Stampa

Emancipazione e Uguaglianza: una genealogia critica

on .

di JOAN WALLACH SCOTT

La parola emancipazione non ha nulla di evidente. In inglese, secondo l’Oxford English Dictionary, significa la rimozione di “restrizioni imposte da una forza fisica superiore o da un’obbligazione legale”. Storicamente, la parola emancipazione è stata spesso sinonimo di liberazione o libertà, ma non necessariamente di uguaglianza. La fine della soggezione legale o psicologica non implica infatti l’instaurazione di un’uguaglianza sociale o economica e nemmeno politica nello spirito di coloro che, nel passato, hanno detenuto le redini del potere, o presso coloro che non sono mai stati sottomessi a delle forme di dominio di questo tipo.

Il fatto che emancipazione e uguaglianza non siano sinonimi risulta dalla tensione classica tra diritti formali e diritti sostanziali. L’uguaglianza nel diritto riposa sull’astrazione dell’individuo, fatto che cancella, presso quest’ultimo, le relazioni di potere nelle quali si situa. E l’estensione dell’emancipazione a dei gruppi fino a quel momento esclusi non altera le strutture di dominio nella sfera sociale. In compenso, naturalizza queste strutture respingendole nella società civile, levando così loro il carattere d’oggetto politico degno, in quanto tale, d’attenzione.

Si può sostenere che sia la nozione liberale di individuo astratto ad aver provocato la confusione delle definizioni dell’emancipazione e dell’uguaglianza, e ad aver condotto a concludere che poiché sono uguali nel diritto, gli individui sono simili in tutti gli altri aspetti della loro esistenza. La determinazione di ciò che gli umani hanno di simile è cambiata a seconda dei teorici politici: la dignità, l’empatia, la somiglianza con Dio, la capacità di ammazzarsi mutualmente, la ragione, l’interesse personale e la passione. L’astrazione implica la designazione di un tratto universale che serve da fondamento a ciò che gli individui hanno in comune; si tratta di una finzione di cui la teoria politica ha bisogno, e, storicamente, del fondamento delle inclusioni/esclusioni nella/dalla cittadinanza. La storia delle rappresentazioni dell’individuo, in quanto unità sociale di base, rimane da scrivere; più esattamente, quella delle forme prese dall’individuo astratto della teoria politica, nella sua figurazione sociale ed economica, nelle differenti epoche. Marx lega l’idea politica dell’uguaglianza formale al concetto economico di potere operaio. Dal momento in cui gli individui sono concepiti astrattamente “tutti i tipi di lavoro sono uguali ed equivalenti”.

Nel corso del tempo, sono state formulate delle importanti obiezioni all’astrazione, e delle modifiche introdotte nello svolgimento della storia dell’individuo astratto: l’identità di gruppo, diventata fondamentale per la formazione della soggettività (di classe, d’origine etnica, di genere, di sessualità, di religione) e, di conseguenza, materia di mobilizzazione e di rappresentazione politica (partiti operai, quote in Belgio e Olanda, legge sulla parità in Francia); la nozione di responsabilità collettiva messa in opera negli stati provvidenza; delle azioni (o discriminazioni) positive intese come mezzi per correggere degli effetti di discriminazione fondati sugli stereotipi negativi; la cooperazione piuttosto che la competizione estrema teorizzata come attributo di base dell’umanità. L’individuo, nel frattempo, è rimasto al centro del discorso liberale occidentale.

La fine degli anni ’70 ha spalancato la porta a un individualismo esacerbato come l’hanno mostrato le politiche neoliberali di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Ai giorni nostri, ai tempi della globalizzazione, tutti gli aspetti della vita son diventati via via più “mercificati”, e il ruolo dello Stato si trova ridotto a essere il garante delle forze di mercato e dell’autodeterminazione individuale. La società si concepisce come una massa di individui che perseguono un processo di auto-realizzazione, le traiettorie individuali riflettono le loro scelte, e le altre condizioni di vita permettono di misurare il posto preso dalle responsabilità che hanno saputo (o no) assumere nel suo svolgimento. L’autodeterminazione, parola un tempo associata all’emancipazione delle colonie, al rifiuto del dominio imperiale (e alla conquista di una sovranità nazionale) fa ormai parte del vocabolario psicologico. La teoria dell’autodeterminazione (Self-determination Theory), un campo relativamente nuovo della psicologia sociale, afferma che il bisogno umano di “competenza, di autonomia e di capacità relazionale” è “universale e innato”. Questa teoria erige il fantasma dell’individuo moderno, responsabile di sé stesso e laico (così come figura nella teoria politica occidentale) a modello di ogni comportamento civilizzato, il quale diviene la versione universale dell’essere umano. La psicologia evoluzionista ancora questo fantasma nella biologia della specie: l’individuo moderno è considerato come il risultato di un lungo processo di “selezione naturale”. Da questo punto di vista, l’emancipazione non corrisponde più al fatto di essersi liberato dalle costrizioni precedenti, ma alla comprensione di ciò che si è e a una rappresentazione di sé che si esprime nei termini occidentali moderni. L’uguaglianza non proviene dalla similitudine generata dall’astrazione, ma da quella che producono in modo identificabile i comportamenti, che siano psicologici o sociali.

