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Distruzione/Creazione del Welfare e nuove forme di messa a valore della riproduzione sociale. Cosa succede in Italia?

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Articolo di Franco Abidah sulla finanziarizzazione del welfare

I beni coinvolti nelle privatizzazioni non sono in ultima istanza beni “dei governi” ma beni “del popolo”, costruiti con il sudore, la fatica e le risorse dei cittadini di un Paese o comunque beni appartenenti al popolo come diritto di nascita sulla base della loro presenza nel territorio che questo collettivamente occupa. (Lester Salamon, Il progetto Philantropication throu Privatization. Come creare patrimoni filantropici per il bene comune, Il Mulino 2015)

 

A partire dallo scorso gennaio si è sviluppato su Commonware un importante dibattito sull’attualità dei processi di messa a valore della riproduzione sociale, con importanti connessioni tra questi e il campo del Welfare (emergere della finanza a impatto sociale, contraddizioni della cooperazione sociale). In questo breve intervento mi propongo di approfondire la questione facendo riferimento al caso specifico del welfare italiano. Faccio ricorso, per descrivere quello che sta succedendo in questo campo, al concetto di distruzione creativa, invitando a prestare attenzione a ciò che, mentre una parte del vecchio modello viene distrutta, prende forma sulle sue macerie in modo più o meno pianificato. Quali nuove strategie creative da parte del capitalismo organizzato? Quali reazioni dal basso? Quale interazione tra le une e le altre?

Mi concentro su processi che si possono chiamare di finanziarizzazione del welfare e li affronto da una prospettiva il più possibile empirica, sperando che questo possa contribuire a una più sistematica comprensione del fenomeno. Finanziarizzazione è qui dunque intesa come intensificazione del rapporto tra politiche sociali e mondo finanziario, un rapporto che si sta trasformando e di cui anche in Italia si iniziano a vedere alcuni effetti. Prima di entrare nel merito di questo processo, che rimanda alla dimensione creativa della fase in atto, è necessario richiamare i tratti fondamentali della sua dinamica distruttiva.

Ciò che è più evidente è il crollo degli stanziamenti pubblici per le politiche sociali a partire dal 2008, un momento in cui l’Italia già registrava dei tassi di spesa pubblica per i servizi sociali tra i più bassi a livello europeo, nonostante il suo incremento, lento ma costante, lungo il decennio precedente. Il modello che si andava consolidando, sancito dalla legge 328/00, era basato sul finanziamento pubblico di interventi sociali realizzati principalmente da cooperative e associazioni del privato sociale in coordinamento (più o meno formale, più o meno significativo) con i servizi sociali pubblici. Il modello esprimeva l’incompiuta via italiana alla ricalibratura del welfare che, a livello europeo si sostanziava nei paradigmi del Welfare Mix, dell’investimento sociale e del capitale umano, funzionali al nuovo assetto capitalista cosiddetto post-industriale. Si trattava di un modello segnato da grossi limiti e contraddizioni: la mancanza di diritti sociali riconosciuti in modo uniforme sul territorio nazionale; la mancanza di una misura di sostegno economico universale contro la povertà; l’insufficienza delle risorse a disposizione che si traduceva nell’insufficiente copertura dei bisogni dei ceti medi e medio-bassi e nella precarietà del lavoro nel Terzo Settore; la mancanza di coordinamento tra gli interventi dei diversi soggetti presenti su un medesimo territorio. In quella fase, le funzioni degli attori finanziari nel welfare erano sostanzialmente quella del credito e quella dell’azione filantropica (attraverso l’erogazione di grant, o donazioni a fondo perduto).

Per quanto riguarda il credito si tratta del campo di intervento più antico ed economicamente significativo delle banche nel welfare, attraverso due canali: da un lato il credito agli Enti Locali soprattutto attraverso Cassa Depositi e Prestiti, su cui torneremo più avanti; dall’altro quello agli Enti del Terzo Settore. Si tratta di un credito che serve sia a finanziare gli investimenti sia a garantire regolarità nell’incerto e irregolare flusso di cassa di questi enti, largamente dipendenti da finanziamenti pubblici spesso erogati con gravissimi ritardi o da finanziamenti privati spesso erogati ex-post di fronte alla documentazione di spese effettuate. In questa dinamica si è registrata da un lato la creazione di prodotti bancari specifici per il Non-Profit da parte delle principali banche nazionali (fino alla nascita di vere e proprie branche non-profit, di cui Banca Prossima, ramo non-profit di Intesa San Paolo rappresenta l’esempio più compiuto); dall’altro lo sviluppo di esperimenti di banche autogenerate dal mondo Non-Profit (come invece Banca Etica).

