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Liberté, égalité, fraternité... Manuel Valls?

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di DAVIDE GALLO LASSERE

Da domenica sera le cifre sulla mobilitazione nazionale di Parigi si rincorrono l’un l’altra: 2,5 milioni, 3 milioni, 3,5 milioni. Poco importa, una volta constatato il riversamento oceanico che ha invaso le arterie principali della capitale francese. Da Gare du Nord a République, da République a Nation (passando per Boulevard Voltaire – dov’è andata in scena la farsata dei cinquanta “orrendi”) o, ancora, da Bastille a Nation, molti francesi e cittadini/e di altre nazionalità sono scesi/e in massa per strada. Com’è facile immaginarsi, considerato il terremoto affettivo che si è prodotto, vi erano in piazza una pluralità di orientamenti e di sensibilità differenti: giovani famigliole con prole al seguito, signori distinti e comprensibilmente toccati sul vivo, sostenitori più o meno fieri della marsigliese, masochistici aficionados di gendarmes e corpi speciali, ma anche un ampio spettro di soggetti diversamente riconducibili a sinistra dell’esistente. Nonostante l’union sacrée invocata da Hollande e dalla sua pietosa cricca, nonostante la spudorata strumentalizzazione politico-mediatica dell’evento e nonostante l’ingombrante presenza dei vari Porochenko, Netanyahou, Stoltenberg e via schifando, progressisti e lavoratori, così come studenti e non pochi antirazzisti radicali hanno infatti sentito il bisogno intenso e sincero di manifestare il proprio sdegno, il proprio smarrimento e la propria rabbia, senza cedere centimetri preziosi a xenofobi ed islamofobi. Immane recupero dei classicissimi Apparati Ideologici di Stato? O grande prova di un’opinione pubblica che non ha ceduto alle pulsioni più ruvide e insidiose? La questione è aperta, anche se la retorica e le prime reazioni concrete messe in campo dagli organi del potere non lasciano trasparire nulla di buono all’orizzonte.

Se si guarda più da vicino alla composizione della piazza, però, due evidenze balzano immediatamente agli occhi: la scarsa partecipazione di non-bianchi, soprattutto di giovani non-bianchi. Per costoro, i valori fondanti della République, proclamati in modo battente da avvoltoi e colombe in questi ultimi giorni – durante i quali si sono ulteriormente induriti gli attacchi simbolici e materiali di stampo apertamente razzista – hanno acquisito ben altro significato rispetto alla libertà, all’eguaglianza e alla fraternità professate da chi ha inaugurato l’epoca contemporanea decapitando il monarca o da chi ha potuto usufruire per decenni dell’accesso a un welfare rigoglioso garantito dall’exception française. Tradite da una mancata, effettiva decolonizzazione, tanto sul piano interno che estero, le soggettività che abitano le periferie e i quartieri popolari non hanno minimamente avvertito le sirene del laicismo, dell’universalismo e della libertà d’espressione. Di più: giovedì 8 gennaio, in diverse scuole medie e superiori della banlieue, non è nemmeno stato osservato il minuto di silenzio ufficiale previsto per commemorare i morti. In questi territori, infatti, l’intervento dello Stato, lungi dal ritrarsi, assume sempre più i connotati delle forze dell’ordine e della repressione giudiziaria e poliziesca. Questi ultimi giorni non costituiscono certo una smentita. Al contrario. Le politiche punitive della marginalità messe in atto con la svolta neoliberale, poi, non solo hanno accompagnato come un’ombra il progressivo sgretolamento delle politiche sociali di tipo assimilazionistico (col loro corteo grigio di stigmatizzazioni paternalistiche), ma hanno attivamente contribuito alla costruzione del nuovo Stato, o, per meglio dire, al consolidamento della mano destra dello Stato dato dal connubio mortale di inclusione restrittiva (workfare centellinante) ed esclusione espansiva (disinibizione del prisonfare): nuova norma del governo dei poveri, nonché condizione materiale e culturale idonea al reclutamento di ogni sorta di deriva identitaria regressiva.

Nel frattempo, le prime misure adottate dalla rinnovata unité nationale concernono il rafforzamento del sistema securitario: vasto dispiegamento militare e poliziesco nelle metropoli, autentificazione obbligatoria per l’utilizzo di internet nei luoghi pubblici, verifica dei documenti all’ingresso delle Università, inasprimento dei controlli alle frontiere, etc. Insomma, tutto il necessario per un Patriot act in salsa francese è – di fatto – bell’e pronto, malgrado il turbinio di dichiarazioni falsamente contrastanti in merito: tra un “oui je t’aime” e un “moi non plus” l’occasione pare infatti ghiotta per rinsaldare il rigido patriottismo del primo ministro Manuel Valls, il quale, dopo essersi già distinto in negativo nei mesi scorsi durante le espulsioni dei rom e le manifestazioni contro i massacri di Gaza, potrebbe perfezionare il dispositivo di controllo necessario a tutelare l’opera in corso di ulteriore smantellamento sociale e saccheggio della ricchezza. Come del resto, nel suo discorso di sabato mattina, non è retrocesso di un millimetro sul ruolo chiave e la posizione strategica della Francia, e dell’Occidente più in generale, nell’Africa del Nord e in Medio Oriente.

Dall’altra parte, invece, per domenica 18 gennaio si stanno organizzando diverse manifestazioni indette da gruppi e da movimenti della sinistra antifascista e anticapitalista. Cosa queste manifestazioni apporteranno nel breve e medio termine è ancora presto per saperlo. Sicuramente, però, le priorità poste sul piatto non coincidono affatto e, soprattutto, sono articolate diversamente rispetto a quelle di domenica scorsa. Come diversi sono gli avversari e i nemici politici identificati, nella doppia sottrazione – come più volte sostenuto durante questa settimana caotica – dal martello della retorica democratico-liberale come dall’incudine dell’integralismo religioso.