Stampa

La scintilla del reddito

on .

di GIOVANNI CAMPAILLA

Un termine che descrive profondamente il soggetto del nostro presente è quello di “risorsa umana”, espressione che effettivamente non nasconde proprio nulla. In essa l’uomo appare in tutta la sua disponibilità accessoria, ossia né più né meno che una fonte di ricchezza. In questo modo, l’uomo non ha storicità, non è una soggettività in formazione, ma al massimo un’identità come le altre, partorita da un ordine geometrico che condensa le parti sociali e ne regola i rapporti.

A questa realtà, c’è una via d’uscita e ce la indica bene Giacomo Pisani nel suo ultimo libro, Le ragioni del reddito minimo universale (Ombre corte 2014), approfondendo un dibattito – quello sul reddito minimo, appunto – che recentemente sta interessando un pubblico sempre più vasto, a tal punto da esserne stata perfino riconosciuta la funzione da una risoluzione del Parlamento europeo risalente al 2010.

Pisani parte dai movimenti degli anni Settanta. Questi manifestarono una negatività, che gli anni successivi, dominati dal cosiddetto «post-modernismo», hanno presto neutralizzato e rinchiuso nelle logiche eteronome del neoliberismo. L’errore di tali movimenti riguarda – secondo l'autore – la concezione del diritto che essi esponevano. Per loro, seguendo una vecchia logica, il diritto era soltanto un involucro astratto, preda della classe egemonica – cioè qualcosa di oggettivo e oggettivante e, in quanto tale, staccato dalla dinamicità dei soggetti.

Tuttavia, è oggi evidente come il diritto non possa essere ridotto alle sue proposizioni giuridiche, perché esso è attraversato dalle istanze della comunità e, di conseguenza, dalla realtà sociale e storica di quest’ultima. Il fulcro della post-modernità è stato proprio quello di determinare la perdita di una simile realtà e far sì che il soggetto sia del tutto appiattito nell’immediatezza del presente, in maniera tale – come insiste a più riprese Pisani – da smarrire il senso della sua esistenza.

Si impone perciò la necessità di riconsiderare il diritto, al fine di intenderlo nella sua consistenza e immanenza sociale. A questa rivalutazione il reddito minimo universale dà un apporto decisivo, teso a scardinarne le categorie formali. La rivendicazione del reddito nasce infatti da un’esigenza concreta, quella di un’esistenza libera e autodeterminata, sorta dall’entrata in scena di quella che Luigi Pannarale nell’introduzione chiama la «società del non-lavoro».

È su questo terreno che Pisani si confronta, prendendone le distanze, con due approcci che, fra gli altri, hanno ragionato sul problema. Il primo dei due è quello “liberale”, esemplificato da una certa lettura che Corrado Del Bò ha dato alla giustizia redistributiva rawlsiana. Questi, sebbene tenti di superare la preoccupazione di Rawls di coniugare l’efficienza produttiva con la giustizia sociale, pensa il reddito come legato al lavoro riconosciuto giuridicamente. In tal modo, però, egli ignora che la produzione non risiede più soltanto nell’esercizio della propria mansione, ma si estende anche al di fuori del luogo di lavoro. Non vale più a niente quindi, aggiunge l'autore, fissare una simile rivendicazione in un modello sociale razionale, come quello fondato sul contratto.

Più consapevole della svolta cognitiva della produzione capitalistica, è la posizione di Antonio Negri, per il quale il capitale si sarebbe trasformato in rendita: avrebbe cioè perso il proprio ruolo propulsivo, diventando una forza parassitaria che espropria a posteriori i prodotti realizzati dal General Intellect della moltitudine. Tuttavia, agli occhi di Pisani, Negri resta ad un livello formale della questione. La sua visione del reddito è legata indissolubilmente al riconoscimento della produzione, trascurando il disagio sociale che questa stessa genera.

Pensare al reddito come alla retribuzione di un tale modo di esistenza significa in fondo legittimare quest’ultimo e precluderne il superamento. Se la post-modernità ha coinciso con la perdita della storicità e con la fabbricazione di un soggetto del tutto accorpato alla riproduzione economica, allora la pretesa del reddito non deve che creare un nuovo senso comunitario a partire dalla dignità che ha la persona al di fuori del mercato.

Pisani, a tal proposito, si guarda bene dal legare questa dignità ad una prospettiva essenzialistica. Anzi, è proprio il superamento della retorica dei diritti naturali a chiarirne la sua assunzione storica e sociale. Allo stesso modo, egli sta attento a non relegare il reddito ai soli cittadini di una nazione: il reddito minimo dev’essere «universale», non può essere istituito solo in uno stato, perché il proprio potenziale investe il concetto stesso di cittadinanza nella sua globalità.

Il pamphlet di Pisani ci offre un punto di vista originale alla comprensione dell’ormai tanto dibattuto reddito minimo di cittadinanza perché, a differenza delle altre posizioni, ha la capacità e il coraggio di coglierne il nucleo specificamente emancipatorio, e non semplicemente quello “lavorista”. Per concludere con le parole dell’autore, «il reddito minimo è allora una scintilla, che non mira a gratificare esteriormente le individualità emarginate, quasi a volerle reintegrare, almeno in apparenza, nella società dei consumi. È invece un proiettile lanciato nell’uniformità del reale, che riapre all’uomo la partita con l’esistenza».