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Fuori da sé. Sui limiti dell’autonomia sessuale - Estratto

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di JUDITH BUTLER

 

Chiedersi che cosa renda il mondo vivibile non è un interrogativo velleitario, o “da filosofi”. Se lo sono chiesto tante persone, in varie lin­gue, in varie epoche, in varie fasi della loro esistenza; se poi il semplice fatto di chiederselo ci renda tutti filosofi, allora sono felice di approdare a questa conclusione.

Credo che si tratti innanzitutto di una questione etica. E non mi riferisco solo a quando ci chiediamo, da una prospettiva biografica, cosa renda sopportabile la nostra vita, ma anche quando, da una certa posizione di potere (e dunque sotto un profilo di giu­stizia distributiva), ci chiediamo che cosa renda, o dovrebbe rendere, la vita altrui sopportabile. Quando proviamo a dare una risposta, in un certo senso ci troviamo a oscillare tra una prospettiva descrittiva (ciò che la vita è) e una normativa (ciò che la vita dovrebbe essere); ma in quei momenti ci troviamo anche coinvolti in una determinata visione di che cosa costituisca l’u­mano, di che cosa caratterizzi in maniera distintiva la vita umana, e co­sa invece no. Il rischio sempre in agguato è quello dell’antropocentrismo, se si pre­sume che abbia un valore, o un valore maggiore, una vita riconoscibil­mente umana, o che questo rappresenti l’unico modo per affrontare il problema del valore. Per aggirare questo rischio può forse essere utile tenere aperte entrambe le domande, sia quella relativa alla vita, sia quella relativa all’umano, senza lasciarle sprofondare l’una nell’altra.

Vorrei dedicare questo saggio al problema dell’umano, al problema di chi conti come umano e di quali vite con­tino come vite e, infine, a quel problema che per molte/i di noi ha costituito un autentico tarlo: che cosa rende una vita degna di lutto? Per quan­te differenze possano esservi all’interno della comunità lesbica e gay in­ternazionale, e ve ne sono molte, io credo che noi tutte/i sappiamo cosa signi­fichi aver subito la perdita di una persona amata. Se abbiamo subito una perdita ciò significa che prima avevamo qualcuno, che abbiamo desiderato, amato e lottato al fine di trovare le condizioni per il nostro desiderio. Negli ultimi decenni tutti/e noi abbiamo perso qualcuno a causa dell’AIDS, e ora vi sono altre perdite e altre malattie che ci vengono inflitte. Co­me comunità siamo inoltre particolarmente soggetti alla violenza, anche se alcuni di noi non l’hanno mai subita personalmente. Ciò significa dunque che ci troviamo a essere poli­ticamente costituiti dalla vulnerabilità sociale dei nostri corpi: siamo luo­ghi del desiderio e della vulnerabilità fisica, pubblicamente esposti e, al contempo, as­sertivi.

Non sono certa di sapere quand’è che il lutto si dica compiuto, né quanto tempo occorra per elaborarlo del tutto. Tuttavia sono certa che ciò non equivalga a dimenticare la persona scomparsa, o a rimpiazzarla. Non credo che funzioni in questo modo. Cre­do invece che il lutto consista nell’accettare il fatto che la perdita por­terà con sé un cambiamento, che durerà forse per sempre, e che tale lutto ha a che fare con la disposizione a subire una trasformazione, i cui effetti non è possibile conoscere in anticipo. Quindi c’è la perdita, da un lato, ma c’è anche la trasformazione prodotta dalla perdita, dall’altro, e questa non può essere schematizzata o programmata. Ad esempio, non penso che si pos­sa invocare, nel caso del lutto, una sorta di etica protestante. Non è possibile dire «affronterò il lutto in questo certo modo e otterrò questo risultato, mi dedicherò a questo compito e mi sforzerò di superare il dolore che mi si presenterà». Credo che il dolore colpisca a tratti e che ci si alzi al mattino con uno scopo, con un proposito, un progetto, per trovarsi alla fine frustrati, letteralmente a terra. Ci si sente sfiniti senza sapere il perché. Si tratta dunque di qualcosa che va oltre le nostre precise intenzioni, i nostri pro­getti, la nostra stessa possibilità di conoscere. C’è qualcosa che si impadronisce di noi: ma da dove proviene questo qualcosa – dal nostro Io, da qualcosa che sta al di fuori di noi, o da un luogo in cui questi due elementi si sovrappongono? Cosa ci reclama in questi momen­ti, durante i quali non siamo più padrone di noi stesse? A che cosa sia­mo legate? E da cosa siamo catturate?

