività è il nuovo tipo di lavoro che caratterizza il capitalismo cognitivo. Le reti che protestano e che si costituiscono nelle strade di Madrid, Lisbona, Roma, Atene, Istanbul, New York e ora di tutte le città brasiliane sono formate dal lavoro immateriale: studenti, universitari, giovani precari, immigrati, poveri, indigeni, ossia la composizione eterogenea del lavoro metropolitano. Non a caso, da un lato una delle sue forme principali di lotta è stata l’“acampada” o l’“occupy”, e dall’altro i sollevamenti turchi e brasiliani hanno avuto come innesco la difesa delle forme di vita della moltitudine del lavoro metropolitano: la difesa del parco contro la speculazione immobiliare (la costruzione di un centro commerciale) a Istanbul, e la lotta contro l’aumento dei costi dei trasporti nel caso del Brasile.

Di fronte a queste similitudini, le differenze sono ben minori, per quanto esistano (e siano anche ovvie). Possiamo assumere queste differenze dal punto di vista delle condizioni oggettive di ogni paese e dal punto di vista di come ognuno di questi movimenti è stato trasformato (oppure no) dalla fase destituente al momento costituente. Così, il 15M spagnolo si presenta come l’esperienza che più è riuscita a durare, nonostante non abbia invertito le politiche economiche. Le rivoluzioni arabe sono state normalizzate dalle vittorie elettorali conservatrici, ma i sollevamenti diventano endemici.

In Turchia e ancora di più in Brasile non sappiamo – letteralmente – quello che accadrà. É nel piano delle condizioni oggettive che incontriamo la maggiore differenza: in Spagna e, in generale, nel Mediterraneo le rivoluzioni sono segnate dai processi di “declassamento” delle classi medie. In Brasile è esattamente il contrario: tutto questo succede nell’ambito e nel momento dell’emergenza della “nuova classe media”. Solo che questa nuova composizione di classe è, in realtà, la nuova composizione del lavoro metropolitano, che lotta per i parchi o per i trasporti pubblici. Ascendendo socialmente, i poveri brasiliani diventano quello che le classi medie europee diventano discendendo: la nuova composizione tecnica del lavoro immateriale delle metropoli.

Al di là dell’aumento del prezzo dei biglietti, quali sono gli altri motivi che hanno scatenato le manifestazioni?

Possiamo dare due risposte. La prima è la seguente: se ci pensiamo bene, questa domanda trova la sua risposta nella sua semplice riformulazione: “perché nelle città e nelle metropoli brasiliane non ci sono più lotte e più sollevamenti, dati gli innumerevoli motivi che le giustificherebbero?”. In Brasile non mancano le ragioni! Una volta che si assume questo basta scegliere, la lista è infinita.

Voglio fare solo un esempio, raccontando un aneddoto: un giorno sono andato ad assistere a un forum dell’UPP Social (Unità di polizia pacificatrice, che oggi non esiste più) in due favelas della zona nord, tanto precaria. Tutto il calderone dei governi statali e municipali era mobilitato, con il suo armamentario di funzioni, per dar senso alla pacificazione. I pochi abitanti che hanno parlato hanno accennato due problemi essenziali: primo, hanno detto, viviamo in mezzo alla fogna; secondo, i poliziotti agiscono in maniera violenta e arbitraria. Le decine di segretari e altri servitori presenti non sono riusciti a dire niente su come poter risolvere questi problemi di base del risanamento. Uscendo dalla favela, sono passato attraverso un centinaio di adolescenti che restavano senza fare niente all’entrata, e nella strada di ritorno verso il centro di Rio, a cinque minuti di macchina, sono passato davanti a un’opera gigantesca, faraonica: il Maracana!

La domanda di prima trova una risposta piuttosto uguale a quella che dava Keynes nel 1919: “non sempre le persone accettano di morire in silenzio”. C’erano a Rio de Janeiro e in Brasile (e continuano a esserci) innumerevoli movimenti di protesta e resistenza, in particolare per gli effetti dei megaeventi, e oggi questi movimenti si sono uniti, confluendo con la moltitudine della nuova composizione del lavoro metropolitano. A Rio i manifestanti si uniscono per rivolgere invettive pesanti contro il governatore Sergio Cabral e il sindaco Eduardo Paes.

