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Prefazione di Balestrini a “Vogliamo tutto”

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di NANNI BALESTRINI

Vogliamo Tutto ha voluto essere la storia dell'operaio-massa in Italia, una storia ormai antica che si è svolta alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. È rappresentata sotto forma di romanzo, non in quanto invenzione fantastica, ma in quanto operazione forzosa di tipizzare nelle esperienze di un unico personaggio i comportamenti di un intero strato sociale. Creando un personaggio collettivo che impersonassi il protagonista della grande ondata di lotta di quegli anni, in cui è apparso alla ribalta come una nuova figura politica, con caratteristiche nuove, con obiettivi nuovi, imponendo forme di lotta nuove. È il proletariato del sud dai mille mestieri perché senza nessun mestiere, senza alcuna caratteristica professionale anche quando possiede un diploma, privo di occupazione stabile e frequentemente disoccupato o costretto a prestazioni varie e saltuarie. Che non trova lavoro nel Sud e lo cerca a Torino, a Milano, in Svizzera, in Germania, ovunque in Europa. Che trova il lavoro più duro, più faticoso, più inumano, quello che nessun altro è disposto a fare. E che ha fatto in Italia e in Europa lo sviluppo economico dal secondo dopo guerra in poi: dalla Fiat alla Volkswagen alla Renault, dalle miniere del Belgio alla Ruhr.

L'operaio-massa non ha nessun rapporto con la vecchia tradizione comunista, con i canali organizzativi tradizionali del partito e del sindacato. Il PCI era nato a Torino sulla scia della Rivoluzione d' Ottobre, e sull'esperienza dei soviet era nato il movimento dei consigli di fabbrica. Si basava sull'operaio professionale, altamente specializzato, che chiedeva potere e ricchezza in nome della sua capacità di sapere costruire la ricchezza. Le avanguardie di quel movimento furono i consigli di gestione operaia che nel 1920, durante l'occupazione delle fabbriche, tentarono di sostituirsi alla direzione padronale. La risposta capitalista degli anni successivi si servì di diversi strumenti: il fascismo, la crisi economica del '29, il salto tecnologico (la catena di montaggio e il taylorismo) e portò alla sconfitta dell'operaio tradizionale e alla sua sostituzione con un nuovo tipo di operaio, non professionalizzato, non specializzato, mobile, intercambiabile, che ha un rapporto del tutto diverso con la macchina e la fabbrica.

Caratteristica principale di questa nuova figura sociale è prima di tutto l'estraneità ideologica al lavoro, alla sua etica professionale, l'incapacità di presentarsi come portatore di un mestiere e a identificarsi in esso. È unicamente ossessionato dalla ricerca di una fonte di reddito per consumare e sopravvivere. Appare evidente anche la sua assoluta estraneità alle prospettive dello sviluppo, a qualsiasi richiesta di partecipazione. Per lui il lavoro e lo sviluppo sono intesi unicamente come soldi, immediatamente trasformabili in merce da consumare. Ma man mano che percorre le diverse tappe dell'organizzazione del lavoro (la mobilità, la fabbrica, la disoccupazione) l'estraneità si trasforma in opposizione politica scoperta, in rifiuto del lavoro dipendente e da ultimo in pratica della rivolta distruttiva. La sua storia individuale diventa storia collettiva della classe operaia.

Alla Fiat nel 1969, e poi in tutta Italia, il dominio del capitale su questa figura operaia si rompe. Non col formarsi di una nuova coscienza di classe, con la nascita di una nuova ideologia, ma direttamente sulle esigenze materiali. Si rompe nella materialità delle lotte, che hanno caratteristiche differenti da quelle precedenti, perché sono lotte che nascono dentro lo sviluppo. La forza-lavoro del Sud, di cui il capitale vuole servirsi per ottenere lo sviluppo, si rivela inaspettatamente una contraddizione irreversibile, per il suo comportamento polemico fondato sui bisogni materiali. E l'operaio meridionale, ignorante e cafone, mette in crisi la strategia capitalistica degli ultimi cinquant'anni, il modo di produzione in fabbrica basato sulla catena di montaggio e sull'operaio-massa. Una strategia complessiva e collaudata che aveva dato i suoi frutti e su cui anche il movimento operaio, il Partito Comunista e il sindacato, avevano costruito una loro strategia. Che pure viene messa in crisi contemporaneamente.

