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Kill Box

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di GREGOIRE CHAMAYOU

«Niente di quello che l’uomo può fare sulla superficie della Terra può ostacolare il volo di un aereo che si muove liberamente in una terza dimensione».

Giulio Douhet

Con il concetto di «guerra globale contro il terrore» la violenza armata ha oltrepassato i suoi limiti tradizionali: la guerra diventa illimitata non solo nel tempo, ma anche nello spazio. Il mondo intero è il suo campo di battaglia; anche se sarebbe senza dubbio più esatto dire che diventa il suo terreno di caccia. Perché è in nome degli imperativi della caccia che il raggio d’azione della violenza armata diventa globale. Mentre la guerra è definita in ultima istanza dal combattimento, la caccia si fonda essenzialmente sull’inseguimento. E queste attività fanno riferimento a due geografie distinte: il combattimento scoppia nel punto esatto in cui si verifica uno scontro di forze, la caccia, invece, si sposta a seconda di dove va la preda. Quindi, per il nuovo modello dello Stato-cacciatore il luogo della violenza armata non è più individuato da confini definiti, ma dalla semplice presenza del nemico-preda che, per così dire, porta ovunque con sé un alone di zona d’ostilità personale.

Dal canto suo, per sfuggire ai suoi inseguitori, la preda cerca di rendersi irreperibile o inaccessibile. Ma l’inaccessibilità non è soltanto una funzione della geografia fisica – come una foresta fitta o un antro profondo –, ma dipende anche delle asperità della geografia politica. Come ricordano i teorici della caccia all’uomo, «le frontiere sovrane sono i migliori alleati del fuggitivo». Un tempo la Common Law inglese autorizzava a «cacciare le bestie e le prede nocive, come le volpi e le puzzole, fin nella proprietà altrui; perché distruggere tali creature era reputato di interesse pubblico».

È questo genere di diritto che gli Stati Uniti vorrebbero arrogarsi oggi, ma per prede umane e su scala mondiale. L’obiettivo, come riassume Paul Wolfowitz, è «negare ogni santuario» alle prede.

Si va così delineando un potere invasivo non più fondato sull’idea del diritto di conquista, ma sul diritto di inseguimento. Un diritto d’intrusione o di sconfinamento universale che autorizza di fatto a correre dietro alla preda ovunque essa si rifugi, liberi di calpestare quel principio di integrità territoriale che caratterizza classicamente la sovranità statale. Una simile concezione rende contingente la sovranità degli altri Stati. Questi possono godere appieno della loro sovranità solo al prezzo di consentire la caccia imperiale al loro interno. In caso contrario, che non possano – «Stati falliti» – o che non vogliano – «Stati canaglia» – il loro territorio può comunque essere legittimamente violato dallo Stato-cacciatore.

Alle forme terrestri della sovranità territoriale, fondate sulla recinzione delle terre, il drone contrappone una continuità aerea, dando così continuità alle grandi promesse storiche del potere sui cieli. Indifferente alle asperità del suolo, l’esercito aereo, scriveva Douhet, «si sposta liberamente in una terza dimensione»: traccia le sue linee nell’aria.

Così, diventando stratosferico, il potere imperiale modifica il suo rapporto con lo spazio. Non è più questione di occupare un territorio, ma di controllarlo dall’alto assicurandosi il dominio del cielo. Eyal Weizman spiega in questi termini gran parte della strategia israeliana contemporanea, che descrive come una politica della verticalità. Il motto è «tecnologia invece di occupazione»: si tratta di «mantenere il dominio sulle zone evacuate con mezzi differenti da quelli del controllo territoriale». A questa verticalizzazione del potere corrisponde una forma di autorità ultraterritoriale (sconfinante) per la quale ogni cosa, ogni individuo, ogni casa, ogni strada, «anche il più piccolo avvenimento sul terreno può essere sorvegliato, sottoposto a misure di polizia e distrutto dal cielo».