Siamo arrivati così alla seconda risposta: il movimento è stato veramente per i 20 centesimi! Solo che questo “poco” è in realtà “tanto”. Perché? Perché la questione dei trasporti e, più in generale, dei servizi è strategica per il lavoro metropolitano. Gli operai fordisti lottavano per salari e orari. I lavoratori immateriali hanno come fabbrica la metropoli e lottano per la qualità della vita dalla quale dipenderà la loro inclusione in un lavoro che non è più un impiego, ma una “impiegabilità”. Gli operai fordisti lottavano per ridurre la parte dell’orario che era incardinata come profitto nelle macchine che producevano; i lavoratori immateriali nelle metropoli deturnano gli slogan pubblicitari di una fabbrica automobilistica (“Vem Pra Rua” – “Vieni per strada”) per risignificare i concatenamenti produttivi che si disegnano nella circolazione. Gli operai fordisti lottavano contro il lavoro. I lavoratori immateriali lottano sul terreno della produzione di soggettività. É nella circolazione che la soggettività si produce e produce valore e reddito.

I manifestanti dicono in modo chiaro che sono apartitici, non vogliono violenza e non hanno leader. Come interpreta questo discorso? Come pensare un nuovo modello politico a partire da queste caratteristiche?

Sicuramente una delle dimensioni costitutive della rivoluzione 2.0 è la crisi della rappresentanza e questo è un tema centrale. Dobbiamo ricordarci che l’anticipazione della rivoluzione 2.0 come critica radicale della rappresentanza è sudamericana. Il “que se vayan todos” argentino ha anticipato di dieci anni il “non ci rappresenta nessuno” spagnolo. Solo che la dimensione di questa crisi è elaborata dal discorso ufficiale – ossia partitico – in maniera inversa. E questa inversione non avviene per caso. Anzi, gli ultimi sviluppi del movimento (le aggressioni contro i partiti di sinistra nelle manifestazioni del 20 giugno) ci dimostrano molto bene come funziona questa inversione. I partiti (soprattutto quelli che stanno al governo) dicono che questi movimenti sono limitati perché rifiutano il partito, non sono “organici”, perché hanno una “ideologia” che li rifiuta e, pertanto, sono potenzialmente anti-democratici. Ovviamente, questo è corretto. Solo che l’affermazione corretta nasconde due belle falsificazioni. La prima è anch’essa ovvia: i “gruppi” che predicano una critica fondamentalista della rappresentanza non hanno nessuna consistenza sociale e nessuna capacità di determinare, o almeno influenzare, movimenti di queste dimensioni. La seconda falsificazione è una conseguenza della prima: i partiti attribuiscono la crisi della rappresentanza a un processo e a una critica che verrebbe da fuori, mentre in realtà i principali e unici responsabili di questa crisi sono loro! E la responsabilità è nel rendere indifferente la separazione tra destra e sinistra, ossia nel fatto che i governi cambiano però continuano a fare le stesse cose, incluso il riciclaggio delle medesime figure politiche. Così, il PSOE spagnolo attribuisce al 15M la sua sconfitta elettorale, quando in realtà il 15M è solo la conseguenza del fatto che i socialisti spagnoli facevano la stessa politica economica della destra. É esattamente quello che è successo nel Brasile di Lula e soprattutto di Dilma. Il movimento nato con la lotta contro l’aumento rifiuta le dimensioni autoritarie e arroganti delle coalizioni e del loro consenso nel riunire destra e sinistra nella riproduzione degli interessi di sempre.

É l’Haddad che dovrebbe rappresentare il nuovo e si presenta insieme all’Alkim per dire in modo congiunto la stessa cosa, cioè che la riduzione della tariffa avrà un costo (sic!). É la coalizione conservatrice che governa lo stato e il comune di Rio, e dove il PT pianifica ed esegue sgomberi di poveri, senza rispettare la costituzione municipale. Sono le alleanze spurie con i proprietari terrieri di un ministro di sinistra. É la conduzione autoritaria delle grandi opere e dei megaventi. É la consegna della Commissione dei diritti umani della camera a un fondamentalista che, esattamente il giorno seguente la grande manifestazione di lunedì, ha fatto votare il progetto di legge che definisce l’omosessualità come una malattia.