Per quanto riguarda l’azione filantropica, questa era invece condotta principalmente dalle Fondazioni di Origine Bancaria (FOB), nate dalla privatizzazione del sistema bancario italiano agli inizi degli anni ’90. Forti di un patrimonio di circa 50 miliardi di euro scaturito dal conferimento alle FOB, al tempo della privatizzazione delle banche, del loro intero pacchetto azionario, queste devono per legge investire i profitti derivanti dalla gestione di questo patrimonio in opere e progetti di interesse pubblico, in cambio di un regime fiscale di favore. Rispetto al 2007, tali profitti si sono ridotti della metà e ammontano oggi a circa un miliardo di euro l’anno – destinati a progetti in campo sociale, culturale, scientifico, artistico.

Una prima idea della dimensione della distruzione di questo assetto si può sintetizzare nel dato quantitativo che indica che il valore dei Fondi trasferiti dal livello nazionale a Regioni e Comuni per la programmazione e l’attuazione delle politiche sociali è oggi pari a circa un terzo di quanto fosse nel 2007. Il dato, di per sé gravissimo, è reso più impressionante da un secondo dato, relativo alla diffusione della povertà in Italia, che dice che, nello stesso arco di tempo, le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà in Italia sono più che raddoppiate, passando da 1,8 a 4,1 milioni secondo gli ultimi dati Istat. La combinazione delle dinamiche fotografate da questi due dati ha comportato gravi conseguenze sia sulla popolazione che sul Terzo Settore. Per quanto riguarda i cittadini, infatti, si registra la forte crescita del numero di coloro che restano esclusi dall’intervento pubblico (servizi pubblici al collasso, mancanza di personale, servizi affidati al privato sociale con il metodo del massimo ribasso) e vengono re-indirizzati verso forme più o meno organizzate di volontariato e carità. Per quanto riguarda il Terzo Settore, questo ha registrato un crollo dei finanziamenti pubblici (che rappresentano tuttora quasi il 70% del suo fatturato), crollo che ha comportato la chiusura, la riorganizzazione o il ridimensionamento di molti servizi; l’assorbimento di piccole cooperative da parte di enti e consorzi di dimensioni maggiori e il ricorso a licenziamenti e cassa-integrazione dei lavoratori1. Nemmeno la compressione dei diritti e dei salari degli operatori sociali, in atto da anni, è dunque più sufficiente alla tenuta del sistema2.

In estrema sintesi, si può dire che la crisi finanziaria, e poi la sua gestione politica hanno messo in crisi il modello del Welfare Mix all’italiana, risolvendo nella direzione più precaria e socialmente insostenibile i suoi limiti e le sue contraddizioni. In questa dinamica distruttiva la finanza ha evidentemente un ruolo di primo piano che parte dalla progressiva finanziarizzazione dell’economia (“imprese che diventano banche” scriveva Luciano Gallino) e della vita quotidiana (l’ascesa dell’ “uomo indebitato” descritta da Maurizio Lazzarato) e raggiunge il suo apice con lo scoppio della crisi e la successiva trasformazione del debito privato di banche e assicurazioni in debito pubblico degli Stati. Quel che però mi interessa maggiormente qua è il nesso finanza-welfare nel processo creativo che rappresenta il rovescio della distruzione sopra descritta. Quel che sostegno di seguito è che, in un simile contesto, la diffusione (o anche solo l’annuncio) di modelli di welfare basati su nuove forme di messa a valore della riproduzione sociale gioca almeno due diversi ruoli.

