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Premessa - Non c’è euro che tenga

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di MARCO BERTORELLO

Sono trascorsi sette anni dalle prime avvisaglie e sei dalla sua esplosione, ma di una vera fine della crisi non si vedono segnali. Secondo una fastidiosa retorica che deve dispensare ottimismo il 2014 finalmente doveva essere l’anno della ripresa. Una retorica che non fa mai un bilancio dei proclami d’inizio anno e, soprattutto, che ignora le ragioni delle secche smentite che giungono dalla realtà. Con i dati aggiornati a metà anno, però, il senso di marcia dell’economia si può comprendere. L’Italia è tornata in recessione, dopo averla sospesa statisticamente con una parentesi di tre mesi in cui la crescita era stata dello 0.1% del Pil. Il suo debito pubblico è in costante crescita, sia in termini assoluti sia in relazione al Pil, dai tempi del governo Monti.

La produzione industriale in questi anni è crollata in termini fisici del 24.6%, cioè è ai livelli del 1986, il Pil è diminuito del 9.1% e quello pro-capite dell’11.5%. Confindustria ammette che l’Italia si presenta alle porte del 2014 «con pesanti danni paragonabili solo con quelli di una guerra». Nel 2014 il segno non sembra invertirsi, anzi: rallenta l’economia della Germania (secondo trimestre rilevato persino con una contrazione del Pil uguale a quella italiana, -0.2%), ristagna la Francia, oscillano di trimestre in trimestre dal segno meno al più zero qualcosa paesi come Olanda e Finlandia. Tutta Europa vive un momento di stagnazione, con rischio di deflazione alle porte a complicare ulteriormente il panorama. A rappresentare con un’immagine la situazione ci pensa la copertina dell’autorevole settimanale inglese The Economist del 30 agosto 2014, in cui si vede una barca di carta che sta affondando, a bordo ci sono la Merkel, Hollande e Renzi impassibili e dietro un presidente della Bce, Draghi, intento a togliere l’acqua con un secchio. Il titolo della copertina è «Quella strana sensazione di affondare (di nuovo)». L’articolo di commento, poi, conclude rimarcando come non sia finito il pericolo che uno dei paesi aderenti all’euro decida di abbandonare la divisa comune e come la crisi dell’eurozona non sia affatto superata.

Insomma in un contesto economicamente difficile, socialmente insopportabile, tanto che nessuno può far finta di niente, si afferma una gara ad avanzare critiche all’Unione Europea, ma sempre dal segno superficiale. I toni sono persino forti, come quando Romano Prodi, ex presidente della Commissione europea, denuncia come la Germania sia diventata «la padrona d’Europa», oppure come Massimo D’Alema, ex presidente del consiglio e attualmente vicepresidente dell’Internazionale socialista che scrive un libro dal titolo Non solo euro, in cui si denuncia «la razionalità economica dominante». Ma raramente viene proposta una correzione di rotta che non sia semplicemente quel poco che la situazione disastrosa rende obbligatorio. Anche Renzi, per quanto utilizzi un linguaggio antiburocratico e rivendicativo più accattivante, non sembra intenzionato ad aprire realmente una questione Europa.

Il dibattito mainstream sui mali che affliggono l’Italia è quindi insopportabilmente conservatore. E di tale tendenza è intriso anche il confronto nella sinistra più o meno ufficiale, o in quel che ne resta. A fronte della crisi che attanaglia il paese, una crisi senza precedenti almeno considerato il complessivo contesto globale e le principali prospettive di fondo, prevale uno strano savoire faire, un ragionare di fioretto dentro le più importanti compatibilità di sistema. Specificatamente sull’impalcatura dell’Unione Europea e della moneta unica le sole carte giocate sono quelle di una maggiore democrazia sul versante politico e dell’unione bancaria e dei bond continentali oltre ipotizzando un quantitative easing in salsa continentale, cioè l’allargamento della base monetaria mediante l’acquisto di titoli, presumibilmente anche di Stato. Dai più, dunque, un approccio minimalista a fronte di un cataclisma pienamente in corso, una sproporzione incredibile.

