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Dieci tesi per una strategia contro l’islamofobia in Europa

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di RICHARD SYEMOUR

I. Per cominciare, un'osservazione relativamente semplice e chiara: nel secondo decennio degli anni 2000, il razzismo non sarà una ripetizione del razzismo degli anni Trenta del Novecento. Ci sono elementi di continuità, ma come suggerisce Stuart Hall:

«il razzismo è sempre storicamente specifico. Anche se può attingere a tracce culturali depositatesi attraverso fasi storiche precedenti, assume sempre una forma particolare e determinata. Deriva sempre da condizioni presenti – e non passate – e i suoi effetti sono determinati per l'organizzazione attuale della società, per il dispiegarsi attuale della sua dinamica politica e dei suoi processi culturali – e non soltanto per il suo passato represso».

Da ciò derivano due conseguenze.

II. In primo luogo, non si può riuscire a giudicare le forme contemporanee del razzismo soltanto in relazione ad un'analogia più o meno marcata rispetto alle espressioni “classiche” del razzismo. Per esempio, il fatto che l'islamofobia contemporanea non si fonda su un essenzialismo somatico (o sulla essenzializzazione a partire da tratti somatici) ha portato alcuni commentatori a concludere che, per questo, essa non può essere una forma di razzismo. Infatti, la novità del “razzismo culturale” è più sottile: il corpo è il sito più immediato dell'essenzialismo, ma storicamente non è l'unico e, persino le forme di razzismo maggiormente biologico-deterministiche fondate durante Terzo Reich erano normalmente supportate da una dimensione culturale. D'altro canto, anche nelle ideologie dominate da un essenzialismo culturale, il corpo sembra essere ineluttabilmente implicato in qualche modo. Nel caso dell'islamofobia, ad esmepio, ciò prende la forma della “minaccia demografica”, secondo la quale mancherebbero solo pochi decenni alla dominazione totale del continente europeo da parte dei musulmani.

Ma non dovremo rimanere legati alla ricerca di similitudini ideali con forme passate di razzismo, secondo un approccio piuttosto astorico. Se, al suo posto, applichiamo al razzismo l'approccio strategico gramsciano – identificato da Stuart Hall – la nostra attenzione dovrebbe essere diretta sulle modalità attraverso cui l'essenzialismo a proposito dell'Islam (e, dunque, dei musulmani) viene utilizzato per organizzare e dividere l'antagonismo sociale contemporaneo e per cementare coalizioni sociali.

III. Secondariamente, alcuni elementi dell'islamofobia contemporanea possono certamente essere rintracciati nell'archivio delle pratiche storiche, dal Arianesimo dell'Impero britannico e il conseguente binarismo orientalista, alle retoriche del “fanatismo nativo” sviluppate contro i ribelli coloniali. Ad ogni modo, ciò non basta per fondare le nostre analisi del problema. Ad esempio, se indaghiamo i riots delle/nelle banlieues e la risposta islamofobica dei media e dei politici francesi, non basta limitarsi a capire la storia dell'Impero francese e la complicità tradizionale del repubblicanesimo officiale e del “secolarismo” con l'oppressione razziale. Piuttosto, la questione dovrebbe essere perché una ribellione multidimensionale – in parte una risposta agli abusi della polizia, in parte una reazione contro il razzismo e una lotta di classe – dovrebbe essere interpretata come il singolo prodotto di un “Islam” univoco. Qui, dobbiamo cominciare con un tipo diverso di analisi, enfatizzando i cambiamenti nei modelli recenti di imperialismo, nazionalismo e accumulazione.

IV. Il profilo crescente dell'imperialismo americano in Medio Oriente in seguito al ritiro britannico dell'impegno “Est of Suez” nel 1968, fu contemporaneo all'importanza crescente del Sionismo, della sconfitta della Sinistra Araba e la crescita dell'Islamismo. Negli anni Ottanta si vede emergere una nuova configurazione dell'imperialismo sotto la rubrica dell'assolutismo etnico della Destra Cristiana e del Sionismo. Culturalmente, questi ultimi si definiscono contro gli Arabi ma, sempre più, in particolare contro l'Islam. E ciò, in modo crescente, ha avuto l'effetto di forzare i Musulmani residenti nei paesi imperialisti in schemi identitari – una tendenza che è stata esasperata dal caso Rushdie.