In primo luogo, dal punto di vista retorico, permette di neutralizzare ogni richiesta di rifinanziamento pubblico (immediatamente bollato come nostalgico statalismo) attraverso la mobilitazione di un immaginario popolato di “nuove forme” o “nuove generazioni” di Welfare, basate sulla virtuosa collaborazione (ibridazione è il termine più diffuso) tra pubblico e privato. Ma la nuova narrazione – che spesso si appoggia sulla retorica e sulle sperimentazioni dell’innovazione sociale – si spinge più in là e presenta questi esperimenti come prototipi di un radioso futuro globale caratterizzato dalla “ritrovata” armonia tra capitalismo e benessere sociale. In questo contesto, il Terzo Settore è dunque invitato a “innovarsi” e “accettare la sfida”, e reagisce a questi inviti con notevole condiscendenza, spesso addirittura cercando di cavalcare questi processi in cerca di nuove forme di finanziamento3.

In secondo luogo, dal punto di vista materiale, il rapporto tra finanza e welfare si incarna in alcune importanti dinamiche e si esprime in alcuni precisi strumenti di intervento. Se il credito trova nuove occasioni di espansione e l’azione filantropica, pur diminuendo in termini assoluti, aumenta di importanza relativa dato il crollo di risorse pubbliche a disposizione, una terza funzione della finanza conquista la ribalta: quella dell’investimento. In Italia il fenomeno ha almeno due fonti: da un lato è guidato dalle stesse Fondazioni di Origine Bancaria, attraverso i cosiddetti Investimenti Connessi alla Missione (MCI), ovvero investimenti che indirizzano parte del portafoglio delle FOB (e non solo dunque i loro profitti attraverso le donazioni) verso progetti “di interesse pubblico”. Il principale sbocco di tali investimenti è stata la partecipazione delle FOB alla privatizzazione della CDP, con un investimento di circa 2 miliardi di euro, fruttato nell’arco di 10 anni una rivalutazione superiore al 50%. Oggi il valore di questi investimenti ammonta a circa 3,3 miliardi di euro (vale a dire più del triplo di quanto viene elargito attraverso le donazioni) e viene parzialmente utilizzato per sostenere alcuni esperimenti di nuovo welfare, in particolare nel settore abitativo, con l’azione dei Fondi Immobiliari che – mentre gestiscono in varie forme la privatizzazione dell’enorme patrimonio immobiliare pubblico – finanziano la costruzione di complessi di Housing Sociale. Recenti dati indicano l’ammontare complessivo di tale patrimonio in circa 2500 alloggi, destinati solo in minima parte ad affitti accessibili per i ceti popolari e per la maggior parte costruiti per l’affitto o l’accesso alla proprietà di un ceto medio non troppo impoverito, in nome della sostenibilità economica dell’investimento. Il testo da cui è tratta la citazione riportata in esergo, elaborato per conto del Centro Europeo delle Fondazioni argomenta per esteso questa prospettiva: “se la privatizzazione dei beni pubblici è inevitabile [in questo caso addirittura due privatizzazioni: quella di CDP prima e quella del demanio pubblico poi], ciò che raccomandiamo è la creazione di iniziative filantropiche che, sacrificando una piccola parte dei profitti privati di tali operazioni, lavorino per il bene della comunità, neutralizzando anche le critiche alla privatizzazione nel suo insieme [per esempio un bel condominio di housing sociale per giovani coppie]”4. Per chi volesse tenere una rassegna degli scivolamenti e delle indebite appropriazioni delle suggestioni dei beni comuni questo rappresenterebbe sicuramente un esempio interessante.

Un altro importante movimento si registra all’interno dello stesso campo dell’investimento e fa capo al fenomeno della cosiddetta finanza di impatto (social impact finance in inglese). Si tratta di un settore che è dal 2013 al centro dell’iniziativa del G8, prima con il lancio di una Task Force che ha elaborato una serie di raccomandazioni agli Stati con lo scopo di favorirne la diffusione e poi con la conseguente creazione della Social Impact Agenda per l’Italia, un’associazione guidata dall’ex ministro dei beni culturali Giovanna Melandri (già a capo della componente italiana della Task Force) con lo scopo di “monitorare lo stato di avanzamento delle 40 raccomandazioni” elaborate dalla TF, “contribuire alla loro realizzazione e di rafforzare l’imprenditoria sociale attraverso lo sviluppo dell’ecosistema degli investimenti ad impatto sociale” (dal comunicato stampa dello scorso gennaio dell’Associazione Bancaria Italiana, cofondatrice dell’associazione).

