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Alla conquista della città

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di SIMONA DE SIMONI

Le droit à la ville, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1968, è forse il testo più celebre – certamente il più citato – di Henri Lefebvre. Subito tradotto in diverse lingue (la prima edizione italiana è del 1970), il testo mette a fuoco in modo nitido la ridefinizione del rapporto tra città e campagna – marxianamente, la ristrutturazione dei rapporti sociali di produzione all'interno di una congiuntura specifica – innescata dal processo di rapida urbanizzazione nella Francia degli Cinquanta e Sessanta. La “crisi della città”, come Lefebvre la definiva, annunciava, infatti, la crisi di un assemblaggio economico-sociale specifico, quello del capitalismo fordista.

Il carattere generale dell'ipotesi spiega l'interesse diffuso che il testo seppe attrarre su di sé alla pubblicazione e – se pure in modo meno scontato – ne giustifica anche la rinnovata attenzione che motiva, nel panorama di una vera e propria Lefebvre's renaissance, la felice riedizione italiana (Ombre Corte, 2013). La categoria del “diritto alla città”, infatti, torna di moda in relazione ad un nuovo scenario di crisi e se, come Lefebvre dichiara, la sua funzione primaria è di «aprire il pensiero e l'azione», allora è certo che la sua utilità non è tramontata.

Come giustamente si è osservato (David Harvey in primis, ma non soltanto) sono stati soprattutto i movimenti sociali urbani degli ultimi anni a riportare l'attenzione sul diritto alla città e, dunque, a determinarne la ridefinizione all'interno di un contesto storico e politico differente da quello della sua concezione originaria. Tuttavia, ciò non significa che il riferimento lefebvriano assuma una valenza puramente nominale e che la formula si traduca in una sorta di etichetta generica – applicata per lo più ex post  – per raggruppare diversi esperimenti politici che contemplano la città come scenario comune e termine di riferimento condiviso.

Al contrario, in modo quasi paradossale, la caratterizzazione specifica della categoria fornita da Lefebvre risulta oggi particolarmente utile per esorcizzarne una generalizzazione depoliticizzata. Infatti, vi è una differenza sostanziale (il che non significa necessariamente opposizione) tra una generica richiesta di equa ripartizione – per altro assolutamente legittima – della ricchezza prodotta e circolante nella metropoli e la lotta di classe, tra le buone pratiche e la lotta politica. Il ricorso di Lefebvre al termine «diritto» ha generato qualche confusione in merito, che qui si cercherà di dissipare fornendo – lo si spera – qualche input convincente alla (ri)lettura del testo.

A questo proposito conviene spaccare in due, se così si può dire, la categoria del diritto alla città. Al suo, interno, infatti, non si pone soltanto un problema di programma (definire il contenuto del diritto alla città e i modi per realizzarlo), ma anche, e forse soprattutto, un problema di soggettività. Per Lefebvre – e questo è un punto trascurato nelle riletture correnti – il soggetto per il quale il diritto alla città definisce una potenzialità (un “oggetto virtuale”, nel lessico filosofico dell'autore) non è scontato e predefinito. L'esplosione della città – della città fordista, dello spazio organizzato a partire dalle esigenze tecniche della produzione e della riproduzione capitalistica – come condizione storica concreta all'interno della quale si definisce, per l'autore, la questione del diritto alla città, infatti, non è separabile dall'esplosione della rivolta del 1968 attraverso cui un nuovo soggetto di classe “irrompe” sulla scena sociale.

A questo proposito conviene ricordare che, in un phamplet pubblicato praticamente in concomitanza con Le droit à la ville, Lefebvre riconosce l'emergere di un nuovo proletariato urbano proveniente dalle periferie e socializzato nelle Habitations à loyer modéré e nelle cité (emblemi tanto della rapida urbanizzazione, quanto della decolonizzazione) e lo descrive in toni enfatici e positivi come un soggetto portatore di un odio tanto cieco quanto sano, disinvolto nella pratica della violenza e diretto «alla conquista della città e della vita con un'audacia sublime». Da questo accenno sintetico emerge con chiarezza che il riot urbano costituisce l'esperienza genetica che pone la questione del diritto alla città come problema di classe. Non a caso, infatti, lo stesso Lefebvre – rielaborando un'ipotesi che fu già di Marx – ne individua l'archetipo nella Comune di Parigi del 1871.

Da questo punto di vista, la genealogia del diritto alla città non va esplorata a partire dal mito democratico della polis, ma, al contrario, dall'immersione in uno straordinario «archivio del disordine» in cui sono conservati i resti e le tracce di una storia politica mal raccontata o addirittura rimossa: una storia di ribellioni, di rivolte e di insurrezioni, di rottura della passività, di rifiuto della miseria e di amore per la città.  L'opzione genealogica – come noto – non riguarda mai soltanto il passato. Nel caso specifico, infatti, si tratta di ridefinire un intero immaginario politico a partire dall'esperienza delle rivolte urbane: pensare un soggetto, ancor prima che un oggetto e, pensare il secondo soltanto a partire dalla definizione del primo. Quando Lefebvre afferma che non esiste alcun diritto alla città, se non quello che si impone insieme alle lotte per realizzarlo, intende esattamente questo.

Tutto ciò non è indifferente rispetto alla seconda problematica introdotta dalla categoria del diritto alla città, cioè quella relativa all'oggetto, al programma. Sul piano strettamente teorico, dal punto di vista lefebriano, il diritto alla città afferma il ripristino del valore d'uso dello spazio contro il valore di scambio conferitogli dal capitalismo. Si tratta, dunque, della riedizione di una distinzione classica (e notoriamente problematica) introdotta da Marx e della sua applicazione alla città.

Questa definizione, solo apparentemente semplice, ha generato – e genera in continuazione – un grande equivoco secondo cui il valore d'uso della città si esprimerebbe nel cosiddetto “spazio pubblico”: qualche bel parco, un patrimonio storico-artistico ben conservato e, al più, un programma di locazione popolare dignitosa e il valore d'uso della città sarebbe messo al sicuro. Al contrario, per Lefebvre, l'affermazione del valore d'uso della città definisce semplicemente l'apertura di un fronte di inimicizia contro un complesso assemblaggio economico-istituzionale che ne definisce il valore di scambio e di cui, in modo assolutamente esplicito per l'autore, lo Stato è una componente essenziale.

Se in questo modo Lefebvre fornisce una definizione ex negativo del diritto alla città, in termini positivi egli lo riconduce ad un «diritto alla vita urbana, trasformata e rinnovata». Tenendo conto della complessa determinazione del termine «urbano» che Lefebvre comincia a rielaborare proprio in Le droit à la ville e su cui torna in modo più disteso nel successivo La revolution urbaine (1970), si può dunque sostenere che il diritto alla città si configuri come l'insieme delle pratiche conflittuali che mirano al godimento collettivo delle possibilità di vita garantite dal massimo grado di sviluppo storicamente raggiunto: ricchezza, mobilità, formazione, socialità, e così via. In relazione a questo secondo significato, anche il richiamo al valore d'uso diviene più esplicito: il diritto alla città, infatti, si esprime, di necessità, contro la forma merce. Come afferma Lefebvre, l'immagine dell'inferno urbano che si prepara non è meno affascinante di quella prospettata dallo spettro che un tempo si aggirava per l'Europa.