In alcuni emerge invece un atteggiamento figlio di una fede cieca nel progresso lineare, ben rappresentato dal filosofo della scuola di Francoforte Jurgen Habermas, il quale dichiara che l’Europa deve unire le forze per incidere nell’agenda e nella soluzione dei problemi globali e che, di conseguenza, «rinunciare all’Unione europea significherebbe anche prendere congedo dalla storia mondiale»5. Tale visione implica che ogni passo indietro o momento di stallo costituirebbe una battuta d’arresto e il sottrarsi dal mitico racconto umano. Una visione teleologica della storia incapace di leggere le odierne contraddizioni sia sul piano degli effetti della globalizzazione economica sia sulle ricadute nella declinante Europa. E che non dice che proprio nei passaggi essenziali su scala mondiale l’Europa ha alzato voci contrastanti sia dentro al perimetro della moneta sia in quello dell’Unione. Non c’è stato conflitto bellico negli ultimi anni che non sia stato affrontato in ordine sparso, con alleanze spurie che rispondevano alla tutela dei propri interessi nazionali o al grado di adesione alle politiche di guerra degli Usa, con molteplici ribaltamenti di fronte tra paesi favorevoli alla pace e alla guerra in base al tipo di conflitto preso in esame. Per non dire di come questi anni siano stati all’insegna di un’omologazione dell’Europa al modello anglosassone e liberista piuttosto che a quello sociale e centro-europeo. Non è stata l’Europa a cambiare il modello mercatista quanto quest’ultimo a cambiare l’Europa. I dubbi, le critiche, le riserve, per Habermas vanno bene, ma solo se consentono di rimanere aggrappati al treno della storia. Un treno trainato dai motori dell’economia e del mercato.

L’unica opzione critica che ha valore di progetto compiuto è costituita dalla prospettiva di uscire dall’euro. Un progetto inteso come prerequisito per uscire dalla crisi in cui versano Italia & co.

Io tenterò di sottrarmi a questa logica binaria secondo cui o stai con l’euro oppure sei per abbandonarlo. In entrambi i casi con un approccio piuttosto palingenetico, in cui la soluzione dei problemi è in alternativa alla catastrofe, sia in una direzione sia nell’altra.

Mi soffermerò molto sulla prospettiva dell’uscita dall’euro, poiché tale slogan, nel senso buono del termine (cioè di idea semplificata che rimanda a un progetto), mi pare stia avendo consensi crescenti anche a sinistra, oltre che a destra. Una distinzione, quest’ultima, che è andata perdendo di polarizzazione, rimescolando spesso confini culturali, in special modo nelle classi subalterne. Esiste un’adesione trasversale alla soluzione dell’uscita dall’euro, adesione che ci dà la misura del discredito delle politiche dominanti e della disponibilità a pensare fuori dagli schemi consueti. Proverò a incunearmi su questo fertile terreno con un ragionamento un po’ differente. Il tema è certamente complesso e rimanda non solo a scelte economiche squisitamente tecniche, ma anche a scelte politiche e sociali. Per certi versi il tema rischia di essere complicato anche dalla sovrapposizione dei termini in questione. Abbiamo, infatti, l’Unione europea fatta di 28 paesi membri e una moneta unica ma non dell’intera Unione, bensì solo di 18 paesi. A volte si ritiene, con qualche ragionevolezza, che la fine dell’euro condurrebbe alla fine dell’Unione; a ciò viene contrapposto un ragionamento che nel perseguire la fine dell’euro intenderebbe rilanciare l’unione dei paesi, cioè di un mercato unico senza barriere tariffarie e doganali. In effetti tutto può accadere. Non è pensabile che tornare alle divise nazionali sia semplicemente impedito dai trattati costituenti l’euro. La ragione di una mancata formalizzazione della prospettiva di un ritorno alle singole monete, può svolgere, e ha svolto, una funzione di deterrente, ma non può essere assurta a motivo di impedimento perentorio.

Una strada per l’uscita dall’euro, se dovesse essere l’unica strada percorribile per sottrarsi alle peggiori regole di bilancio della Ue, si può trovare sempre. Non è certo questo il problema. Alle regole viene sempre incontro la politica.

Nelle recenti elezioni europee il cosiddetto populismo antieuropeo non ha sfondato, ma ha comunque ridisegnato alcuni equilibri, per esempio nel caso britannico la principale forza anti-euro si è affermata come primo partito, laddove conservatori e laburisti hanno tradizionalmente in mano i termini dell’alternanza. Anche dalle spinte indipendentiste come quella scozzese (appena fermata al referendum al prezzo di ulteriori concessioni autonomiste), catalana, belga trae nuovo vigore il famigerato populismo.