La terminologia dell’emancipazione e dell’uguaglianza è, ai giorni nostri, spesso compromessa nelle discussioni concernenti il posto dei mussulmani nei paesi, storicamente cristiani e laici, dell’Europa occidentale. La questione posta è meno relativa alla concessione di diritti o all’estensione dell’uguaglianza a questi nuovi residenti delle nazioni europee, che su quella di sapere se sono sufficientemente emancipati psicologicamente, e sufficientemente egualitari per meritarsi di diventare dei cittadini a parte intera e beneficiare di un’inclusione totale. Nei discorsi civilizzatori dell’Europa occidentale, l’interiorità è considerata come una condizione preliminare, non come uno stato al quale è possibile accedere, ma come un attributo naturale che ha solamente bisogno di essere svelato. Per l’emancipazione, non si tratta più di levare gli ostacoli o le resistenze alla libertà. E l’uguaglianza non si ottiene con l’astrazione che permette di trascendere le differenze sociali o altre. Di più, né l’emancipazione né l’uguaglianza son definite come derivanti dall’azione pubblica (sebbene si tratti di qualità sviluppate in particolare nelle democrazie laiche). Al contrario, l’emancipazione e l’uguaglianza sono dei tratti presunti come inerenti agli individui, dei tratti che li conferiscono una capacità d’agire – la loro umanità autentica – e li rendono eleggibili a titolo di membri della comunità delle nazioni. Da questo punto di vista, gli stati-nazione democratici e laici si accontentano di fornire a quelli/e che sono già emancipati il contesto che protegge la loro capacità d’agire, ossia l’esercizio della loro autodeterminazione. Ma non possono affatto instillare questa qualità nelle persone che non la possiedono già.

La visione di una sessualità liberata definita come la possibilità di soddisfare i suoi desideri senza costrizioni e di concretizzare liberamente il suo essere sessuale è al cuore di questa concezione della capacità d’agire degli uomini. È attraverso questa “soddisfazione sessuale” che si definisce l’“autenticamente umano”, secondo Martha Nussbaum, la quale propone la sessualità come indicatore universale della libertà umana. L’emancipazione e l’uguaglianza non si riferiscono allora che alla realizzazione del potenziale sessuale dell’individuo, questa verità interiore dell’individuo soggetto che Foucault aveva identificato come idea specificamente moderna.

In Occidente, la rappresentazione popolare dei mussulmani mostra delle donne sessualmente oppresse, mentre le omologhe occidentali sono presentate come sessualmente libere (“loro” sono prigioniere di un passato che “noi” abbiamo abbandonato; “loro” ignorano una verità che “noi” sappiamo come scoprire). L’accento è messo sulle donne (e, in certi paesi, ugualmente sugli omosessuali) come incarnanti la liberazione sessuale da un lato, e, dall’altro, la loro vittimizzazione sotto il giogo dell’oppressione islamica. Alle donne, un tempo nominate “il sesso” ed escluse dalla cittadinanza proprio per questo motivo, ancora oggi, poiché rimangono ancora “il sesso”, è conferito il criterio discriminante dell’inclusione: sono loro che forniscono la misura della liberazione sessuale, e, ironicamente, dell’uguaglianza tra uomini e donne. Ironicamente perché, molto spesso, questa uguaglianza non si fonda sulla nozione astratta di carattere simile degli individui, ma precisamente sulla differenza delle donne rispetto agli uomini, sulla complementarità dell’eterosessualità normativa. In effetti, spesso, l’uguaglianza, così come appare nella retorica utilizzata in particolare dal personale politico, è anche relativa a quella delle donne con un percorso d’immigrazione rispetto ai francesi, ai tedeschi o agli olandesi autoctoni piuttosto che quella che concerne i sessi, comparati tra di loro. L’accento posto su una sessualità liberata (che sia etero o omosessuale) fa eco al desiderio di consumare che serve da motore al mercato, e permette di distogliere l’attenzione dalle ingiustizie economiche e sociali che risultano dalla discriminazione e dalle forme strutturali dell’inuguaglianza.

