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We are not going back!

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di MATTEO PRIORELLI

L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si stende e si moltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha fatto scoppiare i limiti dello spazio e quelli del pensiero. L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia, ma anche ad ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza. Non si è mostrata parsimoniosa se non con l’uomo, gretta, carnivora, omicida se non con l’uomo. Allora, fratelli, come non capire che abbiamo altro da fare che seguire quell’Europa.

(Frantz Fanon, “I dannati della terra”)

 

11 giugno: la Police Nationale francese, che già da un mese sorveglia costantemente la frontiera e tutta la città di Mentone a causa dell'afflusso di migranti da Ventimiglia che continua senza interruzione da metà maggio, nella tarda serata decide di passare all'azione schierando al confine un cordone di Crs (il reparto mobile francese) con tre pulmini e impedendo l'accesso a 40 migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana che avevano tentato di passare, e che sono quindi costretti a dormire tutta la notte sdraiati sull'asfalto. Il giorno dopo, superato il centinaio, tentano di nuovo ma vengono subito bloccati dalla Gendarmerie Nationale: organizzano quindi autonomamente un sit-in a ponte san Ludovico esponendo cartelli scritti a penna per protestare contro il pessimo trattamento a cui sono sottoposti. Il 13 giugno, dopo l'ordine del Ministero dell'interno di sgomberare l'aiuola posta a pochi metri dalla frontiera, vengono caricati da polizia e carabinieri in assetto antisommossa, ma invece di arrendersi si riversano sulla scogliera, decisi a resistere, e iniziano subito uno sciopero della fame.

Passano i giorni e la situazione pare rimanere la stessa: mentre altri migranti continuano ad arrivare dalla stazione di Ventimiglia, la polizia francese rinforza la militarizzazione del confine. Nel frattempo, ça va sans dire, politicanti da destra a sinistra si affrettano subito, dichiarazione dopo l’altra, a costruire l’emergenza. “La Regione” – afferma Giovanni Toti, presidente della regione Liguria – “non interverrà per allestire presidi permanenti, tendopoli o altre strutture di accoglienza che riteniamo incompatibili con quel territorio. L’unica soluzione è che il ministero degli Interni trasferisca altrove quei migranti e impedisca l’ingresso di nuovi. Tutto il resto è pelosa ipocrisia. Se il sindaco vuole giustamente proteggere i suoi cittadini si unisca a noi con determinazione nel chiedere lo stop all’arrivo dei migranti e l’intervento delle forze dell’ordine per spostare altrove quelli che ci sono”. E il sindaco, Enrico Ioculano, PD, risponde: "I migranti non vogliono restare, vogliono andarsene, per cui non c’è bisogno di allestire delle strutture. L’accoglienza la facciamo con presidi mobili per l’igiene e distribuendo pasti e generi di prima necessità". Ci sarebbe da chiedersi cosa intendesse con “presidi mobili per l’igiene”, dato che la mattina del 16 giugno polizia e carabinieri si presentano di nuovo al confine con l’intento di sgomberare un centinaio di profughi accampati nei giardini e nella piccola pineta a ridosso della scogliera, guarda caso “per motivi di igiene”; ma i migranti non cedono, resistono e minacciano di buttarsi in mare in caso di sgombero forzato dagli scogli.

Così, mentre comune, prefettura e questura cercano di trovare una soluzione trattando i profughi semplicemente come un problema di ordine pubblico, a 7km di distanza, davanti al confine con la Francia, i migranti, insieme a solidali e attivisti giunti da altre città, di fronte all’insufficienza del centro di accoglienza allestito in stazione dalla Croce Rossa, si autorganizzano per dar vita a quello che diventerà il Presidio Permanente NO Borders Ventimiglia: si costruiscono bagni e docce, si prepara la “zona letto” con materassi, tende e sacchi a pelo, e si organizza un magazzino con tutto il materiale che arriva al presidio e una cucina con alimenti di tutti i tipi portati da attivisti e abitanti della città. Il sindaco, a quanto pare autoelettosi paladino dell’igiene, decide di emanare un’ordinanza per bloccare tali aiuti alimentari; strano che non si sia per nulla preoccupato del cibo portato dalla Croce Rossa, quasi tutto in scatola, lasciato a imputridire al sole prima di essere consegnato ai migranti.

