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La miseria del sistema bancario italiano (parte II)

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Seconda parte di una mini-inchiesta di Andrea Fumagalli sul sistema bancario italiano (qui la prima)

Il 20 gennaio 2015 veniva decretato dal governo: il 24 marzo, il Senato dava il via libera definitivo. Diveniva così legge la trasformazione in società per azioni delle banche popolari. Tempo concesso 18 mesi.

Poco più di un anno dopo, il 10 febbraio 2016, viene varato il Decreto Legge per la riforma delle Banche di Credito Cooperativo.

E da qui che occorre partire per comprendere quale è la situazione del sistema bancario italiano.

Il modello bancario dell’Italia

Ecco alcuni fatti stilizzati per inquadrare il tema:

  1. Il totale delle attività delle banche italiane ammonta nel 2014 a 3.219 miliardi, per un numero di dipendenti pari 292.000 (in costante calo: - 20,5% rispetto a 10 anni prima), distribuiti su 31.600 sportelli, che dopo un cospicuo aumento sino al 2007 (+ 32,4% rispetto al 1997), hanno visto un calo del 3% negli anni della crisi finanziaria.
  2. I margini di interessi (calcolati come quota % delle attività/fatturato bancarie) si sono fortemente ridotti, quasi di un terzo, dal periodo pre-crisi (da 1,50 a 1,02) , soprattutto in seguito alla riduzione dei tassi d’interessi sui crediti in seguito alle politiche di Quantitative Easing (QE) della Bce. Tuttavia, i margini di intermediazioni e i risultati di esercizio, pur in calo, presentano risultati positivi, grazie soprattutto ai ricavi ottenuti da altre attività di servizio che risultano superiore agli stessi margini di interesse (1,20). Si tratta essenzialmente delle commesse e dei costi a carico della clientela per svolgere le normali operazioni di banca (assegni, bonifici, uso bancomat, ecc.). Si tratta di fatto di una tassa sui cittadini, unica in Europa, che rende il sistema bancario tra i più inefficienti e rentier d’Europa. Nonostante ciò, nel biennio 2013-14, abbiamo una perdita (prima delle imposte) pari allo 0,23% del livello delle attività complessive, esito di una quota dello 0,84% di accantonamenti obbligatori per far fronte ai crediti inesigibili. In altre parole, il sistema bancario italiano chiude negli ultimi anni in rosso, a causa delle difficoltà di restituzione dei prestiti concesse alle imprese e non in seguito alla riduzione dei tassi d’interesse (e quindi dei ricavi)[1]. Questi ultimi infatti sono stati più che abbondantemente compensati dalla rendita di posizione che un mercato bancario chiuso, poco internazionalizzato, tendenzialmente corporativo, è in grado di far valere e imporre contro ogni logica economica di efficienza e trasparenza. Non sono tanto le condizione della crisi finanziaria globale a causarne la crisi ma la stessa deficienza strutturale del sistema economico italiano, primo fattore “interno” della recessione italiana.
  3. Tale situazione di scarsa redditività delle banche e crisi creditizia non è collegata – come normalmente si pensa – a un’elevata situazione debitoria dell’economia italiana. Se è vero come è noto che il debito pubblico italiano ammonta al 2015 al 133,8% del Pil, il valore più alto, dopo la Grecia, in Europa (ma inferiore al Giappone), è altrettanto vero, anche se meno conosciuto che il debito delle famiglie italiana è il più basso d’Europa (42,8% del Pil contro valori oltre il 100% di paesi considerati virtuosi, come l’Olanda o oltre il 50% come Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania), quello delle imprese è il secondo più elevato (dopo la Germania), pari al 78,6%. Ciò significa che nonostante la forte riduzione della propensione al risparmio degli ultimi anni, gli italiani risparmiano comunque di più della media europea e tale risparmio è il più delle volte depositato in banca: è quindi linfa per lo steso sistema bancario. Ne consegue che l’indebitamento complessivo dell’economia italiana (253,2%) è di poco superiore a quello tedesco e di gran lunga inferiore a quello di Francia, Olanda, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone. Inoltre, per quanto riguarda il supposto “tallone d’Achille” del debito pubblico, esso è per i 2/3 detenuto da investitori italiani istituzionali (soprattutto banche, poi imprese, da ultimo le famiglie per una quota che non supera però il 15% del debito), a differenza di altri paesi, come Francia e Germania[2].

Questi brevi flash ci descrivono una situazione paradossale. L’arretratezza del sistema bancario italiano negli anni più ruggenti della crisi finanziaria globale ha svolto un ruolo di cuscinetto ammortizzatore, al punto che – come già sottolineato in precedenza – lo stato italiano è quello che meno è intervenuto con soldi pubblici a sostegno delle perdite delle proprie banche. Ma nel momento in cui la crisi finanziaria ha inciso pesantemente sull’economia italiana, a partire dal 2011 (dopo l’esplosione della crisi dei sub-prime, 2008-09), tale arretratezza da fattore “calmante” è divenuta fattore “scatenante” dell’inefficienza del settore.

