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Oh, Baltimore, Man it’s hard just to live

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di MIGUEL MELLINO

Baltimore è a ferro e fuoco. Come Ferguson qualche mese fa, come spesso tante altre città americane. La morte in cella subito dopo l’arresto del giovane nero Freddie Gray ha scatenato di nuovo la rabbia delle popolazioni africano-americane costrette a vivere nei ghetti del grande sogno americano. La rivolta è scoppiata dopo i funerali del ragazzo, nel momento in cui la folla presente ha deciso di soggettivare la propria ferita e il proprio dolore, di non lasciarli soffocare nella solitudine, nella tristezza e nell’impotenza. Così, gli africano-americani, ancora una volta, si sono riversati nelle strade per riappropriarsi di tutto ciò che a essi viene negato quotidianamente; provocando nello stato americano la stessa reazione di sempre: stato d’emergenza, coprifuoco e intervento della guardia nazionale. Una situazione che può apparire estrema a chi vive dentro la sfera del diritto, ma che non cambia più di tanto l’aspetto della città agli occhi di chi vive quotidianamente all’interno di ciò che Chatterjee ha chiamato la “società politica” e suoi “spazi d’accezione”.

Quanto sta accadendo a Baltimore, come quanto è accaduto a Ferguson, non deve essere interpretato come un semplice episodio di violenza poliziesca che chiede giustizia; in effetti, buona parte della popolazione ha già espresso la sua sentenza: violenza razziale, omicidio, esecuzione e non altro. E non dovrebbe essere considerato nemmeno come un qualcosa di tipico soltanto della società americana, della sua storia particolare, della sua particolare struttura di classe. Le violenze razziste (istituzionali e non) che subiscono i neri poveri degli Stati Uniti, così come la realtà urbana profondamente segregata di Baltimore, messa efficacemente in luce dalla politica e dalla poetica della serie The Wire, andrebbero lette anche come il risultato dei processi di gentrificazione e di “accumulazione per spossessamento” di un capitalismo divenuto sempre più estrattivo. Questo lato “razziale” del neoliberismo, pur nella sua specificità americana, non è poi così tanto diverso dalle logiche di comando del capitale ad altre latitudini.

Ce lo ricordano diversi testi usciti negli ultimi anni: dall’ormai classico How Race Survived in US History. From Slavery and Settlmenet to the Obama Phenomenon (David Roediger, 2008), a The New Jim Crow. Mass Incarceration in the Age of Colour-Blindness (Michelle Alexander, 2012); da On the Run. Fugitive Life in an American City (Alice Goffman, 2014) a Darker than Blu. On the Moral Economies of Black Atlantic Cultures (Paul Gilroy, 2010), per finire con l’e-book Razza di classe (a cura di Commonware, 2014) uscito di recente in Italia.

La fallacia post-razziale degli Stati Uniti di Obama

Può essere interessante tornare su quest’ultimo testo alla luce di quanto sta accadendo a Baltimore. La raccolta passa in rassegna, infatti, alcune delle tesi più radicali e ricorrenti sulla fallacia “post-razziale” degli Stati Uniti di Obama. Come prima cosa, le violenze quotidiane della polizia nei confronti dei giovani neri, messe in pratica attraverso la tecnica dello “stop and frisk” (fermo e perquisizione), vengono qui interpretate come un aspetto essenziale di una “guerra di classe” di bassa intensità condotta dallo stato contro quei gruppi e soggetti divenuti mera “eccedenza”, ovvero come uno degli strumenti di controllo sociale su quella parte del proletariato nero espulsa dal mondo lavoro e dalla sfera della società civile dopo il processo di ristrutturazione neoliberista. La violenza poliziesca viene così a configurarsi, nella sua funzione minatoria, come una sorta di prosecuzione postfordista dei linciaggi, per ricordare la nota tesi di Angela Davis.

E tuttavia la polizia costituisce soltanto l’avamposto, insieme alle “scuole ghetto” e alle prigioni, di una “macchina penale repressiva” più estesa che, nella sua dialettica di controllo, oscillante tra abbandono (come nel caso dell’uragano Katrina) e incarcerazione di massa, deve essere interpretata come la risposta politica dello stato americano all’abolizione della schiavitù, al movimento dei diritti civili e del black power, ovvero alla minaccia posta dall’antagonismo della blackness e dal lavoro nero libero alla struttura di classe tradizionale della società americana, plasmata sul discorso coloniale della whiteness. E’ così che, Freddie Gray, per stare a quanto è successo a Baltimore, ma come tanti altri giovani neri e latinos, è stato inghiottito non dalle forze di polizia, ma dagli ingranaggi criminali della macchina americana della supremazia bianca.

Questi testi appaiono importanti perché ci sollecitano a pensare il razzismo come un vero e proprio “sistema”, come un dispositivo centrale della stessa composizione di classe del capitalismo americano; e in quanto tale, come un fenomeno che non riguarda unicamente gli apparati repressivi dello stato, ma la società intera: dalla scuola alle università, dal lavoro ai media, dallo spazio urbano al sistema penale. Baltimore, Ferguson e tante altre città non fanno che mostrare la natura ideologica dell’ordine discorsivo dominante sul presunto divenire post-razziale degli Stati Uniti di Obama. Si tratta di un ordine discorsivo che si auto-narra certo come «post-razziale», eppure, proprio in virtù della sua costruzione del razzismo come una frattura sociale ricomponibile al di là della reale rimozione delle disuguaglianze materiali su cui è storicamente fondata, esso non fa che mostrarsi sempre di più come una nuova e più perversa variante delle governamentalità razziali moderne. È proprio in quest’accezione che possiamo definire come «post-razziale» il neoliberismo ai tempi di Obama: nel senso di una sua perversa e costante negazione degli effetti persistenti della supremazia bianca e del capitalismo razziale nel presente della società americana. Razza e razzismo sono strutture materiali, non solo simboliche.