Nei dibattiti contemporanei sulla questione mussulmana, la laicità e la libertà sessuale sono divenute sinonime. In queste rappresentazioni, le donne laiche sono autonome, autorizzate a vivere liberamente la loro sessualità e ad appagare i loro desideri, mentre per le mussulmane invece, la sessualità è letteralmente tenuta in imballaggio, sequestrata sotto degli abiti che dissimulano la loro bellezza e che segnano simbolicamente il loro status d’inferiorità rispetto agli uomini. Ciò che è secolare è presentato come ciò che si accorda con le inclinazioni naturali di tutte le donne, ciò che è islamico come la negazione della loro femminilità innata. In certi paesi (in Olanda, per esempio) la stessa logica si applica agli omosessuali, finalmente autorizzati a realizzare la verità di ciò che sono in quanto individui grazie alla liberazione permessa dalla laicità.

Quali insegnamenti dedurre dal fatto che la retorica democratica, messa al servizio del capitale globalizzato, include ormai il vocabolario dell’emancipazione sessuale e della sua adeguazione immaginaria con l’eguaglianza dei sessi? Ciò che mi interessa è il modo in cui il desiderio sessuale è stato scelto come denominatore comune universale nella definizione dell’umano, decisamente davanti ad altri attributi come la fame, la spiritualità o la ragione. Ben inteso, la sessualità (e il suo corollario, la realizzazione sessuale) è da molto tempo considerata come un attributo umano e la sua gestione costituisce un dilemma permanente per i modelli proposti di auto-governance (generalmente mascolina) da Agostino a Rousseau fino a Freud e oltre. La ragione è stata, per i filosofi dell’Illuminismo, lo strumento dell’autodisciplina, del dominio di sé, come lo fu in seguito per le classi politiche e i responsabili economici durante il XIX° secolo. Ma nel corso dell’ultimo secolo, in modo crescente, questi appelli alla ragione hanno ceduto il posto all’esigenza di una liberazione del desiderio sessuale – questo desiderio che, in altre epoche, doveva essere represso in quanto fonte di confusione nello spirito degli uomini, manifestazione di questa passione che, sotto la forma del corpo femminile, doveva essere esclusa dall’arena pubblica. Ciò si trova nel discorso civilizzatore che considera che gli individui più capaci ad agire secondo il loro desiderio e ad appagarlo sono i più atti a essere dei cittadini; coloro presso cui questo tipo di comportamento è regolamentato o represso da dei divieti culturali esterni, al contrario, non sono qualificati. Al posto dell’uguaglianza dell’individuo astratto (storicamente codificato come maschile), si trova oggi l’uguaglianza degli individui sessualmente attivi (rappresentati da una figura femminile o femminizzata); la capacità di agire si situa non più nel cervello dotato di ragione, ma nel corpo desiderante. I corpi desideranti posseggono una materialità che la ragione astratta non ha; ma la sessualità come denominatore comune degli umani, esattamente come la ragione, permette l’astrazione dalle determinanti sociali prodotte dalla coscienza e dalla via materiale – e, se si pensa in termini di psicanalisi, permette ugualmente di astrarre tutte le influenze (culturali, familiari, sociali, politiche, giuridiche, religiose), incorporate (spettralmente) negli aspetti inconsci del desiderio stesso. L’autodeterminazione sessuale è un fantasma quanto l’autodeterminazione razionale, seppur viga una differenza tra le due: la prima indica una pletora di modi di passaggio all’atto, mentre la seconda si misura in un solo modo. Mentre la sessualità è sinonima di eccesso e di piaceri, la ragione evoca disciplina e controllo. (Sono precisamente queste qualità un tempo valorizzate come le espressioni della razionalità – la regolazione e il controllo di sé – che sono ormai tacciate come gli strumenti repressivi del fondamentalismo mussulmano, nel momento in cui i mussulmani sono dipinti sotto i tratti di terroristi sanguinari, sprovvisti di ogni forma di controllo morale).