In Francia, questo processo è stato circa contemporaneo all'emergere della prima controversia sul “velo”, nella quale tre ragazze musulmane furono espulse da una scuola media, povera e etnicamente mista, per aver rifiutato di togliere i loro foulards. Dato che era il bicentenario della Rivoluzione francese, il fatto fu l'occasione per l'esplosione di tutta la retorica repubblicana – essa stessa il “velo” tradizionale dell'imperialismo francese in molti paesi in cui l'Islam è la religione più diffusa. Il velo, come manifestazione di appartenenza islamica, non costituiva solo una minaccia ai valori francesi, ma anche l'instradamento sicuro verso l'americanizzazione: un'immagine dell'America che, in verità, sarebbe considerata scandalosa negli Stati Uniti. E, se l'Islam è visto come una minaccia ai valori dominanti, sempre più, per molti è diventato una forma di resistenza – una “identità conflittuale” (“fighting identity”). Certamente, tutto questo processo è stato sovradeterminato dal collasso del cosiddetto “socialismo reale” e dal conseguente consolidamento dell'Unione Europea, di cui la “fortezza Europa” costituisce l'inevitabile corollario. In seguito al caso Rushdie, e con l'intervento imperialista della Francia in Algeria che ha prodotto il contraccolpo previsto da parte del GIA nella forma di esplosioni nel centro metropolitano di Parigi, l'Isalm è stato sempre più associato con due tipi di problemi nazionali: una minaccia alla sicurezza, e il pericolo per quella nebulosa di “valori” (siano essi occidentali, europei o francesi) che sostengono la nazione in modo indispensabile. Infine, nel contesto dello sventramento neoliberale della democrazia e dei servizi pubblici, la restaurazione di un'idea di egemonia culturale e identità nazionale ha mostrato più volte di offrire una straordinaria compensazione per il senso di smarrimento.

Infatti, in modo caratterizzante, il venir meno della sicurezza sociale e del welfare può essere legato all'incursione perturbante dell'Altro, in questo caso del Musulmano, poiché quest'ultimo può essere incolpato sia della scomposizione della coesione sociale che sorregge il “welfarismo” e (a causa della sue richieste al sistema) per la supposta “insostenibilità” del vecchio patto sociale. A questo si può aggiungere l'esperienza malinconica del declino nazionale associata alla crisi capitalistica globale, che così viene associata alla presenza di Altri “disgreganti”. L'Islamofobia, quindi, è una complessa organizzazione simbolica di un diverso sistema dei conflitti sociali, e non si è affermata per mezzo di una o due “panics” – sebbene i momenti puntuali nello sviluppo di un'ideologia devono sempre essere sottolineati – ma attraverso decenni di lavoro che implicano diverse e complesse strategie razziali piuttosto che una sola.

V. La battaglia contro il razzismo islamofobico è, pertanto, una battaglia a lungo termine che deve essere condotta a diversi livelli. Non si tratta semplicemente della questione di vincere battaglie politiche immediate, come per esempio ostacolare una vittoria elettorale o una mobilitazione dell'estrema destra. Il tempo delle lotte politiche è estremamente rapido e l'assimilazione di una lotta particolare può essere davvero molto breve. Ma queste lotte sono combattute su un terreno costruito in anni di lavoro ideologico-culturale e tra forze modellate (shaped) da quello stesso lavoro per un periodo molto lungo.  

Il tempo delle battaglie ideologico-culturali, in confronto a quello delle lotte politiche, è geologico. Ma soltanto perché non ci sono successi immediati su questi fronti, ciò non significa che non abbiano valore – essi hanno un'importanza fondamentale. Ad esempio, l'intenso contraccolpo razzista nel Regno Unito intorno ai riots del 2011, o la reazione islamofobica ai riots nelle banlieues in Francia nel 2005, hanno richiesto una preparazione considerevole prima dei fatti. Il lavoro simbolico che può dare senso ad una risposta razzializzata di fronte a simili situazioni deve essere perseguito per generazioni e generazioni.

VI. Una conseguenza di ciò per una strategia anti-razzista è che non sarà possibile attaccare il razzismo soltanto concentrando tutte le nostre forze contro le sue manifestazioni più tossiche. La destra estrema può essere la forza più pericolosa nel promuovere politiche razziste, e senza dubbio è necessario disarmarla e oscurarla. Ma non possiamo combattere la destra estrema senza combattere al contempo le cause principali del razzismo nella società. La destra estrema non sarebbe nulla senza i giornali, la polizia, i partiti neoliberali in parlamento e così via. Le ideologie che legittimano le azioni della destra radicale – o che quanto meno le rendono comprensibili come reazioni a provocazioni estreme – hanno origine nei quartieri generali dello Stato, nelle emittenti filogovernative, nella stampa, nel parlamento e nelle imprese finanziatrici reazionarie. E per sconfiggere quelle forze abbiamo bisogno di una gamma differenziata di tattiche, che dovrebbe includere interventi culturali capaci di operare su ciò che Paul Gilroy ha definito la “multicultura vissuta” delle persone comuni e il “senso comune” che si sviluppa nei gesti quotidiani.  