Il razzismo è un sistema

Razza di classe, così come gli altri testi che abbiamo citato, anche se a partire da diversi background teorici, ci propone poi alcune considerazioni sulla natura del razzismo su cui occorre soffermarsi, se pensiamo alla povertà (ma anche a quello che possiamo chiamare in termini sartriani una sorta di “malafede collettiva”) del dibattito italiano su questo argomento. Dalle analisi qui offerte si evince con chiarezza quanto sia politicamente fuorviante considerare la violenza razzista come il prodotto di un “pregiudizio”, di una “mancanza” o di un “deficit di cultura”, per così dire, di cui sarebbero attraversati i (soli) soggetti razzisti (diversamente al resto della società illuminata). La forza delle interpellazioni razziste non sta nel pregiudizio, con buona pace di Pierre-André Taguieff. Ugualmente fuorvianti appaiono qui altri discorsi “progressisti” che ritornano ogni volta sulla scena pubblica italiana come i giusti corollari interpretativi di nuove aggressioni o violenze razziste: contrariamente a quanto pensano liberali e sinistra istituzionale, il razzismo non è un fenomeno che viene soltanto dall’alto, non è quindi legato soltanto alle istituzioni (alle forze dell’ordine, al meschino tornaconto dei politici di professione o alle politiche di controllo del lavoro o delle migrazioni), e non è nemmeno un fenomeno che emerge tra i soggetti soprattutto nelle situazioni di povertà o di degrado, o in quartieri periferici disagiati o non belli dal punto di vista architettonico. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, sussumere comportamenti, violenze e aggressioni tipicamente “razziste” entro una generica categoria di “guerra dei poveri” non fa che velare (quando non giustificare) la natura del problema. Decolonizzare lo sguardo nell’analisi del razzismo significa andare oltre questo tipo di ragionamento per mettere in discussione le nostre stesse categorie teoriche e politiche.

A partire da questi testi, siamo invece indotti a pensare il razzismo come un dispositivo di comando costitutivo del capitalismo moderno e delle sue modalità coloniali, sovrane e necropolitiche (e non solo biopolitiche) di amministrazione, controllo e produzione di territori, culture, saperi e popolazioni. Può essere interessante riprendere qui una nota definizione di Ruth W. Gilmore, secondo cui “il razzismo è la produzione e lo sfruttamento, legittimati in qualche modo dallo stato, di diversi gradi di ‘vulnerabilità a morte prematura’ tra i diversi gruppi sociali, nell’ambito di geografie politiche distinte ma tuttavia densamente interconnesse”. Il razzismo, dunque, non può essere considerato come un mero effetto secondario di altri processi: si tratta di un fenomeno che attraversa tanto la struttura di classe quanto l’ordinamento simbolico delle società statal-nazionali moderne, e cha ha avuto il suo “grado zero” nello sviluppo del colonialismo e della schiavitù, ovvero nella “colonialità” del potere capitalistico globale moderno. In quanto essenziale dispositivo moderno di gerarchizzazione (materiale e simbolica) della cittadinanza riguarda la produzione e gestione della società nel suo complesso.

Baltimore, Lampedusa: nowhere to run to

Ad essere razzializzati, dunque, non sono solo gli “altri”. Ci pare quest’ultimo un indispensabile punto di partenza per la costruzione di una pratica teorica e politica antirazzista davvero radicale. Anche perché le società europee non possono certo dirsi lontane da Baltimore o Ferguson: solo che qui la supremazia bianca si è storicamente iscritta nello stesso significante Europa durante l’espansione coloniale, mentre la funzione storica dei linciaggi viene affidata oggi non solo alla gestione poliziesca delle zone ad alta densità di popolazioni postcoloniali, ma anche alla violenza di CIE, CARA, Frontex, Triton e altri elementi delle politiche migratorie. Forse la macchina penale razzista europea andrebbe pensata come una risposta politica alla mobilità del lavoro migrante a partire dalla decolonizzazione in poi. Non è un caso che a porre la questione della razza e del razzismo sullo stesso territorio europeo siano state le lotte e le insurrezioni di gruppi e soggetti provenienti dalle ex-colonie. Baltimore dunque interpella anche a noi: come non vedere la recente tragedia di Lampedusa come l’ennesimo assassinio di massa perpetrato da una “macchina penale” altrettanto spietata, criminale e razzista? Decolonizzare lo sguardo non può non significare, ancora una volta, disidentificarsi da quest’Europa. Vogliamo concludere richiamando un brano della bellissima Baltimore, cantata dalla dolce e malinconica, ma pur sempre intransigente, voce di Nina Simone:

 

Hard times in the city

In a hard town by the sea

Ain't nowhere to run to

There ain't nothin' here for free

 

Hooker on the corner

Waiting for a train

Drunk lying on the sidewalk

Sleeping in the rain

 

And the people hide their faces

And they hide their eyes

'Cause the city's dyin'

And they don't know why

 

Oh, Baltimore

Ain't it hard just to live?

Oh, Baltimore

Ain't it hard just to live?

Just to live

* pubblicato anche su decoknow