Si potrebbe pensare che si tratti di un’esperienza temporanea, ma potrebbe anche accadere che in tale esperienza venga rivelato qualcosa riguardo chi sia­mo, qualcosa che evidenzia i nostri legami con gli altri, che ci rivela che quei legami costituiscono il senso del nostro Io, che ci danno una forma, e che quando li perdiamo, perdiamo la nostra compostezza nel suo si­gnificato essenziale: non sappiamo più chi siamo e che cosa facciamo. Molti pensano che il dolore appartenga alla sfera privata, che ci ripor­ti a una condizione di isolamento; io invece sostengo che esso riveli la costitutiva socialità del sé e che rappresenti il principale fondamento per un ripensamento della nozione di comunità politica.

Non si tratta – semplicisticamente – del fatto di poter dire di avere queste o quelle relazio­ni, o di potersi rilassare e considerarle con distacco, elencandole, spiegando cosa significhi quel rapporto di amicizia, o che importanza abbia, o abbia avuto, per noi, quell’amante. Ciò che il dolore rivela, piuttosto, è la dipendenza su cui si fondano le nostre relazioni con gli al­tri. Si tratta di una dipendenza che non sempre è possibile narrare o giustificare, che spesso interrompe il resoconto cosciente che si prova a dare di se stessi e che sfida la stessa idea di un Io autonomo e sovrano. Potrei tentare di raccontare la storia di ciò che sto provando, ma si tratterebbe di una storia nella quale l’“Io” che cerca di narrare la sto­ria viene interrotto nel bel mezzo della narrazione. L’“Io”, in quanto ta­le, viene chiamato in causa dalla sua relazione con l’altro, a cui si rivolge. Tale relazione con l’Altro non danneggia la mia storia, né mi costringe al silenzio, ma, inevitabilmente, scompagina la mia parola at­traverso un’irruzione che mi destabilizza – che mi disfa.

[…]

È qui in gioco un concetto più generale dell’umano, un concetto per il quale siamo sin dall’inizio consegnati all’altro, e cioè ben prima dei processi di soggettivazione: ciò avviene in virtù della nostra mera corporeità. Dunque, questo im­plica non soltanto che siamo vulnerabili alla violenza, ma che siamo vulnerabili anche a un altro genere di contatto: un contatto che riguarda, da un lato, lo sradicamento del nostro es­sere e, dall’altro, il sostentamento fisico della nostra vita.

Questa vulnerabilità non è rettificabile, né è possi­bile risalire alla sua fonte, poiché essa precede la for­mazione dell’“Io”. La condizione di essere esposti sin dall’inizio, dipendenti da coloro che non conosciamo, è tale da non poter essere discussa, né confutata. Veniamo al mondo del tutto inconsapevoli e del tutto dipendenti e, in una certa misura, rimaniamo tali. Potremmo sfidare questo fatto anteponendovi il concetto di autonomia, ma sarebbe forse sciocco, se non proprio pericoloso, se lo facessimo. Chiaramente ciò non significa che questa scena primaria in cui il soggetto emerge sia uguale per tutti: per alcuni è una scena straordinaria, piena d’amore, accogliente, un cal­do tessuto di relazioni che sostengono e nutrono la vita; per altri è invece una scena di abbandono, di violenza e di deprivazione. Meri corpi abbandonati al nulla, alla brutalità, all’inedia. Quale che sia la va­lenza di questa scena, tuttavia, rimane il fatto che l’infanzia costituisce una fase di dipendenza necessaria, in cui fondamentalmente non siamo liberi. Il corpo è sempre dipendente da quello di altri/e. Per poter comprendere le forme di oppressione, pertanto, è anzitutto necessario comprendere che non esiste una spiegazione in grado di risolvere questa condizione di vulnerabilità primaria, dell’essere esposti al contatto con l’al­tro, anche quando questo altro è assente o non adempie al suo dovere di sostenere la vita di chi non può farlo “autonomamente”. Per opporsi all’oppressione, di conseguenza, è necessario comprendere che esistono modi diversi di prendersi cura e di preservare la vita, e anche che vi sono diversi gradi di distribuzione della vulnerabilità uma­na sul nostro pianeta. Alcune vite sono prudentemente protette e ogni at­tacco alla loro intangibilità è sufficiente a mobilitare interi apparati militari. Altre vite non trovano un sostegno così immediato e solerte perché fondamentalmente non sono considerate “degne di lutto”.