Termine quest’ultimo diventato una sorta di contenitore per bollare in un’unica dimensione qualsiasi forma di dissenso radicale viva e operi nella società. Il sociologo Gérard Mauger definisce il termine populismo una sorta di «parola itinerante» in cui «vengono raccolti alla rinfusa gli oppositori – siano essi di destra o di sinistra, votanti o astensionisti – alle politiche messe in atto dalle istituzioni europee». Questa «inconsistenza del sostantivo deriva dalla diversità dell’uso che ne viene fatto», dall’estensione del suo campo di riferimento. Ma nel suo complesso, il sedicente populismo, in quanto opposizione, un risultato l’ha ottenuto. A livello continentale ha costretto la politica ufficiale ad agire in regime di emergenza permanente anche a livello parlamentare. Dopo i casi di Grecia, con la nomina a capo del governo di Loukas Papademos, e Italia, con Mario Monti, passando per la Grosse Koalition tedesca che sostiene Angela Merkel, i numeri a favore dell’Europa sono andati diminuendo, costringendo le forze storiche ad allearsi. Nel parlamento europeo, a suggellare questa tendenza, nasce una maggioranza costituita da popolari e socialdemocratici, l’unica possibile per il proseguimento senza scosse del progetto europeo, al prezzo di presunte e storiche differenze. I due principali filoni politici e culturali del Vecchio continente, dunque, sono costretti ad allearsi per far sopravvivere l’Europa, un progetto però che perde definitivamente la politica a tutto vantaggio della tecnica, finanziaria ed economica. I filoeuropeisti si uniscono quasi tutti. Come in Grecia e in Italia l’emergenza è dettata dalla volontà dei mercati e non più da progetti politici distinti e autonomi. Un processo che viene da lontano, ma che con la crisi si radicalizza.

Dentro le istanze sociali maldestramente semplificate e confuse nella categoria del populismo si trovano invece le potenziali spinte per un ritorno della politica, nel senso di governo collettivo e radicalmente democratico. Ciò può avvenire a condizione che si affermi una nuova visione della polarizzazione politica, contraddistinta dalla logica che il basso si riesca a organizzare contro l’alto. Ecco il vero discrimine da praticare in questi tempi difficili.

Questo testo è diviso in 9 brevi punti che vogliono costituire una bozza di riflessione su temi tanto complessi quanto urgenti. Inizio riflettendo sulle ragioni che hanno spinto alla costituzione dell’euro dentro un processo globale di trasformazione degli Stati-nazione, per poi analizzare il rischio di sovrastimare il ruolo della moneta nei meccanismi economici attuali. Seguono i limiti delle politiche dominanti sull’Europa, sotto il segno dell’austerità combinata con il liberismo, poi i limiti dell’opzione che vuole rafforzare l’Europa per superare le attuali impasse. Finisco con il ragionare dell’araba fenice della sovranità monetaria, degli spauracchi allarmisti delle conseguenze di un’uscita dall’euro, ma allo stesso tempo di ciò che costituirebbe la principale strada dell’opzione no-euro: la svalutazione competitiva. Concludo soffermandomi su quali strategie possano essere più efficaci per rilanciare gli interessi delle classi subalterne e dei ceti popolari.

Questo lavoro è un approfondimento e una sistematizzazione di contenuti che ho iniziato a elaborare in occasione di un incontro pubblico con Marino Badiale tenutosi al Circolo Arci “Lo Zenzero” di Genova dal titolo Euro si o euro no?. Badiale da tempo sostiene la tesi antieuro e quell’incontro mi ha consentito di approfondire l’argomento. Il confronto è stato proficuo, con tesi diverse sull’euro, ma all’interno di una comune matrice che ritiene il cambiamento radicale dell’esistente una necessità.

La polemica con le sue tesi presente in questo libro, dunque, è frutto di un dissenso che ci siamo garbatamente già espressi, ma che penso non intacchi la reciproca stima. Spero solo non aver travisato il suo punto di vista a vantaggio del mio, ma di aver focalizzato quanto ci divide sull’interpretazione della moneta unica.

Il tema, come detto, è complesso, dunque il testo che segue intende costituire un punto di vista da approfondire, non ha un carattere compiuto e definitivo, è aperto a ulteriori approfondimenti e, perché no, a smentite. La strada della trasformazione non si presenta diritta, ricerca e soprattutto conflitti concreti ci

parleranno di dove incamminarci più convintamente. I tempi sono difficili, ma anche stimolanti, per cui si tratta di continuare a provarci. Ringrazio, quindi, Marino Badiale che da quella occasione ho avuto ripetutamente modo di apprezzare e il circolo dello Zenzero per l’opportunità che mi ha dato. Infine voglio ringraziare Danilo Corradi per i suoi consigli puntuali.