Complessivamente ciò che si afferma è la necessità di rendere l’intervento sociale produttivo non solo per i destinatari ma anche per i finanziatori. Non trattandosi più di finanziatori pubblici, né di finanziatori di stampo filantropico, si tratta di una produttività che deve essere misurata e garantita in modo più stringente. La parola d’ordine, brandita verso l’intero Terzo Settore con un misto di benevolenza, fiducia e severità, è “autosostenibilità”: ogni progetto, nel giro di qualche anno, deve essere economicamente autosufficiente e perfino generare profitti per gli investitori.

Se questo è, a grandissime linee il panorama che ci troviamo di fronte, la ricerca e la riflessione sulle nuove forme di messa a valore della riproduzione sociale e la lotta per il loro superamento, si trovano davanti numerosi e importanti compiti, di cui qui richiamo appena i tre che mi sembrano più urgenti e interconnessi. In primo luogo comprendere in modo più sistematico come queste (e altre?) forme di penetrazione della finanza nella nostra vita quotidiana si articolano (quali azioni, interventi e progetti concreti, quali forme di estrazione di valore) e quali ne sono i principali attori e sostenitori (imprenditori, fondazioni, banche, assicurazioni, expertise). In secondo luogo mettere a fuoco i destinatari che di volta in volta vengono individuati per questi interventi (nicchie creative, ceto medio in crisi, ceti popolari) e verificare quale tipo di ruolo sia loro proposto nel processo. Infine mappare le forme di produzione di socialità e di beni collettivi che si generano dal basso e che implicitamente o esplicitamente resistono a queste dinamiche e favorire il loro coordinamento e la loro organizzazione.

Un cammino di scoperta e di sperimentazione di questo genere potrebbe contribuire a rilanciare il potenziale trasformativo ed emancipativo di una ricerca e di un’azione sociale autonome e non autoreferenziali.

 

1 Per un’analisi puntuale e critica delle politiche sociali italiane rimando a C. Gori, V. Ghetti, Rusmini, R. Tidoli, Il welfare sociale in Italia. Realtà e prospettive, Carocci (2014) e Caritas Italiana, Dopo la crisi, costruire il welfare. Le politiche contro la povertà in Italia, www.caritasitaliana.it (2015)

2 Per una prospettiva critica sul tema si possono utilmente leggere E. Quadrelli, Gabbie metropolitane, La casa Usher (2013) e R. Curcio (a cura di), La rivolta del riso, Sensibili alle foglie (2014). Per un racconto istituzionale da parte del Terzo Settore si può leggere C. Borzaga, F. Paini, Buon lavoro. Le cooperative sociali in Italia: storie, valori ed esperienze di imprese a misura di persona, Altreconomia (2011). Tra le diverse esperienze dal basso, si veda il recente Manuale di autodifesa del lavoratore sociale a cura della Rete degli operatori e delle operatrici e degli operatori sociali milanesi: https://operatorisociali.noblogs.org/

3 Rimando, tra gli infiniti testi recenti che si muovono su questa falsariga, a F. Maino, M. Ferrera, Secondo Rapporto sul Secondo Welfare, www.secondowelfare.it (2015); P. Venturi, F. Zandonai, Ibridi organizzativi, Il Mulino (2014). Un’analisi critica di questa letteratura e della sua committenza resta da fare. Uno dei testi che a livello internazionale raccoglie e rilancia con più forza queste suggestioni è l’opera di uno dei guru dell’innovazione sociale: G. Mulgan, L’ape e la locusta, Codice Edizione (2014)

4 Per una storia della CDP si può leggere M. De Cecco, G. Toniolo, Storia della Cassa Depositi e Prestiti, vol. II, Laterza (2014)- Per delle prospettive critiche rimando a: A. Martinelli, A.Tricarico, La Posta in gioco, Altreconomia ed. (2013); Attac, Riprendiamoci la Cassa, www.attac.org (2012)