La questione della sovranità assume allora una dimensione aereopolitica, e la questione diventa: chi detiene il potere sull’aria e sulle onde elettromagnetiche? In questo senso, secondo Alison Williams, che insiste sull’importanza di pensare oggi la geografia politica come un fenomeno a tre dimensioni, siamo di fronte a una «crisi della sovranità aerea». Le ripetute violazioni degli spazi aerei degli stati subalterni da parte dei droni americani costituiscono una delle manifestazioni più evidenti di questa crisi. Con il mutare della sovranità da «piana», piattamente territoriale, a volumetrica e tridimensionale, anche gli attentati alla sovranità evolvono di conseguenza.

Spiega Stephen Graham che le dottrine militari classiche procedevano per «proiezione orizzontale del potere su uno spazio geopolitico essenzialmente “piatto” e senza rilievi». Oggi, questa modalità di proiezione viene sostituita, o comunque completata, da un’altra forma. Molto schematicamente, si passa dall’orizzontale al verticale, dallo spazio bidimensionale delle antiche carte di stato maggiore alla geopolitica dei volumi.

Nelle teorie contemporanee del potere aereo, lo spazio operativo non è più concepito come una tela omogenea e continua. Esso diventa piuttosto «un mosaico dinamico in cui gli obiettivi e le tattiche degli insorti possono variare da un quartiere all’altro». Ce lo dobbiamo figurare come un patchwork di caselle colorate cui corrispondono ogni volta regole d’ingaggio specifiche.

Ma queste caselle sono anche e soprattutto dei cubi. Questa figura è al centro del concetto di kill box, imperfettamente tradotto come «scatola letale» oppure «cubo della morte», che è emerso all’inizio  degli anni Novanta: «La kill box viene rappresentata graficamente con una linea nera continua che delimita un’area specifica, attraversata da diagonali nere». Immaginiamo una serie di cubi allineati su una griglia in uno schermo in 3D. Il teatro delle operazioni diventa una fila di scatole trasparenti.

La kill box ha un ciclo di vita: la si apre, la si attiva, la si congela e la si chiude. Si può seguire questa evoluzione allo schermo, un po’ come la deframmentazione del disco rigido: piccoli grappoli che si attivano e cambiano colore mentre subiscono un trattamento.

“Appena creata, l'obiettivo immediato di una kill box è autorizzare le forze aeree a condurre attacchi contro dei bersagli di superficie senza più nessun coordinamento con il comando centrale». Sapendo che la «struttura a “mosaico” della controinsurrezione la rende particolarmente adatta a un’esecuzione decentralizzata», ogni cubo diventa una «zona di operazione autonoma» per le unità combattenti cui viene assegnato. Per dirla più esplicitamente: dentro il cubo, fuoco a volontà! In fondo, la kill box non è altro che una zona di strage temporaneamente autonoma.

In questo modello, la zona di conflitto appare come uno spazio frammentato in una miriade di scatole della morte provvisorie, attivabili con flessibile burocrazia. Come spiega con un entusiasmo non dissimulato il generale Formica in un’e-mail: «Le kill box ci permettono di fare quello che volevamo fare da anni […]: adattare rapidissimamente il tracciato del campo di battaglia; oggi, grazie alle tecnologie automatizzate e all’utilizzo delle kill box da parte dell’aviazione degli Stati Uniti, è possibile delimitare il campo di battaglia in modo molto flessibile, sia nel tempo che nello spazio».

In un memorandum spedito nel 2005 a Donald Rumsfeld, il presidente della Rand Corporation consigliava di «adottare un sistema non lineare di kill box» per le operazioni di controinsurrezione. Thomson sottolineava questo punto essenziale: «L’estensione delle kill box può essere modulata per adattarsi sia al campo aperto sia alla guerra urbana; le kill box possono essere aperte e chiuse rapidamente reagendo a una situazione militare dinamica».