In pochi giorni dalla necessità si passa all’organizzazione: dopo aver risolto i bisogni immediati, si cerca di alzare la testa per uscire da quella piccola bolla a cui, causa la lontananza dal centro, si rischia di andare incontro. Viene organizzata il 20 giugno una grande manifestazione, a cui partecipano varie realtà da tutta Italia, che parte dalla stazione di Ventimiglia e percorre le vie della città per rivendicare la libertà di movimento cui viene loro continuamente negata; nei giorni successivi seguiranno quasi quotidianamente delle proteste al confine con la Francia con striscioni, cartelli, pentole e battiture delle transenne al grido di “We are not going back!” e “No borders, no nation, stop deportation!”.

 

Ma per comprendere meglio cosa succede è indispensabile dar voce alle diverse soggettività che animano il presidio. A raccontarci Il viaggio che hanno dovuto affrontare sono due ragazzi arrivati da circa due settimane. “Vengo dal Sudan, Darfur” – ci racconta Ahmed, 21 anni – “sono fuggito dalla guerra cinque anni fa. Ho lavorato 4 anni in Libia, ho visto un sacco di merda in quel periodo, hanno approfittato in qualunque modo, 4 anni di lavoro di merda solo per guadagnare i soldi per arrivare in Italia…abbiamo attraversato il mare, il nostro viaggio è durato 13 giorni…gli ultimi 4 siamo rimasti senza cibo, perché la nostra barca è affondata…durante il viaggio molte persone sono morte, c’erano alcune persone con il diabete, e non avevamo nessuna medicina, alcune donne hanno perso i loro mariti in mare…è stato difficile e pericoloso”. Una storia simile ci racconta Tahir: “Vengo dal Sudan, ho 21 anni…sono scappato dal Sudan per via della guerra, ho attraversato il confine con la Libia, ho impiegato 6 giorni...dopodiché ho lavorato in Libia in una fabbrica per 11 mesi...poi sono scappato da Tobruk e sono andato verso est fino a Zuwara…Zuwara è una città vicino Tripoli dove quasi tutti vanno se vogliono andare in Italia....a Zuwara non ti danno da mangiare, non puoi lavarti per uno, due mesi...ti rinchiudono dentro una casa e non sai quando potrai partire…io ho aspettato due mesi prima di partire...a un certo punto sono venuti da noi e ci hanno detto ‘muovetevi, adesso partiamo’...ci hanno portato sulla spiaggia e ci hanno chiesto 500 dollari...ci avevano detto che avevano una barca enorme, ma appena ci hanno portato là ci siamo accorti che mentivano, abbiamo trovato solo un piccolo gommone...eravamo 95 persone e ci hanno dato pochissimo cibo e acqua...una volta arrivati ci hanno fatto aspettare 13 ore prima di soccorrerci.....eravamo in mezzo al mare, avevamo dei bambini sulla barca e il capitano ci fa aspettare 13 ore...”.

A questo punto sembra tutto finito, i migranti hanno finalmente raggiunto la loro destinazione... ma è proprio qui che si svela lo spietato razzismo della Fortezza Europa. “Prima che arrivassi in Italia” – prosegue Ahmed – “pensavo che l’Europa fosse un paradiso per i rifugiati. Cioè, ho incontrato molti rifugiati, ho parlato con loro di come l’Europa fosse un posto migliore per i rifugiati, che ti desse una casa, una protezione; e pensavo che una volta arrivato in Italia, tutto sarebbe andato molto meglio, sarei andato a scuola, avrei trovato una casa...ma i 9 giorni che ho trascorso qui in Italia non sono stati per nulla come mi aspettavo: i confini sono chiusi, nessun passaggio per la Francia, vivere in Italia significa questo [indica il presidio]…ho incontrato una decina di persone tra sudanesi e bengalesi, sono qui in Italia da 13, 10, 5 anni, mi hanno detto che non ti aiutano, non ti danno una casa, non ti fanno andare a scuola...semplicemente ti fanno dormire per strada…quando siamo arrivati a Catania, in Sicilia, ci hanno trattato bene, e tutto era organizzato...ma dopo Catania ci hanno portati per 18 ore dalla Sicilia in qualche campo a Bologna…ci hanno preso dall’autobus, eravamo 50 persone, ci hanno separato per età...poi ci hanno portato alla stazione di polizia e ci hanno chiesto le impronte digitali...noi ci siamo rifiutati (sapevamo che se gli avessimo fatto prendere le impronte digitali non saremmo potuti andare da nessuna parte) e ci hanno costretto a prenderle, ci hanno anche picchiato per farlo, me e molte altre persone...capita spesso che ti picchiano per farti prendere le impronte...ti costringono, 4 poliziotti ti tengono e tu non puoi fare niente, non puoi combattere. E dopo averti preso le impronte ti dicono di andare in Germania o da qualsiasi altra parte perché sanno che se vai da qualche parte ti riportano indietro...”.