Per uscire dalla crisi che nel corso degli anni Settanta rischia di bloccare l'intero Paese, grazie all'intreccio delle lotte operaie con quelle studentesche e della società civile, la risposta capitalistica si serve di strumenti analoghi a quelli utilizzati mezzo secolo prima. In primo luogo una repressione violenta, affidata alla polizia e alla magistratura, con migliaia di arresti e di condanne delle avanguardie operaie. Contemporaneamente ondate di licenziamenti, approfittando della crisi energetica del '73. E infine il salto tecnologico, con la scomparsa della catena di montaggio e la robotizzazione della fabbrica, che rivoluziona la composizione operaia. Salvo ristrette èlite di tecnici specializzati, la manodopera viene ulteriormente dequalificata e ridotta. Nasce il lavoratore flessibile, precario, senza tutele (ferie, malattie, pensioni, licenziamento), assunto a tempo determinato o part-time, quando non in nero, in genere dalle piccole imprese dell'indotto che svolgono la maggior parte delle lavorazioni per conto dell'azienda madre. L'investimento tecnologico è ampiamente compensato dalla drastica riduzione del personale, a cui non si applicano i costi e gli oneri del lavoro salariato, e dal suo scarso potere di lotta in fabbrica.

A questa ristrutturazione si accompagna, grazie alla globalizzazione dei mercati, lo spostamento di interi processi produttivi in paesi del Terzo Mondo, con salari minimi e garanzie sindacali inesistenti. Ma anche se tutto ciò ha permesso al capitale di ottenere risultati positivi negli anni Novanta, la profonda crisi economica che lo sconvolge attualmente sembra dimostrate che si è trattato solo di temporanei palliativi. La vittoria del capitale è stata solo apparente, ha innescato forzandolo un processo che porta inevitabilmente a scontrarsi con la questione di fondo, espressa chiaramente trent'anni fa dalle lotte dell'operaio-massa con lo slogan “rifiuto del lavoro”. È una questione epocale, quella della fine del lavoro subordinato, la forma di lavoro coatto che per poco più di due secoli ha permesso in Occidente la nascita e lo sviluppo della civiltà industriale.

Sempre più l'automatizzazione della produzione, e in generale la possibilità di affidare alle macchine e ai computer pressoché ogni tipo di lavorazione e attività, richiede quantità irrisorie di forza-lavoro umana. Perché dunque tutti non dovrebbero poter approfittare della ricchezza prodotta dalle macchine e del tempo di vita liberato dal lavoro? Oggi assurdamente un lavoro non più necessario continua ad essere imposto soltanto perché attraverso di esso si concepisce la distribuzione del denaro, consentendo lo svolgersi del ciclo produzione-consumo delle merci e la conseguente accumulazione del capitale.

Ma è un ciclo che ormai perde colpi, crisi di sovrapproduzione e crollo dei consumi per il dilagare della disoccupazione e della povertà producono una crisi irreversibile, da cui il potere capitalista cerca affannosamente di salvarsi con i giochi criminosi della speculazione finanziaria. Con in prospettiva la distruzione della vita di intere generazioni, di interi paesi, dello stesso pianeta per lo sfruttamento insensato delle sue risorse. È lo spettacolo a cui stiamo assistendo oggi, quello di una perversa voracità che per accumulare nelle mani di pochi immense ricchezze lascia dietro di sé miseria e macerie di un mondo che potrebbe essere ricco e felice.

Ma una nuova epoca attende l'umanità, quando si sarà liberata dal ricatto e dalla sofferenza di un lavoro coatto superfluo e dalla schiavitù del denaro, che impediscono il libero svolgimento delle attività secondo le attitudini e i desideri di ciascuno, rubano e degradano il tempo della vita, mentre esistono le possibilità reali per un benessere diffuso e generale. Questo ha significato e potrà significare ancora oggi e domani l'antico grido di lotta “Vogliamo tutto!”.