Questo principio duplice di intermittenza e di modulazione scalare della kill box è capitale, perché permette di estendere un simile modello al di fuori di qualsiasi zona di conflitto dichiarato. Dovunque nel mondo, secondo le contingenze, si potranno aprire micro-cubi temporanei di eccezione letale, non appena si localizzi un individuo qualificabile come bersaglio legittimo.

Quando gli strateghi dell’esercito americano si chiedono come saranno i droni tra venticinque anni, prima fanno disegnare al grafico di servizio il profilo di una tipica città araba, con le sue moschee, i suoi palazzi e le sue palme, poi aggiungono come delle libellule nel cielo. Sono l’immagine dei nano-droni: insetti robotizzati autonomi capaci di predare in sciame e di «navigare in spazi sempre più ristretti».

Con apparecchi del genere la violenza armata diventa esercitabile anche in spazi ristrettissimi, in micro-cubi di morte, appunto. Invece di distruggere un intero palazzo per eliminare un individuo, si vuole miniaturizzare l’arma, passare nell’appartamento e restringere l’impatto dell’esplosione telecomandata a una stanza sola, o addirittura a un corpo solo. La camera o l’ufficio possono diventare in un attimo zona di guerra.

Comunque, il partito dei droni non ha bisogno di aspettare le micro-macchine del futuro per esaltare la precisione tecnologica di quest’ arma. Ma il paradosso è che questo supposto avanzamento in termini di precisione serve in realtà come argomento per estendere il raggio d’azione dell’arma al mondo intero. Questo doppio movimento squaderna la nozione spaziale e giuridica di «zona di conflitto» armato e tende a farne un elemento diffuso. I due principi motori di questo smembramento paradossale sono i seguenti: 1. La zona di conflitto armato, frammentata in varie kill box miniaturizzabili, tende idealmente a ridursi al puro corpo del nemico-preda, per cui il corpo diventa il campo di battaglia per eccellenza. Questo è il principio di precisione o di specificazione. Ma questo micro-spazio mobile è trasferibile ovunque si trovi la preda, in nome delle necessità della caccia e del carattere «chirurgico» dell’attacco: il mondo è l’unico terreno di caccia, secondo il principio di globalizzazione o di omogeneizzazione. In sostanza, dicono l’esercito e la Cia, se possiamo attaccare i nostri bersagli dovunque riteniamo, anche al di fuori di una zona di guerra, ciò è in virtù del fatto che possiamo colpirli col massimo di precisione.

Convergendo su queste posizioni, tutta una frangia di giuristi americani afferma oggi che la nozione di «zona di conflitto armato» non vada più interpretata in senso strettamente geografico. Contro la concezione geo-centrica della zona perimetrata a priori affermano una visione bersaglio-centrica, imperniata sul corpo dei nemici-preda, secondo la quale la zona di conflitto armato «arriva fin dove arrivano loro, senza più riguardi per la geografia».

È la tesi secondo cui «le frontiere del campo di battaglia non sono determinate da linee geopolitiche, ma dalla localizzazione dei partecipanti a un conflitto armato».

Un argomento in particolare avanzato da questo gruppo di giuristi (argomento di ordine più pragmatico che giuridico) è attinto direttamente dai discorsi dell’amministrazione americana. Dicono: l’interpretazione geo-centrica del diritto di guerra va gettata a mare, perché prorogarla sarebbe come permettere ancora, ripetono docilmente, che si «creino santuari per le organizzazione terroristiche in ogni Stato in cui le forze di polizia risultano inefficaci». Ma questo argomento tradisce nondimeno, al di là della ripresa terminologica, una cruciale questione politica: si tratta di giustificare l’esercizio di un potere letale di polizia fuori dalle frontiere.