Potrebbe sembrare assurdo limitare la libertà di movimento di una persona fino a questo punto, se non fosse che il Trattato di Dublino, uno dei regolamenti cardine dell’Unione Europea in tema di diritto di asilo, lo prevede espressamente: formalmente impedisce di presentare una domanda di asilo in più di uno stato membro tramite un archivio comune delle impronte digitali, e prevede che la domanda venga esaminata dallo stato dove il richiedente ha fatto ingresso nell’Unione, ma di fatto è un vero e proprio dispositivo per controllare il flusso di migranti in Europa, e costringe il migrante a restare nel primo paese in cui arriva, che il più delle volte significa non potersi ricongiungere ad amici e familiari.

A provarlo in prima persona è anche Tahir, che sebbene sia costretto a percorrere un’altra strada, trova le stesse identiche barriere: “Quando siamo arrivati in Sardegna, ci hanno divisi per nazionalità e ci hanno portati in città diverse...quindi mi hanno portato a Olbia, insieme a due amici del Sudan e quattro dell’Eritrea...noi volevamo partire ma ci hanno detto ‘domani vi veniamo a prendere per le impronte digitali’...noi gli abbiamo detto che non volevamo restare in Italia...e loro ci hanno risposto che non potevamo andarcene…allora siamo scappati e siamo arrivati a piedi a Cagliari dopo due giorni, ma anche qui ci hanno ripetuto che non potevamo andare a Roma perché non avevamo i documenti...noi abbiamo protestato in 500 al porto di Cagliari e alla fine hanno deciso di portarci a Roma senza documenti…siamo arrivati a Termini e siamo stati per 6 giorni senza cibo, senza soldi…io ho dormito un giorno nel campo, poi sono arrivato a Ventimiglia in treno...ci siamo nascosti sotto i sedili e in bagno perché non avevamo i biglietti...arrivati in stazione ci siamo spostati verso questo posto, al confine…qui pochi vogliono restare in Italia, io vorrei andare in Svezia, alcuni vogliono andare in Inghilterra, altri in Germania, ma è difficile attraversare il confine…dall’Africa, pensavamo che si potesse vivere meglio in Europa, ma quando siamo arrivati, abbiamo capito che la situazione è molto difficile...loro vedono cosa succede a Ventimiglia ma non vogliono aiutare la gente, non so perché...in Africa sentiamo parlare di libertà in Europa, ma dov’è la libertà ora? Avevamo sentito parlare di diritti umani..ora non li abbiamo visti...dove sono i diritti umani?”.

“Sanno benissimo” – dice Ahmed – “che quando i migranti arrivano in Italia, non vogliono restare qui o in Francia, perché ci sono molti altri paesi dell’Europa che danno ai migranti più libertà. Ma non so perché l’Italia tiene noi neri qui. Perfino la Francia è meglio dell’Italia, perché lì non ti costringono a prendere le impronte, c’è più scelta. Non avrei mai pensato che l’Italia fosse così. Pensavo che qui ci fossero dei diritti umani, che nessuno ti costringesse a fare niente...voglio dire, dopo tutto quello che hai passato per arrivare qui, non trovi niente”.

Eppure, nonostante tutte le difficoltà incontrate per arrivare dall’Africa fino a Ventimiglia, giorno dopo giorno escono da quella condizione di marginalità in cui si trovavano e iniziano a prendere coscienza della loro posizione di sfruttati; decidono fin dall’inizio di alzare la testa e resistere all’ennesimo sopruso delle forze dell’ordine. In questo senso il presidio permanente NO Borders non è solo un luogo di transito tra un paese e l’altro, come può esserlo una qualsiasi stazione, ma diventa una base centrale per far sentire a tutti la voce di chi non crede più in vuoti contenitori che chiamano diritti umani, non si sente più rappresentato da nessuno e troppo spesso viene additato come unico colpevole della crisi, e per ristabilire la verità che viene continuamente offuscata dalle narrazioni dei media mainstream. Osservando come viene gestita la situazione da comune, prefettura e questura, iniziano a comprendere che l’Unione Europea non è una fortezza inespugnabile ma una tigre di carta, e che uniti possono veramente cambiare qualcosa. Per questo si sono dati forme di organizzazione spontanea: ogni giorno si riuniscono in assemblea per decidere cosa fare, come per esempio gestire il flusso di persone che vanno e vengono dal presidio in modo da mantenere il più possibile un numero costante.