La sinistra e l’incapacità

L’estrema sinistra o la sinistra radicale sbagliano quando pensano di essere “salve” rispetto a questa situazione. I partiti di sinistra sono incapaci di capire che questo movimento si forma nel rifiuto – confuso, fluttuante, ambiguo e perfino pericoloso – del partito, dell’organizzazione separata, della bandiera. Questo perché il rifiuto generale non fa distinzioni e funziona come rifiuto di qualsiasi piattaforma ideologica preparata e determinata da logiche di apparati separati: in questo esiste una percezione per cui uno dei problemi della politica è la costruzione di apparati che tendono prima di tutto a riprodurre se stessi.

L’aggressione di un gruppo organizzato al blocco delle bandiere del PSTU [Partito socialista unificato dei lavoratori], del PSOL [Partito socialismo e libertà] e del PCB [Partito comunista brasiliano] nel corteo di giovedì 20 giugno ha infranto le illusioni secondo cui la crisi sarebbe solamente del PT e ha spaventato tutti. Intanto, in questo episodio deplorevole incontriamo ancora una volta il funzionamento perverso della logica della rappresentanza. I gruppi aggressori erano chiaramente organizzati e avevano chiari questi obiettivi, tanto quanto il processo di organizzazione indica le peggiori manipolazioni. Tutte le analisi e le denunce che immediatamente sono state prodotte hanno identificato questi gruppi (che chiaramente agivano comandati da qualche disegno per provocare questa situazione) con la manifestazione in generale. 

Senza partiti

In realtà l’appoggio generico dei giovani alla parola d’ordine “senza partiti” non ha nessun significato lineare e ancor meno “fascista”. Paradossalmente, il rifiuto dei partiti, inclusi quelli “radicali” e delle sue bandiere, è il rifiuto – chiaro, confuso e contraddittorio – dell’omologazione di destra e sinistra e una richiesta di “vera sinistra”. Questa richiesta non è idealista e non può essere bloccata da linguaggi e simboli obsoleti (le bandiere rosse, per esempio). Per rialzare le bandiere rosse è necessario lasciarle a casa per un bel po’! La bandiera rossa deve abbandonare la sua dimensione idealista e trascendente (ossia vuota) e ritornare a essere interna (immanente) ai linguaggi delle lotte per come esse sono. Su questo terreno è possibile e necessario costruire un’altra rappresentazione e, soprattutto, rafforzare la democrazia.

Lei ha scritto recentemente su twitter che “le lotte della moltitudine a San Paolo e a Rio sono il miglior risultato del governo Lula. Così buono che nessuno nel PT è stato capace di anticipare”. Ci può spiegare questa idea? Si tratta del fallimento della politica?

Cominciando dalla fine: non siamo di fronte al “fallimento della politica”. Al contrario, si tratta della persistenza della politica! Di fronte a tutto quello che i partiti di sinistra fanno per fornire munizioni al vecchio discorso anti-democratico e moralista delle elite, questi movimenti dimostrano che la politica è viva, nonostante i Felicianos, gli Aldos, la tecnocrazia neo-sviluppista e la corruzione! Essere contro il moralismo della destra non significa trovare “belli” i comportamenti immorali della sinistra al potere. Si tratta solo di non cadere nelle trappole della destra, facendo invece uno sforzo di congiunzione etica dei fini e dei mezzi.

Questo movimento, qualsiasi sia il suo esito, è il movimento della moltitudine del lavoro metropolitano, il più puro prodotto dei dieci anni di governo del PT. Approfondiremo e renderemo chiara questa affermazione in due passaggi. Innanzitutto, questa affermazione è una qualificazione positiva dei governi Lula e Dilma. Una valutazione positiva non per il fatto di essere stati di “sinistra” o socialisti, ma perché si sono lasciati attraversare – senza volere – da una serie di linee di cambiamento: politiche di accesso, quote di ingresso per i neri, politiche sociali, creazione di impiego, valorizzazione del salario minimo, espansione del credito.

La sinistra radicale giudicava queste politiche esattamente come adesso – ironicamente in questo caso anche il PT – giudica la questione delle “bandiere”: idealisticamente. “Lula sta realizzando un altro modello, un’altra società socialista?” si domandava e criticava. Beh, nessuno implementa un modello alternativo, anche quando sta al governo. Può appena avere la sensibilità di apprendere le dinamiche reali che, nella società, potranno amplificarsi e produrre qualcosa di nuovo.