Uno dei problemi di questa logica consiste senz’altro nel fatto che, come indica Derek Gregory, «la logica giuridica con cui si estende il campo di battaglia ben oltre i confini della zona di combattimento dichiarata è essa stessa estendibile all’infinito». In altre parole, ridefinendo la zona di conflitto armato come luogo mobile in relazione alla persona del nemico si è giunti a rivendicare, con la copertura del diritto militare, l’equivalente di un diritto all’esecuzione extragiudiziaria esteso al mondo intero, zone di pace incluse, ed esercitabile contro qualunque individuo ritenuto sospetto a prescindere da ogni procedura, compresi i propri concittadini.

Dove porterà tutto questo? È la domanda che nel 2010 l’Ong Human Rights Watch ha rivolto a Barack Obama: «L’idea per cui il mondo intero diventa automaticamente un campo di battaglia diffuso in cui si applicano le leggi di guerra è contraria al diritto internazionale. In che modo la sua amministrazione definisce questo “campo di battaglia globale”[…]? Assumete questa espressione in senso letterale? Questo implicherebbe che l’uso della forza letale venga ritenuto sempre legittimo, che si eserciti contro un presunto terrorista in un appartamento di Parigi, in una galleria commerciale a Londra oppure a una fermata del bus a Iowa City».

Contro i pericoli di una simile interpretazione alcuni giuristi difendono criticamente una concezione più classica del concetto di zona di conflitto armato, insistendo sull’idea fondamentale secondo cui la violenza armata e le sue leggi hanno contorni ben definiti e tracciabili nello spazio. Sostengono altresì che la guerra, in quanto categoria giuridica, è e deve essere un oggetto geograficamente delimitato. La questione è la seguente: la proprietà di un conflitto armato è o non è di occupare un luogo, una zona delimitabile? Malgrado la sua astrazione apparente, questa domanda ontologica mostra oggi implicazioni politiche decisive. Rispondendo affermativamente, infatti, si viene fagocitati in un vortice di truismi: esiste una geografia legale della guerra e della pace, le quali sono concepite non solo come stadi opposti che si succedono nel tempo, ma anche come spazi delimitabili. Una zona è una zona: una porzione circoscritta di spazio con limiti precisi, con un dentro e un fuori; e un conflitto armato è un conflitto armato: cioè qualcosa che si definisce a partire da un preciso grado di intensità della violenza. Queste semplici definizioni hanno tuttavia implicazioni normative molto importanti, a cominciare dalla seguente: se le leggi speciali del diritto di guerra si applicano solo lì dove c’è guerra, allora, al di fuori di questo spazio nessuno ha il diritto di comportarsi da guerriero.

Come ricorda la giurista Mary Ellen O’Connell, dichiarando illegali gli attacchi attuali di droni in Pakistan, in Somalia o nello Yemen: «I droni lanciano dei missili o sganciano delle bombe, tipi di armi che non possono essere utilizzate in modo lecito se non in casi di ostilità rilevanti nel contesto di un conflitto armato». Ora «non si dà conflitto armato nel territorio del Pakistan, poiché non esistono intensi combattimenti tra gruppi armati organizzati. Il diritto internazionale non riconosce il diritto di uccidere con armi da guerra al di fuori di un conflitto armato effettivo. La cosiddetta“guerra contro il terrore” non è un conflitto armato».

Di conseguenza, queste operazioni sono da ritenersi gravi violazioni del diritto di guerra. Come si vede, i progetti di caccia all’uomo globalizzata entrano immediatamente in contraddizione con l’impostazione giuridica tradizionale. Per questo i suoi fautori fanno sforzi enormi per contestare questa visione delle cose, per annientare la tesi secondo cui il diritto dei conflitti armati presupponga un’ontologia geografica implicita. I giuristi sono in prima linea in questa battaglia in corso per l’estensione del diritto di caccia. E l’ontologia applicata costituisce il principale campo di battaglia. La domanda «che cos’è un luogo?» diventa una questione di vita o di morte. Forse val la pena ricordare, a questo punto, che nel limitare geograficamente l’esercizio lecito della violenza, l’obiettivo fondamentale del diritto era proprio quello di circoscrivere questo esercizio.