La retorica dell’emancipazione sessuale e dell’uguaglianza dei sessi, particolarmente evidente nei dibattiti sull’“integrazione” dei mussulmani nelle nazioni dell’Europa occidentale, è sintomatica di un cambiamento più profondo nel discorso civilizzatore sulla rappresentazione dell’umano. Così come le si utilizza nel discorso dominante, l’emancipazione e l’uguaglianza introducono una logica di mercato esplicita nella sfera politica: la forza-lavoro è rimpiazzata dal potere sessuale e il discorso sull’emancipazione sessuale ha molto poco a che vedere con il mandato riproduttivo abitualmente associato alle coppie eterosessuali. Gli umani sono al contempo oggetto e soggetto del desiderio, allo stesso tempo consumatori e materia prima, e naturalizzati come tali. La depoliticizzazione del sociale (contro la quale Marx aveva formulato una messa in guardia) si estende ormai al campo politico, dove il desiderio regna, anche quando è ciò che motiva gli attori razionali. La differenza tra l’azione motivata dalla ragione e quella motivata dal desiderio è cruciale; è la differenza tra la politica e il mercato. Lo Stato non è più ciò che regolamenta, ma ciò che facilita le interazioni tra individui desideranti. Il segno dell’emancipazione di questi ultimi è la libertà di passare all’atto e di appagare il loro desiderio (in termini di varietà dei piaceri e dei gusti) quale che sia il mercato nel quale s’iscrivono. Non ci sono più garanzie di uguaglianza sociale – tra i generi o su altri piani – in questa definizione della politica rispetto a quelle che già mancavano prima. L’uguaglianza si riferisce unicamente alla possibilità per ogni individuo (senza alcuna considerazione di limiti psicologici o sociali) di agire con lo scopo di appagare il suo desiderio. E ciò che si riferisce ad un’azione liberata si misura con dei termini occidentali idealizzati. Di più, finché le norme sessuali restano in vigore, compresa l’idea che certe forme di sessualità sono l’espressione immutabile della verità di ogni essere, risulta difficile, se non impossibile, contestare le discriminazioni sociali ed economiche che continuano ad ogni modo ad essere legittimate.

Ciò che vorrei suggerire è che il mantenimento del linguaggio dell’emancipazione sessuale e dell’uguaglianza dei sessi, che permette di respingere le rivendicazioni mussulmane volte a ottenere il riconoscimento della loro qualità di membri a tutti gli effetti degli Stati dell’Europa occidentale nei quali molti di loro risiedono da lungo tempo ormai, non deve semplicemente essere visto come islamofobico (sebbene si tratti certamente anche di ciò): la sua eco è molto più vasta. La sostituzione del desiderio sessuale al ragionamento astratto pone al posto del lavoro del pensiero la materialità del corpo; l’individuo astratto diventa una persona attraversata da pulsioni, spinta verso la lussuria. Questa sostituzione, tuttavia, fa entrare soltanto in apparenza il sociale nel campo del politico. Pone in primo piano un altro attributo umano universale ritenuto presociale (il desiderio sessuale, le identità sessuali), la cui soddisfazione non è né una questione relativa (storicamente e culturalmente determinata) né un soggetta a essere dibattuta in modo contraddittorio. Un solo cammino conduce alla soddisfazione: la via adottata dalle democrazie laiche dell’Occidente – anche se, in questi paesi, ciò che conta per la soddisfazione assume delle forme differenti e spesso contraddittorie. Ma queste contraddizioni spariscono quando l’Occidente è comparato all’Oriente, il cristiano laico al mussulmano religioso. Quando l’emancipazione e l’uguaglianza sono date come sinonime e definite in quanto espressioni di un desiderio sessuale individuale e universale, non sono più differenti dall’uguaglianza politica formale. Diventano degli strumenti che perpetuano la subordinazione e la diseguaglianza delle minoranze sfavorite, così come il proseguimento della loro marginalizzazione nelle sedicenti democrazie occidentali.

Coloro le/i quali, tra di noi, sono convinte/i del carattere necessario di una forma o di un’altra di democrazia sessuale – parlo qui dell’adesione all’idea che una varietà di pratiche sessuali è accettabile, direi pure normale – devono tener conto di questa genealogia critica. La questione che lascio aperta al dibattito è di sapere come strappare quest’idea al contesto nel quale è messa in opera, per pervenire a delle finalità con le quali non solamente siamo in disaccordo, ma che pure disapproviamo profondamente.

 

* Traduzione Davide Gallo Lassere.