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Supportare la resistenza, ma preparare l’offensiva

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di MATTEO MONTAGUTI

Qua lo si dice chiaro e tondo: Dove sono i nostri è un libro che per le questioni che pone (tanta la carne al fuoco) dovrebbe essere come minimo al centro dei dibattiti di movimento; un testo che dovrebbe essere letto, diffuso, discusso e approfondito da tutti quei soggetti – sia individuali che collettivi – la cui volontà è porsi antagonisticamente, sul piano reale della cruda materialità quotidiana, allo stato di cose presenti, con l’obiettivo concreto di abolirle. Un testo nato per supportare la resistenza, preparare il terreno, disporre l’esistente, accumulare le forze e passare all’offensiva.

Innanzitutto di cosa si tratta. Il lavoro dei Clash City Workers, rete di collettivi radicati principalmente tra Napoli, Firenze e Padova, si pone l’obiettivo di indagare, scomporre e analizzare in modo scientifico e certosino caratteristiche, conformazione e prospettive della nostra classe nel tempo della crisi, la classe dei proletari, quella della «maggioranza che non dispone di rendite o mezzi di produzione, ma che per sopravvivere è costretta a lavorare, ovvero vendere a qualcuno, in cambio di denaro, il proprio tempo, le proprie energie e le proprie capacità»; un lavoro di fino compiuto non per soddisfare un’asettica curiosità sociologica, ma per carpire la chiave di volta con cui unire ciò che la controparte divide, per sbrogliare gli intrecci di contraddizioni con cui ogni mobilitazione si scontra, per porre solide basi su cui costruire ogni concreto intervento trasformativo. Un testo quindi pensato come strumento per intensificare, articolare e ampliare l’azione militante, per differenziarla in base alle specificità di ogni settore, che suggerisce quali sensibilità e comportamenti possano essere intercettati ed orientati, partendo dall’evidente presupposto che non tutte le frazioni di proletariato hanno lo stesso peso. Le tesi dei CCW poggiano, oltre che sulla propria preziosa esperienza diretta, sul sapiente contro-utilizzo di ampie banche dati, analisi statistiche e studi specifici commissionati da coloro che sono le classi dominanti (ed elaborati da istituti come Istat o Eurostat, centri studi, banche, società private, ministeri), attraverso i quali il collettivo scardina diversi luoghi comuni, semplificazioni e proiezioni che da diverso tempo pervadono ambienti eterogenei della sinistra di movimento: concetti come la “deindustrializzazione”, la “residualità degli operai”, la “centralità del cognitariato”, messi a confronto con la rilevazione empirica e alla prova dei fatti, non reggono più in modo così evidente.

In Dove sono i nostri la trama del discorso si snoda attraverso varie tappe: come prima cosa i CCW analizzano la struttura produttiva italiana, ovvero l’apporto con cui i vari settori contribuiscono all’economia nazionale e all’accumulazione di capitale, come essi sono cambiati nel tempo e come la crisi ha impattato su tutto ciò, lasciando intravedere quali linee di tendenza ci aspettano per il prossimo futuro, tra processi di concentrazione in atto e apparente declino della piccola impresa. Fatto ciò, il collettivo scorre la propria lente di ingrandimento sulla popolazione italiana nel suo complesso, esaminandola e scomponendola secondo fasce di reddito e tipo di attività; la griglia analitica si focalizza sui 23 milioni di italiani e italiane che compongono la forza-lavoro dipendente e su tutte le variabili che influiscono sul proprio stato attuale: dimensione delle aziende, struttura delle retribuzioni, tipologie di contratto, tasso di sindacalizzazione, lavoro sommerso e irregolare. A questo punto viene la parte centrale e più corposa del libro, dove si passa in rassegna tutta l’articolazione e l’anatomia del lavoro salariato per ogni specifica categoria (dall’agricoltura all’amministrazione, dall’industria ai servizi, dal terziario avanzato alle costruzioni, dalla logistica alla ristorazione, dall’attività finanziaria all’istruzione e sanità), ovvero dove si guarda da vicino com’è fatto ogni settore lavorativo, di quali contraddizioni è impregnato, quali possono essere i vettori di organizzazione e di intervento politico possibili. L’analisi, soprattutto in questa sezione, si legherà alle inchieste sui luoghi di lavoro e alle esperienze di lotta che direttamente hanno interessato i CCW nella loro attività militante. Successivamente, il discorso passa allo sviscerare dall’interno il lavoro autonomo e indipendente, estremamente composito ed eterogeneo, dentro il quale – a fianco di figure ben poco proletarie – sono ben celate varie forme di lavoro sostanzialmente dipendente attraverso meccanismi di parasubordinazione e false partite Iva, e anche qui sarà l’occasione per definire complessità e possibili terreni di lotta. Da sottolineare è che più volte all’interno del testo si fa perentorio il richiamo alla sinistra antagonista di “pensare ai nostri” e non disperdere fondamentali energie tanto verso opache e poco organizzabili figure cognitive quanto alla rincorsa di velleitarie “ribellioni” di ceti autonomi colpiti dalla crisi e lavoratori in proprio in fase di proletarizzazione.