L’anomalia italiana

Il settore bancario italiano è la fotografia del settore industriale e terziario. Poche grandi banche (come sono poche le grandi imprese) e tante piccole banche che operano soprattutto sul territorio (come sono tantissime le piccole imprese industriali e del terziario). Vi è dunque un forte dualismo dimensionale che risale agli albori della prima fase dell’industrializzazione italiana, quella dei tempi di Giolitti.

È infatti in quella fase storica che soprattutto nell’Italia settentrionale nasce e si sviluppa il sistema di credito cooperativo e il sistema delle Banche Popolari, entrambi, pur con differenti motivazioni ideologiche (le prime “rosse”, le seconde ”bianche”), finalizzati a raccogliere il risparmio, soprattutto del ceto medio commerciante e agricolo per finanziare lo sviluppo di attività artigianali locali.

Nel dopoguerra, dopo la riforma agraria e lo sviluppo dei primi insediamenti industriali nelle valli alpine (dall’Ossola alla Val Camonica), la rete degli sportelli bancari si istituzionalizza e si sedimenta localmente sino a diventare il polmone della tesaurizzazione monetaria su basi dualistiche. Da un lato, il triangolo industriale vede lo sviluppo e il consolidamento a Milano e a Torino dei grandi poli bancari che aprono rapporti privilegiati con i salotti della buone famiglie borghesi industriali: Credito Italiano, Istituto San Paolo, Banca Commerciale Italiana (Comit), sotto l’egida di Mediobanca. Dall’altro, le cd. “banche di provincia”, evoluzione delle banche popolari e del credito cooperativo, tra cui assumo sempre più peso le Casse di Risparmio, oltre a potentati locali quali il Credito Artigiano (Valtellina), la Bcc di Treviglio, la Popolare di Lodi e le banche venete (dalle popolari di Vicenza, Treviso e Verona) sino, in seguito allo sviluppo della Terza Italia e del modello Nec (Nord-est-centro), a espandersi nelle regioni del centro Italia.

Il modello bancario italiano è di fatto lo stesso da 50 anni, più o meno. All’epoca, era lo specchio del mancato sviluppo del paradigma fordista o, detto in altro modo, rappresentava il suo sviluppo parziale, limitato al Nord-Ovest. Con la crisi del modello della grande impresa e il decollo dei distretti industriali, tale modello è rimasto pressoché immutato, apparentemente funzionale allo sviluppo di un modello produttivo diffuso e territoriale ma inadeguato a cogliere le spinte innovative e a sostenere il passaggio verso produzione a maggior contenuto cognitivo e immateriale.

Il mancato decollo di un capitalismo cognitivo o di un’economia della conoscenza in Italia, oltre che a carenze strutturali interne (che qui non abbiamo lo spazio di analizzare[3]), è anche dovuto al ruolo di blocco del modello bancario italiano, un blocco che solo oggi mostra tutta la sua fragilità.

Se andiamo ad analizzare il peso dei crediti inesigibili (NPL, Not Performing Loan: vedi Tab. 1), ci accorgiamo che sono proprio le cd. ”banche di provincia” a subire le maggiori pressioni e i rischi di insolvenza.

Tab. 1: Il peso dei prestiti non performanti (NPL)

       nei bilanci bancari

 

NPL lordi (mld €)

NPL/prestiti totali (%)

Monte dei Paschi

25,4

18,0%

Bper

6,7

13,9%

BPVicenza

4,1

13,7%

Carige

3,3

13,2%

CreVal

2,7

13,1%

Veneto Banca

3,2

12,2%

Banco Popolare

10,2

11,6%

Mediobanca

0,6

11,6%

CR Asti

0,9

11,3%

Banca Sella

1,0

11,1%

Unicredit

54,7

10,6%

BNL*

7,1

10,4%

Intesa Sanpaolo

38,6

10,2%

BPM

3,2

9,0%

Banco Desio

0,8

7,8%

Ubi

6,8

7,6%

CRParma

2,7

7,0%

BP Sondrio

1,8

6,7%

DB*

1,3

6,4%

Credem

0,9

4,2%

(Fonte: PWC, “The Italian NPL market”, novembre 2015; nostre elaborazioni. Dati in miliardi di euro. *dati2014.)