I governi Lula e Dilma hanno associato il governo dell’interdipendenza nella globalizzazione con la produzione, timida e reale, di una nuova generazione di diritti e di inclusione produttiva. Statisticamente, questo si è tradotto nella mobilità ascendente dei livelli di rendimento di più di 50 milioni di brasiliani e nell’entrata di nuove generazioni nelle scuole tecniche e nelle università. Lula non ha voluto saperne di bandiere e ha perfino dichiarato che lui “non è mai stato socialista”. É rimasto dentro la società cercando i linguaggi, i simboli e le politiche che comprendeva.

Entrando nel nuovo decennio del 2010, questo processo si è consolidato in due fenomeni maggiori: il primo è elettorale e ha il nome di “lulismo”, ossia la capacità che Lula ha di vincere e, soprattutto, di far vincere elezioni maggioritarie, cominciando dalla presidente Dilma e arrivano al sindaco Haddad; il secondo è il regime discorsivo dell’emergenza di una “nuova classe media”, la cui base è nei lavori dell’economista Marcelo Neri. Con la crisi del capitalismo globale (2007-2008) e con l’arrivo di Dilma al potere, il discorso della “nuova classe media” è andato oltre le preoccupazioni del marketing elettorale per diventare la base sociale di una svolta che vede nel ruolo dello stato insieme alle grandi imprese l’alfa e l’omega di un nuovo modello sviluppista (neo-sviluppista).

Economia

Sociologicamente, l’obiettivo del neo-sviluppismo è trasformare i poveri in “classe media” e, per fare questo, è necessario economicamente un Brasile Maggiore, capace di reindustrializzarsi. Il governo Dilma è arrivato ad abbassare i tassi di interesse e ha moltiplicato i sussidi alle industrie produttrici di beni di consumo durevoli, in particolare di automobili, e alle industrie della costruzione civile. Quello che il movimento ha affermato e ha certificato è stata la dimensione illusoria di questo supposto modello (questo non significa che il modello non sarà implementato; significa soltanto che ha perso la patina di consenso che lo legittimava e dovrà presentarsi in modo sempre più autoritario). Sul piano macro-economico l’inflessione tecnocratica non ha funzionato molto, perché il tentativo di modificare i tassi di interesse è finito nel ritorno dell’inflazione dei prezzi (che sta alla base della rivolta). L’inflazione dei tassi di interesse e quella dei prezzi si sono ripresentate come le due facce di un impasse rinnovata che solo una mobilitazione produttiva (della quale non c’è segno) può risolvere.

La nuova classe media non esiste

Sul piano sociologico, la “nuova classe media” non esiste, perché quella che si costituisce è una nuova composizione sociale le cui caratteristiche tecniche sono di lavorare direttamente nelle reti di circolazione e servizi della metropoli. La figura economica (la “media” della fascia di reddito) nasconde il contenuto sociologico di un’inclusione produttiva che non passa più dalla precedente implementazione nel rapporto salariale. Questo lavoro degli inclusi in quanto esclusi è un lavoro di tipo differente: esso è precarizzato (dal punto di vista del rapporto di impiego), immateriale (dal punto di vista dalla ricomposizione soggettiva e comunicativa del lavoro manuale e intellettuale) e terziario (dal punto di vista della catena produttiva, quella dei servizi).

La qualità dell’inserimento produttivo di questo lavoro dipende direttamente dai diritti precedenti ai quali hanno accesso e che, allo stesso tempo, esso produce, come per esempio poter circolare per la metropoli. É esattamente questa composizione tecnica e sociale del lavoro metropolitano quella che costituisce l’altra faccia della “nuova classe media” oriunda del periodo Lula. Allo stesso tempo essa è stata base elettorale delle successive sconfitte del neoliberalismo ed è anche oggi, nella sua ricomposizione politica, l’opposizione al neo-sviluppismo. Per essa la questione della mobilità urbana ha la stessa dimensione che aveva il salario per gli operai, nel momento in cui il segmento strategico è quello dei servizi.