Apriamo una parentesi. Evidente il preciso riferimento alle mobilitazioni dei cosiddetti “forconi”, qui considerati entro il classico schema marxista di piccola borghesia retriva portatrice di istanze reazionarie, che seppur ben ragionato tralascia diverse linee di possibilità e di ipotesi d’intervento emerse da recenti dibattiti (senza però pregiudicare fatalmente la tesi di fondo dell’opera). Si potrebbe tuttavia porre l'interrogativo se la matrice interpretativa impiegata dagli autori non dovrebbe essere messa in tensione e ripensata a partire dalle trasformazioni del lavoro e soprattutto delle molteplici soggettività in questione. In diversi contesti specifici, soprattutto nel Nord-ovest, a fianco di lavoratori indipendenti tradizionalmente considerati “altro” dalla classe – ma comunque in fase di impoverimento o che mischiano forme di vita proletarie – come l’ambulante dei mercati, l’autotrasportatore, il piccolissimo imprenditore, il proprietario agricolo, il commerciante e l’artigiano, è comparsa una componente (giustamente citata nel testo) formata da lavoratori dipendenti mascherati, legati nella buona e cattiva sorte al loro committente: artigiani che lavorano nei cantieri, nei servizi alle imprese, elettricisti, idraulici, e via dicendo. Ma non solo: erano presenti anche autonomi di seconda generazione, lavoratori in nero, disoccupati, proletariato e sotto-proletariato giovanile, senza laurea o senza diploma, inoccupato o precario, proveniente dalle periferie deindustrializzate, dalle curve degli stadi, dai quartieri popolari. Citando Salvatore Cominu (I nodi vengono al pettine: i “Forconi” a Torino), «sono quelli che non hanno credito né crediti, ma spesso tanti debiti, ragionano in soldoni e soprattutto si sentono quotidianamente presi per i fondelli» da una classe politica che ha perso totalmente ogni velleità di rappresentanza. Insomma, un terreno di coltura favorevole alle destre sociali organizzate, a cui non va lasciato nessun spazio di radicamento nei mercati, nelle cinture metropolitane, nelle periferie popolari dove vivono, passano le giornate e tirano a campare i nostri. Solo ponendosi e affrontando questi “frammenti di futuro” – figli diretti della crisi – in modo problematico, standoci dentro, sporcandosi le mani, forse solo così «si può scoprire che nel rifiuto a pagare l’ennesimo tributo alla crisi c’è anche lo spazio per agire una possibile ricomposizione di segno diverso».

Tornando a questa sezione, un’ultima parte è dedicata alla disoccupazione e alla fascia dei Neet: verso questi è ultimi è da notare che gli autori riservano diversi (argomentati) dubbi sia di natura teorico-pratica che relativi al loro effettivo conteggio; nonostante ciò, anche dentro questi settori lo sforzo è nell’andare a “pescare” la classe ed individuare pratiche e proposte con cui legare il mondo del non-lavoro a quello del lavoro nell’ottica della generale opposizione allo sfruttamento. Infine, dopo aver esaurientemente posto solide e concrete basi, i CCW terminano la propria fatica editoriale riflettendo su come misurarsi collettivamente con la realtà sopra analizzata, contraddistinta da un feroce scontro di classe in atto nel paese, da antiche e nuove contraddizioni esacerbate dalla crisi globale e da una conflittualità montante all’interno dei segreti laboratori della produzione - sempre meno silenziosa, sempre più sul punto di deflagrare - che aspetta solo di essere diffusa e organizzata.