Oltre a Monte dei Paschi di Siena (a seguito delle malversazioni di gestione, connesse con i potentati politici locali), ai primi posti per peso dei NPL sul totale dei prestiti abbiamo la Popolare dell’Emilia Romagna (BPER), la Popolare di Vicenza (BPV), la Cassa di Risparmio di Genova (CARIGE), il Credito Valtellinese, Veneto Banca e Banco Popolare. Se facciamo un’analisi più approfondita, considerando solo il mondo del credito cooperativo, i dati sono ancora più allarmanti. Ben 33 banche secondo le elaborazioni de Il Sole 24 ore su dati Mediobanca si trovano ad affrontare quote di crediti inesigibili superiore al 20% . Il 41% di queste Bcc si trova al Nord, il 27 per cento al Centro e il 32 per cento al Sud.

 

Tutte “banche di provincia”, che, pur presentando valori patrimoniali (in relazione al giro d’affari) in media superiori alle banche nazionali, si trovano però in maggiore difficoltà, anche per la minor differenziazione del portafoglio di rischio. Non stupisce, che a questa esposizioni, il sistema bancario italiano presenti un grado di leverage (indebitamento o leva finanziaria) che, seppur in diminuzione, è il più elevato d’Europa (cfr. grafico seguente)

 

Tali dati confermano l’inadeguata capitalizzazione e lo stato di crisi del sistema delle banche e quindi la necessità di rinvigorire le attività patrimoniali. Ma ciò deve avvenire in tempi brevi (a seguito dei limiti temporali imposti da Basilea 3) e in presenza di aspettative di ricavi decrescenti.

Ma come si è arrivati a questa situazione? Le 33 banche di credito cooperative precedentemente elencate, nell’immaginario collettivo, fanno parte di quel modello di piccole, piccolissime banche spesso comunali o sovracomunali che presidiavano il territorio fornendo credito all’economia locale. Ora la lunga recessione italiana ha scalfito, e non da ieri, quel modello della banca di credito cooperativo, che, sempre nella vulgata mainstream, era l’immagine di banca locale solida e virtuosa e immune dai contraccolpi finanziari. Oggi tra le sedici banche commissariate in Italia, ben la metà sono banche di credito cooperativo.

Non è solo colpa della recessione, anche se la difficile situazione economica post-2011 non ha sicuramente aiutato. Il nodo centrale è piuttosto la qualità dei creditori a cui si sono erogate somme di denaro non sempre giustificate da razionalità economica. Altri fattori sono intervenuti, dovute proprie al ruolo anche “politico” svolto da queste banche, strettamene legate all’evoluzione degli interessi più politici che economici, in funzione di una governance territoriale che aveva come primo obiettivo l’arricchimento di determinate cordate e padrini politici.

Da questo punto di vista, è stato rilevante anche il ruolo delle Fondazioni bancarie, che in alcune realtà locali, sia nel Nord-Est che nelle regioni centrali, hanno visto l’incremento del peso politico ora della Lega Nord ora dell’affarismo di centro-sinistra.

A tale situazione critica si aggiunge anche il fatto che, come fatto rilevare da Mike Shedlock noto anche come Mish, blogger finanziario tra i più autorevoli al mondo, si è intensificata la fuga di capitali dalle banche italiane (e spagnole), in particolare verso la Francia.

La tabella considera i flussi di capitali prendendo come parametro di riferimento il Target 2, in quanto “misura eccellente per monitorare la fuga di capitali da un paese dell’Eurozona a un altro della stessa area”.

Tale fuga di capitali, che concretamente si manifesta nel trasferimento di liquidità verso banche e attività finanziarie estere, risiede soprattutto nel timore dei bail-in, ovvero delle confische, dei controlli di capitali e dei fallimenti bancari simili a quelli che si sono verificati in Grecia e a Cipro e che oggi sono state “istituzionalizzate” dai nuovi regolamenti bancari europei (su questo punto, si rimanda alla prima parte del mio testo).

La congiuntura negativa dei mercati, il pressing europeo sulla bad bank e lo spettro del bail-in come schema di intervento “a carico” della clientela, unitamente alle difficolta di recupero dei crediti causa recessione sono quindi i fattori che rischiano di mettere in ginocchio il sistema soprattutto delle “banche di provincia”, mettendo a nudo anche la scarsa trasparenza della governance affaristica e politically incorrect.

Non stupisce quindi che nei primi 11 mesi del 2015, come rileva l’ultimo rapporto ABI, le emissioni nette (il nuovo debito) di obbligazioni bancarie si sono ridotte di 95 miliardi contribuendo così a esasperare una tendenza negativa di lungo periodo. Attualmente, l’ammontare totale dei bond emessi dagli istituti di credito presenti sul mercato è di 386 miliardi di euro contro i 514 di due anni fa: un quadro preoccupante. Nel corso del 2016, notava nelle scorse settimane L’Espresso, le banche dovranno fronteggiare bond rischiosi in scadenza per quasi a 6 miliardi di euro. “Una volta rimborsate le obbligazioni – scriveva il settimanale – gli istituti dovranno anche trovare il modo di rimpiazzarle. Difficile immaginare che i clienti faranno la fila per sottoscrivere nuovi titoli subordinati”, anche alla luce di quanto successo, ad esempio per la Banca Etruria e del Lazio.

