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Prefazione di Bifo a “Vogliamo tutto”

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di FRANCO BIFO BERARDI

Come dice Aldo Nove, Balestrini si può considerare l'unico poeta epico del secondo Novecento italiano. Un'epica un po' balzana e saltellante, come il mondo che vuole cantare.

Nella scrittura del dopoguerra italiano, e certo non solo italiano, si intrecciano due tensioni, due intenzioni, due prospettive. Una di contenuto e una di forma, se posso usare questa semplificazione. Quel che si trova al centro della scena storica non è più il popolo, ma le classi in subbuglio, i movimenti che prendono forma nella coscienza e nelle strade. E per tenere il ritmo della città industriale, lo specifico lavoro sul linguaggio preme verso nuove sperimentazioni.

Ma nella letteratura italiana del dopoguerra questi due piani di ricerca sono rimasti per lo più separati. Solo Balestrini mi pare riuscì a contemperare spirito tragico-epico del movimento rivoluzionario e spirito ironico-combinatorio dello sperimentalismo letterario. E il prodotto di questo connubio è il suo romanzo Vogliamo tutto, probabilmente l'opera più importante della letteratura italiana degli anni Settanta.

Vogliamo tutto è un ordigno linguistico di calcolata potenza e di trattenuta passionalità. Passione e ironia si intrecciano con dosaggio sapiente ed esplodono insieme, dando vita a un libro che si può leggere in molti modi: come un resoconto delle lotte sociali del proletariato metropolitano, come un controcanto incalzante e talora balzellante al diffondersi dell’autonomia degli operai, come uno sguardo distaccato, o come un gesto di simpatia del linguaggio per la vita.


Pubblicato per la prima volta nel 1971, Vogliamo tutto è la storia di un operaio arrivato dal Sud nella Fiat in ebollizione, la storia della scoperta della metropoli, della violenza e dell’oppressione capitalistica, della comunità proletaria che si forma, della rivolta che serpeggia e poi esplode. Il romanzo racconta in prima persona le vicende dell’emigrazione dal Sud e quelle della lotta operaia a Torino. La prima persona narrante è quella di un operaio che Balestrini ha fatto parlare e registrato coscienziosamente per poi rimixare il parlato con un ritmo che si piega all’intenzione di una poetica variegata, policroma e polifonica. Quella realizzata è un’operazione che non ha nulla a che fare con il populismo o con il realismo descrittivo. Il lavoro di smontaggio e rimontaggio segue le linee di una metodologia combinatoria che si esercita integralmente sulla materia linguistica con un «procedimento» calcolato (procedimento è la traduzione della parola russa con cui Viktor Sklovskij caratterizza l'azione di ricombinazione compiuta dal poeta sul materiale verbale).

Il prodotto di questa attività combinatoria è un congegno poetico che funziona in virtù non del contenuto discorsivo ma dell'emozione ritmica che promana dal flusso: ondate, ritornelli, mulinelli, interruzioni, sobbalzi.

Il lavoro di Balestrini è tutto concentrato sul ritmo. Le parole non sono che blocchi di materiale elementare da prelevare direttamente dalla realtà.

È qui la caratteristica assolutamente originale di questo scrittore, nel suo operare attraverso prelevamenti di materiale verbale pre-esistente alla scrittura. In questo senso si potrebbe dire che Balestrini è il primo poeta che non ha mai scritto una parola sua, perché le parole per lui sono materiale da ricombinare. Il gesto del poeta consiste nel prelevare parole dallo smisurato territorio verbale circostante, nel predisporne il funzionamento, il ritmo e dunque la potenza emotiva.

Dagli anni Settanta in poi Balestrini ha continuato ad accompagnare le vicende sociali e i sommovimenti culturali con testi narrativi (e poetici) che seguono la medesima regola compositiva. Quel che ne viene fuori è un affresco narrativo che ci racconta il divenire storico e soprattutto antropologico della tarda modernità.

Proviamo ad abbracciare con un solo sguardo la parabola intera dell'opera di Balestrini, che non ha mai voluto essere scrittore storico, ma che racconta la storia degli ultimi cinquant'anni registrando le venature stesse del linguaggio.

Negli anni Sessanta opere come Tristano e Ma noi facciamone un'altra contrappuntano il decennio in cui la civiltà moderna raggiunge la sua raffinata maturità, tra malinconie e struggimenti, fiammate di passione progressista e lunghi rinascimentali indolenzimenti. Poi con Vogliamo tutto Balestrini racconta il passaggio dal decennio Sessanta al decennio Settanta, il periodo felice e pericoloso della rivolta operaia che non promette un mondo nuovo ma lo vive sulle strade, nella comunità delle lotte e degli entusiasmi.

Nei libri successivi, Balestrini racconta il lungo (interminabile) periodo degli Invisibili, emarginati dapprima, ribelli rifugiati poi, infine scomparsi nelle prigioni o nelle lontananze clandestine. E la Violenza illustrata dei rituali aggressivi quotidiani, e del controcanto terroristico e terrorizzato.

Quindi, per rendere conto del momento in cui la parabola storica si è spezzata Balestrini ritorna, con L'editore, su uno dei momenti culminanti della storia degli anni Settanta: quando la tragedia comincia a rivelarsi, quando la rivolta contro il mondo esistente si rovescia nella tenebrosa disfatta della violenza e della morte.

E infine, dopo l'esilio, dopo quegli anni Ottanta che trasformano l'Italia in un paese dominato dai sarti e dai parrucchieri, eccoci fuori dal tunnel della fuga e della paura, in un mondo luminosamente idiota. I furiosi sono la canzone urlata di un'umanità che di umano non ha più nulla, una folla che si agita per effetto di un eccesso energetico decerebrato. Uno straordinario omaggio epico all'imbecillità gesticolante dell'epoca televisiva.

E in fondo alla parabola, non può che ritrovarsi la violenza. Non più la violenza terribile delle grandi idealità comuniste e dei furori anarchici, non più la violenza epica delle esplosioni sociali sovversive, ma la spietata violenza criminale del camorrista Sandokan. Un personaggio che sembra riassumere le qualità di un'epoca di degrado civile e morale come quella dell'Italia di oggi.