VII. E, inoltre, non c'è futuro nel tentativo di ridurre le battaglie anti-razziste in battaglie anti-austerity. Questi tentativi rappresentano una forzatura del lavorismo (“workerism”). Il razzismo non emerge semplicemente come forma sostitutiva della disperazione per l'impoverimento o l'insicurezza. Il suo sviluppo e la sua espansione può essere accelerato da profonde crisi politiche, esaurimento dell'autorità, crisi di sovrapproduzione, collassi finanziari e così via. Come ho suggerito, una delle cose che il razzismo organizza è l'esperienza di certe classi sociali nel contesto di crisi e declino. E certamente, come una conseguenza, le lotte sulla crisi capitalista e la sua risoluzione hanno una relazione con la lotta contro il razzismo. Ciò implica che i partiti di sinistra e le campagne di sinistra organizzate contro l'austerity neoliberale, devono prendere seriamente l'anti-razzismo come una componente essenziale della loro strategia per distruggere le coalizioni reazionarie che possono formarsi attraverso le ideologie razziste. Ma comprendere la relazione tra razzismo, crisi economica e soggettività politiche emergenti richiede un'analisi anni luce avanti al modello persistente “crisi capitalistica=tempi duri=razzismo”.

VIII. Allo stesso modo non può esserci nessun tentativo di ridurre l'anti-razzismo all'anti-imperialismo. Ciò non è meno riduttivo. Durante la “guerra al terrore”, era comune trattare l'isalmofobia come un mero corollario dei bombardamenti su masse di musulmani. Sia il fatto che l'islamofobia preceda in modo significativo la “guerra al terrore”, sia il fatto che persista dopo la sua conclusione evidente, smentisce questo tipo di analisi. L'analisi che si focalizza troppo sulle ingiustizie dell'impero dimentica le solide basi domestiche di tale razzismo. Le stesse forze del razzismo non sono necessariamente guerrafondaie e, infatti, possono persino essere portatrici di una forma di sentimento anti-bellico di destra (del tipo “perché i nostri gloriosi ragazzi dovrebbero aiutare questi popoli arretrati?).

IX. Questo è anche connesso a una necessaria messa alla prova della “teoria della radicalizzazione”, secondo la quale i musulmani vengono “radicalizzati” e si uniscono ai gruppi islamisti soltanto in seguito a una cattiva propaganda – “i predicatori di odio” etc. Ma anche prendendo i casi più estremi di reazionari islamisti, è probabile che scopriremo che i processi attraverso i quali essi decidono di affiliarsi alla più marginale e militante delle sette islamiste sono, in primo luogo, radicati nei processi quotidiani del capitalismo britannico (qui l'autore fa evidentemente riferimento al proprio contesto di vita, ma si potrebbe estendere l'ipotesi in senso più generale. n.d.t.). Quindi, abbiamo bisogno di combattere e sconfiggere l'argomento secondo cui le società europee sono profondamente ingiuste e razziste e che, per questo, black people sono umiliate e deprivate in ogni sorta di modo ben visibile. La loro specifica relazione con il lavoro quotidiano del capitalismo deve essere colta esattamente come la loro implicazione con la violenza imperialista.   

X. È anche diventato evidente che non si possono segmentare diversi tipi di razzismo come se fossero completamente separati; essi si rinforzano reciprocamente. L'aumento dell'islamofobia non esclude la rigenerazione a lungo termine di altre forme di razzismo, ma piuttosto è contiguo ad essa. Infatti, il ruolo dell'islamofobia come forma dominante di “razzismo culturale” permette la riabilitazione di alcuni elementi screditati del razzismo essenzialista, mentre allo stesso tempo li articola sotto una nuova forma. Ciò non significa che l'islamofobia costituisca una sorta di copertura per forme “tradizionali” di razzismo. [In Inghilterra, ad esempio], si è detto che era solo un modo per essere razzisti contro i pakistani. No, le forme correnti di razzismo non rianimano semplicemente vecchie forme. Le forme correnti di razzismo si riferiscono e organizzano antagonismi attuali, espressi in battaglie politiche complesse. E c'è qualcosa di molto specifico a proposito dell'islamofobia e del suo contenuto – l'ossessione delle identità religiose, dell'ermeneutica amatoriale del Corano e così via – qualcosa di molto diffuso.

Il punto non è che l'islamofobia è una copertura (pretesto), ma piuttosto che nelle forme di razzismo dell'Europa di oggi c'è una convergenza tra le tecniche di razzializzazione, le forze politiche coinvolte e il contenuto ideologico implicato. Penso che questo significhi che sarebbe un errore politico cercare di identificare un tipo di razzismo come “razzismo rispettabile” e semplicemente fare una campagna contro ciò – la tendenza del razzismo in generale è di farsi “più rispettabile”, e dunque abbiamo bisogno di un assalto su più fronti contro il razzismo in generale.

 

* Traduzione di Simona de Simoni.