Tale situazione, inoltre, conferma l’inefficacia delle politiche di Quantitative Easing della BCE, che, oltre a non incrementare il credito per l’economia reale, anche quando la liquidità si ferma nel settore bancario, ciò non permette di uscire dalle strettoie della carenza di liquidità stessa.

È alla luce di queste osservazioni che si giustifica e si spiegano i recenti crolli in borsa dei valori bancari italiani, un crollo di gran lunga superiore a quello fatto registrare in altri paese europei.

E allora?

Come rilevato anche da Angelo Baglioni sul sito de La Voce.info, il governo Renzi è stato particolarmente attivo sul fronte bancario. Come abbiamo ricordato, risale al gennaio 2015 il decreto legge che ha riformato la governance delle banche popolari, imponendo la trasformazione in società per azioni a quelle con attivo superiore agli otto miliardi. La conseguenza più importante è stata il passaggio dal voto per testa (ogni azionista ha diritto a un voto, indipendentemente dal numero di azioni possedute) al voto proporzionale al numero di azioni possedute. Oltre alla discutibilità del metodo utilizzato (quello del decreto legge), occorre rilevare che a 6 mesi dal tempo concesso per tale trasformazione solo pochissime banche hanno operato in tal senso (meno del 10%). Quando è successo, come nel caso UBI o di BPM, abbiamo assistito ad un aumento della concentrazione bancaria, il che non è di per sé un fattore negativo (perché l’aggregazione e soprattutto la concentrazione consente una maggior solidità patrimoniale e quindi più probabilità di superare gli stress test della vigilanza Bce per partecipare all’Unione Bancaria Europea in progress), a patto tuttavia che tale trasformazione in SpA venga accompagnata da vera governance manageriale. È qui infatti che si gioca la reale questione di un possibile ammodernamento del sistema bancario italiano per renderlo immune dalla palude degli interessi politici-affaristici. Il rischio è che la trasformazione in SpA delle Popolari (nel caso, non del tutto scontato, che effettivamente avvenga) è che sia data una patina di managerialità in superficie lasciando inalterati gli antichi vizi dell’affarismo bancario tipico del credito italiano, spesso usato come arma di condizionamento politico più che come strumento di stabilità economica.

Il processo di concentrazione bancario verrà ancor più sostanziato dall’intervento del governo Renzi di febbraio 2016 nel settore delle banche di credito cooperativo. In questo caso il governo ha adottato una tattica più morbida, negoziando la riforma con i rappresentanti delle Bcc stesse. Dopo mesi di trattative, si è arrivati – come ricordato - al decreto del 10 febbraio 2016. La soluzione individuata prevede la costituzione di una unica holding capogruppo, che avrà poteri di indirizzo e controllo sulle Bcc, sebbene la maggioranza del capitale della holding sia detenuto dalle Bcc stesse. Il patrimonio delle Bcc dovrebbe essere messo “a fattor comune” mediante una sorta di responsabilità congiunta, a partire da una soglia di 200 milioni di attività. La partecipazione è libera ma una volta entrati nella holding difficile sarà uscirne.

L’intendimento, se da un lato viene presentato come una necessità in funzione di una maggior solidità patrimoniale (di fatto i rischi vengono collettivamente assunti, creando una sorta di camera di compensazione tra le diverse situazioni patrimoniali delle singole banche, con mugugni da parte di quelle poche Bcc con i conti in ordine), dall’altro ha un duplice preciso scopo: a. non scaricare gli eventuali costi di risanamento sul bilancio pubblico (in ottemperanza ai diktat dell’austerity) ma al limite sui creditori insolventi (non è un caso che proprio in questi giorni si vuole far passare più o meno segretamente un dispositivo legislativo che consenta alle banche di espropriare direttamente, cioè senza passare dal giudice, le case dei proprietari insolventi) e b. selezionare, restringendola, la lobby politica-economica che governa questo segmento di banche su base autoritaria, guarda caso, in linea con le medesima tendenza sul piano delle libertà democratiche e di voto.



[1] Vedi https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/rapporto-stabilita/2015-1/RSF1-2015.pdf

[2] Tutti i dati qui presentati sono riportati dalla Tab 1.1, pag. 11 del “Rapporto sull’instabilità finanziaria”, Banca d’Italia, n. 1, 2015

[3] Al riguardo si rimanda al saggio di S.Lucarelli, D.Palma, R.Romano, “Quando gli investimenti rappresentano un vincolo. Contributo alla discussione sulla crisi italiana nella crisi internazionale”, in Moneta e Credito, vol. 66, n. 262, 2013.