Le città e le metropoli brasiliane – e non la reindustrializzazione – costituiscono il principale collo di bottiglia, allo stesso tempo sociale, politico ed economico. L’ideologia e la coalizione di interessi che stanno con la presidente Dilma non hanno dimostrato finora la minima capacità di vedere questo dato. Più ancora, questa nuova composizione del lavoro immateriale e metropolitano produce, a partire da forme di vita, altre forme di vita. Per questo il movimento del passe livre, come quello di Istanbul che difende un parco, ha raccolto tutti i centri di resistenza che esistono nelle metropoli, fino ad espandersi – come sta facendo in questo momento, drammaticamente e spaventosamente – nelle periferie dove non c’è mai stata nessuna manifestazione di massa.

Ciò che questo “sollevamento” della moltitudine del lavoro immateriale ci mostra è che l’“eredità” di questi ultimi dieci anni di governo è contesa, e che la cosa più interessante è rimanere dentro queste alternative invece di volere piantare una bandiera o l’altra. La politica e il movimento sono dentro e contro. Per esempio, pensiamo alla questione dei megaeventi, dalla coppa alle olimpiadi. Molti dei centri di resistenza nelle metropoli sono movimenti che criticano le spese per opere e stadi, favelas che resistono contro gli sgomberi, ecc. Allo stesso tempo, la possibilità per il movimento di non aver avuto una repressione brutale, per ora, si deve anche alla Confederation Cup. Ancora una volta, il conflitto è dentro e contro.

Che scenario politico è possibile prevedere a partire dalle manifestazioni?

Credo che l’evento sia tanto potente e imprevisto che nessuno può rispondere a questa domanda. Soprattutto in questo momento: ogni giorno e forse ogni ora cambiano alcuni dati fondamentali. Quello che possiamo dire è che lo scenario elettorale dal 2014 fino al 2018 era disegnato e le variabili previste erano quelle macro-economiche. Il movimento si è invitato per questa discussione. Solo che non c’è nessuno che possa sedersi attorno a questo eventuale tavolo dicendo di rappresentarlo.

La terra ha tremato e continua a tremare, solo che il fumo che si è alzato non ci lascia ancora vedere quali palazzi cadranno e quali resteranno in piedi. In questo scenario, possiamo fare due congetture. La prima è che il la presidente Dilma può aprire a sinistra, per esempio, con una riforma ministeriale che collochi persone qualificate e altamente progressiste in ministeri-chiave come la giustizia, città e trasporti, cultura ed educazione, convocando la società a costituirsi – a tutti i livelli possibili – in assemblee partecipative per discutere le urgenze metropolitane. Nella seconda (che mi sembra quella annunciata dal pronunciamo del 21 giugno) Dilma si limita a riconoscere l’esistenza di altre composizioni sociali nel movimento e la costruzione di un grande patto sui servizi pubblici, ma non annuncia niente di nuovo che non siano alcune bandiere di lunga durata (la destinazione del 100% delle royalties del petrolio per l’educazione) ed enfatizza la questione dell’ordine: repressione dei “violenti” e rispetto per i megaeventi (ossia, più repressione). E questo dopo i fatti abbastanza cupi di giovedì 20 giugno (apparizione di questi gruppi prezzolati per aggredire i partiti e, a Rio, repressione generalizzata della manifestazione, perseguitando centinaia di migliaia di partecipanti durante la dispersione del corteo).

Lo scenario che prevedo è pessimista: mi sembra che una buona parte dei militanti di sinistra stia cadendo nella trappola delle bandiere e che questo finirà davvero per regalare il movimento alla destra e, dall’alto, ci sarà la repressione, magari anche delle opinioni. In questo scenario molto probabile, per salvare se stesse ed evitare un rinnovamento generale, le burocrazie e altre fisiologie arroccate nei differenti governi e coalizioni stanno distruggendo le possibilità di un grande rinnovamento della sinistra e portando tutti nel buco che sarà il risultato elettorale del 2014. Ma vorrei molto sbagliarmi. Se sarà vero che mi sbaglio, saranno le lotte della moltitudine che lo diranno e lo scenario che esse devono affrontare è molto, molto complesso.

 

* Intervista realizzata dalla rivista Unisinos. Traduzione e cura di Laboratorio Commonware e Talita Tibola.