Quello che l’opera vuole mettere bene in chiaro – per chiunque aspiri ad avere un qualche impatto significativo e duraturo sulla realtà, che tenda a scompaginare i rapporti di forza presenti a favore di tutti coloro che oggi sono arroccati in difesa – è la necessità di ritornare a prendere prioritariamente in considerazione la contraddizione capitale/lavoro, considerata la contraddizione più universale e trasversale all’interno del sistema capitalista, in grado di pervadere ogni ambito sociale e di cui, sostengono gli autori, nodi come “casa”, “reddito” e “territori” ne sono diretta filiazione: non per questo la questione del lavoro, dopo cinque anni di devastante crisi che ha falcidiato oltre un milione di posti e messo in crisi la stessa sopravvivenza di innumerevoli famiglie proletarie, è la prima preoccupazione degli italiani e il punto centrale su cui si consolida la controffensiva della controparte padronale e politica, ben rappresentata dal Governo Renzi e dal Jobs Act di recente elaborazione. Quest’ultimo, un vero attacco alle condizioni di vita di intere generazioni di lavoratori, si inscrive in quella che gli autori definiscono una fase di transizione per il nostro paese, in cui la classe dominante della penisola sta cercando di ristabilire condizioni di “profittabilità” sul corpo vivo del lavoro, per renderlo ancora più flessibile, docile e a basso prezzo, allo scopo di far ripartire anche qui il ciclo di accumulazione. La tendenza in atto nei maggiori paesi industrializzati, di cui Stati Uniti e Germania sono un fulgido esempio, è infatti quella di avviare un processo di “rilocalizzazione” (reshoring) della produzione entro i propri confini nazionali, un rafforzamento del settore manifatturiero che confligge evidentemente con le visioni di una preponderante centralità del lavoro immateriale e della progressiva scomparsa della classe operaia.

La necessità che si pone, quindi, è «ripartire da un intervento sulla classe e nella classe», in particolare ritornando a scommettere su quel segmento operaio e salariato che Marx definiva lavoratori produttivi, produttori di merci oggi sempre più oggettivamente uniti dalla terziarizzazione dell’industria, dalla progressiva integrazione dei settori produttivi e dalla concentrazione finanziaria, ma artificialmente divisi dal punto di vista sindacale e politico (per non dire internazionale). I CCW dimostrano, dati alla mano, quell’abbaglio che è stato – per diverse sinistre – la perdita di centralità dell’industria, l’ascesa trionfante del terziario e del nuovo soggetto del cognitariato come fulcro del conflitto anticapitalista dopo la fine del ciclo fordista. Il terziario, in verità, dopo gli anni ’70 è cresciuto solo perché sono cresciuti i servizi connessi all’industria, risultando sempre più legato, interdipendente e spesso corrispondente alla manifattura. Attraverso l’intersecarsi di processi di esternalizzazione, appalto e subappalto, decentramento, delocalizzazione, informatizzazione e movimentazione merci, «più che a un fenomeno di deindustrializzazione e a una terziarizzazione dell’economia stiamo assistendo a una terziarizzazione del settore manifatturiero, ovvero a una sempre maggiore integrazione tra servizi e industria», di cui la controparte è rimasta ben cosciente: anche “qui da noi”, ragiona il collettivo, la produzione di beni è stata e sarà il fulcro dell’economia.

La favola che “gli operai non esistono più” e i luoghi comuni che ne farebbero ormai “soggetti passivi” superati da ben altre figure su cui scommettere politicamente fanno fatica a mantenersi ulteriormente dopo l’esposizione dell’inchiesta militante dei CCW e delle loro esperienze dirette: nel ventre della bestia colpita dalla crisi, lavoratori salariati di tutti i tipi sono invece quotidianamente in fibrillazione, tensioni conflittuali percorrono in lungo e in largo numerose figure sociali, lotte sotterranee e quasi invisibili esplodono anche quando niente sembra muoversi. Una «conflittualità temibile, perché continua, endemica, diffusa», non spettacolare come gli effimeri riot metropolitani, ma frammentata in miriadi di mobilitazioni che a volte non arrivano a manifestarsi nemmeno a livello sindacale, «fatta di piccoli sabotaggi, un no a un capo, di una polemica sul posto di lavoro, di un combattimento per affiggere una locandina, del rifiutarsi a uno straordinario».

I Clash City Workers ci dicono questo. Avere come stella polare la definizione quanto più chiara della parzialità dell’interesse proletario; dare dignità e riconoscimento a questa conflittualità più o meno spontanea, più o meno organizzata: questo, ci suggeriscono, deve essere il compito di chi si prefigge di mutare sostanzialmente lo stato di cose presenti, dimostrandolo in concreto quando ci sono occasioni, vertenze e scontri, affiancando e sostenendo il lavoratore nel proprio percorso di opposizione, soggettivazione e coscienza politica nella pratica molto materiale delle lotte. Lotte che devono avere anche la spregiudicatezza di puntare alla vittoria e avere l’ardire di vincere, come ci hanno mostrato magistralmente i facchini della logistica, in particolare quelli della Granarolo, a fianco di sindacati di base, studenti, precari, solidali. Come intelligentemente dicono i CCW, non si tratta di «mettere su l’ennesimo gruppo politico o intellettuale in contrapposizione ad altri, ma trasformarci in supporto per il movimento autonomo della classe, essere l’hardware e la possibilità di connessione di un programma elaborato dai proletari stessi, a partire dalle necessità che la maggioranza esprime».