Quali sono i confini culturali dell’umano implicati in questa distinzione? E in che modo questi confini (che propriamente strutturano la nostra concezione dell’umano) stabiliscono quali perdite possono essere effettivamente considerate tali? Si tratta di un problema che gli studi sulla sessualità hanno sollevato in relazione alla violenza nei confronti delle mi­noranze sessuali; lo stesso problema si è posto alle persone transgender nel momento in cui hanno dovuto subire forme di abusi e di violenze, fino alla morte; lo stesso problema, inoltre, si è posto anche alle persone intersessuali, le quali, nell’infanzia, spesso subiscono forme di intervento non richieste sui propri corpi, in nome di una nozione normativa di morfologia umana. La questione della vulnerabilità è pertanto alla base della profonda affinità tra i mo­vimenti che si occupano di genere e di sessualità, e degli sforzi com­piuti per contrastare le nozioni normative di morfologia e di capacità umane, secondo le quali i corpi di coloro che sfidano le nozioni comunemente accettate sono da stigmatizzare, se non proprio da eliminare. Ma tale questione potrebbe coinvolgere anche le lotte antirazziste, se si considera il peso determinante che la discriminante razziale gioca nelle nozioni comuni di “umano” (ossia, quelle che vediamo rappresentate, in modo drammatico e violento, nell’attuale sce­nario globale).

Qual è dunque la relazione fra la violenza e ciò che è “irreale”, fra la violenza e l’irrealtà che permea lo statuto di coloro che diventano vittime di violenza, e quando subentra la nozione di una vita indegna di lutto? A livello discorsivo alcune vite non sono considerate affatto tali, non possono essere umanizzate, non si adattano a nessuna definizione corrente di umano. La loro disumanizzazione, pertanto, avviene in primo luogo a questo livello, e in seno a essa si origina una violenza fisica che, in un certo senso, veicola un messaggio di disumanizzazione che è però già in at­to sul piano culturale.

Non si tratta quindi solo del fatto che vi è un ordine del discorso in cui non si dà una cornice, una storia e un nome per questo tipo di vite, o del fatto che la violenza rappresenti la concretizzazione o l’applicazione di questo ordine. La violenza contro quelle che non sono ancora, propriamente, delle vite, contro coloro che vivono in uno stato di perenne incertezza tra la vita e la morte, lascia un segno che tuttavia non è un segno. Se vi è un discorso, si tratta di una silenziosa e melanconica scrit­tura, in cui non si narra né di vite né di morti: non c’è alcuna condizione corporea condivisa, alcuna vulnerabilità che funga da presupposto per comprendere la nostra comunanza, nessuna frattura di tale comunanza. Niente di tutto ciò ha luogo nella sfera degli even­ti. Niente accade. Quante vite, negli ultimi anni, sono andate perdute in Africa a causa dell’AIDS? Dove sono le rappresentazioni mediatiche di queste perdite? E dove, invece, le produzioni discorsive del significato che quelle perdite hanno avuto per le rispettive comunità?