“I rifugiati” – dice Ahmed – “ora non hanno voce in Europa. Siamo solo persone normali che vogliono attraversare qualche paese…noi cerchiamo di farci sentire...ma loro giocano e basta…con queste proteste che facciamo al confine...forse possono ripensarci, sai...i rifugiati, vogliono solo attraversare il confine…alcune leggi non possono essere infrante, ma qualche volta ci sono delle eccezioni, quindi speriamo che ci saranno…non posso continuare a vivere in mezzo alla strada per il resto della mia vita.”

 

Quello di Ventimiglia non è un caso isolato, come vogliono far credere: è semplicemente il chiaro prodotto delle politiche di immigrazione e di sfruttamento dell’Unione Europea. Mentre 200 migranti arrivavano in questa città, infatti, circa 250 raggiungevano la stazione di Milano, mentre alla stazione di Roma Tiburtina, abbandonati sui marciapiedi tra cartoni e materassi, altrettanti venivano trascinati a forza dagli agenti sui pullman della polizia per essere identificati.

Ciò rivela la totale mancanza di volontà da parte dell’Italia, e dell’Europa in generale, di risolvere una situazione che è diventata insopportabile: i rifugiati vengono trattati come mera forza lavoro da usare a piacimento (e ne è una prova il piano approvato recentemente dall’Unione Europea per la ricollocazione dei richiedenti asilo tra i vari Stati, muovendoli da una parte all’altra come palle da biliardo e non tenendo per nulla conto dei diversi bisogni e desideri di ogni soggettività); in tale contesto il razzismo non è una patologia culturale che riguarda determinati gruppi sociali, ma diventa strumento di precarizzazione e sfruttamento ed elemento strutturale che si estende a tutta la società: dal trattato di Schengen che viene sistematicamente violato quando fa comodo, al primo ministro britannico David Cameron che risponde all’assalto all’Eurotunnel con una militarizzazione sempre più asfissiante, al sindaco di Firenze Dario Nardella che si vanta di usare le ruspe nei fatti e non solo sulle magliette, al sindaco di Alassio che con un’ordinanza anti-immigrati vieta “alle persone prive di fissa dimora provenienti da paesi dell’area africana, se non in possesso di regolare certificato sanitario attestante la negatività da malattie infettive, di insediarsi anche occasionalmente nel territorio comunale”, fino alle “rivolte” di Quinto di Treviso e Casale San Nicola e alla brutalità della polizia italiana e francese che tiene rinchiusi i migranti in dei container al confine per diverse ore prima di rilasciarli.

“Lo capisci dal modo in cui ti guardano” afferma Ahmed.

L’unica soluzione che ripetono da destra e da sinistra, da Renzi, alla Merkel e a Hollande, sembra essere quella di chiudere e militarizzare sempre più i confini, e allo stesso tempo distruggere le imbarcazioni dei trafficanti di esseri umani che partono dalla Libia: perché se i morti non sono a casa nostra, il problema nemmeno si pone.

"Siamo in emergenza" dice il sindaco Ioculano; "Cari amici europei” gli fa eco Matteo Renzi “vi pare normale che a fronte di questa emergenza, originata dall’intervento in Libia, l’Italia sia lasciata sola?”; “Siamo alle prese con un’emergenza difficilissima da affrontare" rispondono le associazioni prefettizie da tutta Italia.

Ma sappiamo bene che non esiste una “emergenza profughi”, ma, come mostrano chiaramente 20 anni di CPT, CIE e CARA e il recente scandalo di Mafia Capitale, soltanto persone invisibili e private di tutto da una parte, e chi da quell’emergenza ne vuole trarre profitto dall’altra.

A giudicare dai fatti di Ventimiglia e di Calais in questi ultimi giorni (in cui nell’ultimo assalto all’Eurotunnel si contavano più di 2000 persone), i flussi migratori stanno sconvolgendo l’assetto istituzionale dell’Unione Europea, che non può più non tenerne conto; e l’unica risposta possibile può venire soltanto dai migranti stessi.

“Ovunque ci sono persone buone e persone cattive” – conclude Ahmed – “il sogno di ogni rifugiato non e’ solo l’Inghilterra, la Germania, o la Svezia...ogni rifugiato sogna un paese che ti dia un posto dove dormire, una scuola, un lavoro...così da poterti dimenticare di tutto quello che hai passato e ricominciare a vivere.”