All’inizio di questo saggio ho suggerito che i diversi movimenti e approcci teoretici a cui ho fatto riferimento dovrebbero forse consi­derare l’autonomia come una dimensione delle loro aspirazioni nor­mative, un valore da concretizzare quando ci chiediamo in quale dire­zione dovremmo procedere e quale genere di valori dovremmo realiz­zare. Ho suggerito anche che il modo in cui viene rappresentato il cor­po, negli studi sul genere e sulla sessualità e nelle lotte per una società più tollerante nei confronti delle differenze e delle minoranze sessuali di ogni tipo, sia proprio quello che sottolinea il valore dell’es­sere al di fuori di se stessi, di essere un confine permeabile, consegna­to agli altri, del ritrovarsi sulla traiettoria di un desiderio, in cui si è tra­sportati fuori di sé e ricollocati, in modo irreversibile, in un territorio che è di altri e in cui non si è in un ipotetico centro. La peculiare socialità, che appartiene alla vita corporea, alla vita sessuale e al divenire differenziati sotto un profilo di genere (che è sempre, in una cer­ta misura, una differenziazione per gli altri), stabilisce un ambito in cui siamo eticamente implicati con gli altri, oltre a provocare un senso di disorientamento della prima persona singolare, ossia, della prospettiva dell’Io. In quanto corpi, esistiamo sempre per qualcosa che va oltre noi stessi, per qualcosa che è altro da noi.

[…]

La questione di chi e che cosa sia considerato reale e vero riguarda, in apparenza, il sapere. Ma è anche, come puntualizza Michel Fou­cault, una questione di potere. Possedere, o apportare, “verità” e “realtà” rappresenta una prerogativa di enorme potere, ed è precisamente una delle modalità attraverso cui il potere si dissimula come ontologia. Secondo Foucault, uno dei primi compiti di una critica radicale è discernere la relazione «tra i meccanismi di coercizione e gli elementi di conoscen­za»[1]. Veniamo qui messi di fronte ai limiti di ciò che è conoscibile, li­miti che esercitano una certa forza, ma che non sono fondati su alcuna necessità e possono solo essere calpestati o interrogati, a rischio di una certa sicurezza, qualora ci si allontani dall’ontologia stabilita:

non si può infatti configurare un elemento di sapere se, da un lato, non è conforme a un insieme di regole e costrizioni proprio di un certo tipo di discorso scientifico a una data epoca; e se, d’altro canto, non è dotato de­gli effetti di coercizione tipici di ciò che è convalidato come scientifico, o semplicemente razionale o comunemente recepito[2].

Non è possibile separare il sapere e il potere in maniera definitiva, in quanto essi agiscono congiuntamente nella creazione di un insieme di sottili ed espliciti criteri attraverso i quali giudichiamo il mondo:

non si tratta perciò di descrivere ciò che è sapere e ciò che è potere e co­me uno reprimerebbe l’altro o come l’altro abuserebbe dell’uno; ma piut­tosto di individuare il nesso di sapere-potere che permette di cogliere le condizioni di accettabilità di un sistema[3].

Ciò significa che la ricerca delle condizioni attraverso cui si costituisce il campo in oggetto è anche la ricerca dei limiti di tali condizioni. I li­miti vanno ricercati là dove non è garantita la riproducibilità delle condizioni, nel luogo in cui le condizioni sono contingenti e mutevoli. Per dirla con le stesse parole di Foucault, «in termini schematici, si può parla­re di mobilità perpetua, di essenziale fragilità o, piuttosto, di intreccio tra ciò che riproduce lo stesso processo e ciò che lo trasforma»[4].

Intervenire in nome della trasformazione significa, esattamente, in­frangere ciò che è considerato un sapere certo e una realtà conoscibi­le, e far uso, per così dire, della propria “irrealtà” per avanzare pretese altrimenti impossibili o illeggibili. Io credo che quando l’irreale avanza pretese sulla realtà, o entra nel suo dominio, possa accadere, e ac­cade, qualcosa di diverso dalla semplice assimilazione alle norme do­minanti. Le norme stesse possono essere scardinate, mostrare la loro instabilità e aprirsi a una nuova significazione.


[1] M. Foucault, Illuminismo e critica (1978), a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 50.

[2] Ivi, p. 52.

[3] Ivi, p. 52 e s.

[4] Ivi, p. 58.