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Le due produzioni di soggettività nel capitale

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di JASON READ

Intervento sulla “produzione di soggettività” nell’incontro di autoformazione “Cartografia delle lotte”

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L’attuale fase storica può essere descritta come quella del predominio dell’individuo sul collettivo. L’individuo regna sovrano in politica, mentre un’etica dei diritti e delle libertà individuali spiazza ogni progetto di liberazione collettiva. Ciò avviene ancora di più nell’economia, dove la massimizzazione dell’utile individuale dell’economia neoliberale spazza via non solo ogni altra idea di rapporti economici, ma sussume tutti i rapporti sociali. Le tradizioni e le istituzioni sono state spogliate, rivelando il calcolo e l’interesse individuali che sempre si annidano sotto di esse. L’interesse individuale è diventato l’architrave attraverso cui tutte le azioni possono essere interpretate. L’affermazione politica ed economica dell’individuo è completata da un ideale culturale di compiuta e integrale auto-espressione e indipendenza. Negare questo dominio, affermare che ci possono essere altre forze politicamente al lavoro, altre cause da considerare economicamente, altri valori cui aspirare eticamente o culturalmente, significa essere bollati come collettivisti, essere gravati dello spettro di crimini e catastrofi del secolo passato. L’individuo è diventato non solo la base delle interpretazioni politiche, culturali ed economiche, ma la misura di tutte le nostre aspirazioni; è al contempo tutto ciò di cui si ha bisogno per dare senso al mondo e il meglio che si possa sperare da esso.

Che viviamo in un’“era di individualismo” forse va da sé. Tuttavia, un simile giudizio solleva tante domande quante risposte. A che livello dobbiamo collocare l’individuo? Per prendere a prestito le parole di Foucault, è un’“illusione”, un “effetto ideologico”, oppure è un elemento di funzionamento reale della società? In breve, le persone si illudono nel vedersi come individui, oppure l’individuazione è un effetto materiale di pratiche? Buona parte del discorso sulla valorizzazione contemporanea della moltitudine, e con esso la dimensione cooperativa del lavoro, ha insistito sul fatto che l’individuazione può solo essere una distorsione delle condizioni collettive della produzione effettivamente esistenti. Come scrive Antonio Negri riguardo al neoliberalismo, “il problema è che la liberalizzazione estrema dell’economia rivela il suo opposto, vale a dire che l’ambiente sociale e produttivo non è fatto da individui atomizzati [...] l’ambiente reale è fatto da individui collettivi”[1]. In modo simile altri teorici della tradizione post-operaista, come Paolo Virno, hanno insistito sul fatto che la produzione contemporanea, con la sua enfasi sul lavoro intellettuale, la cooperazione e la produzione di relazioni sociali, ha reso l’individuo sociale, e non solo l’individuo, il soggetto del lavoro contemporaneo. Contro questa tendenza abbiamo le critiche post-focuaultiane del neoliberalismo, le quali sostengono che lungi dall’essere un’illusione ideologica, il neoliberalismo è un’effettiva produzione di soggettività. Il neoliberalismo funziona in quanto insieme di trasformazioni istituzionali e politiche che costringono le persone ad adottare la sua visione del mondo. I genitori che mandano i figli a una scuola privata invece che a una scuola pubblica sottofinanziata, oppure lo studente universitario che cerca di trovare il modo migliore di indebitarsi per i propri studi, possono non credere all’ideale degli individui competitivi o ai rapporti di mercato come modello ideale dei rapporti sociali, ma per sopravvivere sono obbligati ad agire come se ci credessero. La teoria neoliberale dichiara che ognuno è un individuo isolato che massimizza il proprio interesse, mentre la pratica neoliberale, la costituzione del mercato che fornisce soluzioni per ogni cosa, dalla formazione all’ambiente, funziona per produrre attivamente questa tendenza, distruggendo la possibilità e il desiderio di agire in maniera collettiva.

Vi è quindi una forte contrapposizione tra coloro che sostengono che l’individuo non è nient’altro che la rappresentazione ideologica di una società che in misura crescente mette al lavoro l’intelligenza collettiva della società, e coloro che sostengono che la società contemporanea ha distrutto qualsiasi senso collettivo di appartenenza o azione a favore di un soggetto sempre più isolato o individuale. Se uno di queste due affermazioni è vera, l’altra dovrebbe essere falsa.

Un passaggio dei Grundrisse ci offre una via di uscita, se non un superamento dialettico, di una tale opposizione. Nel passaggio Karl Marx affronta la tendenza all’interno dell’economia politica classica, o borghese, ad assumere come punto di partenza l’individuo isolato e indipendente. Dapprima la sua critica sembra insistere sul tema familiare della storicizzazione, sostenendo che ciò che gli economisti prendono per “punto di partenza della storia” è invece un “risultato storico”[2]. L’individuo isolato delle robinsonate è, al pari del romanzo da cui prende il nome, un prodotto della dissoluzione storica del feudalesimo nel XVIII secolo. Assumere l’individuo come un prodotto e non come l’origine della storia non significa semplicemente liquidarlo come una finzione, ma comprenderlo come una condizione e un effetto della storia. Scrive Marx: “È soltanto nel XVIII secolo, nella ‘società civile’, che le diverse forme del contesto sociale si contrappongono all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, come una necessità esteriore. Ma l’epoca che genera questo modo di vedere, il modo di vedere dell’individuo isolato, è proprio l’epoca dei rapporti sociali (generali da questo punto di vista) finora più sviluppati. L’uomo è nel senso più letterale un animale politico, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi. La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società [...] è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro” [3].

Questo passaggio aggiunge numerosi elementi all’argomento che riguarda le condizioni storiche dell’individuo. In primo luogo, situa queste condizioni all’interno di una contraddizione: l’individuo è un prodotto storico non perché la società sia diventata più frammentata e isolata e gli individui più indipendenti, ma proprio per la crescita e lo sviluppo dei rapporti sociali. Più la società è connessa e collegata, più quel rapporto appare un isolamento. Questa contraddizione suona forse soprattutto come un paradosso: come può lo sviluppo condurre all’isolamento, la connessione alla frammentazione? In secondo luogo, Marx integra la sua argomentazione storica con qualcosa che, a seconda di come lo si vuole leggere, può essere considerato un’antropologia filosofica o un’ontologia. Attingendo dalla famosa definizione di Aristotele dell’uomo come animale politico, Marx non si volge alla polis come condizione necessaria per l’esistenza umana, ma al fatto che l’individuazione possa avvenire solo in seno alla società. La politica, o la società, è non solo una condizione necessaria per l’esistenza dell’individuo, per la sicurezza e la protezione dell’umanità dai pericoli che non è preparata a fronteggiare come sommatoria di individui, ma anche per l’individuazione. È solo attraverso la politica, attraverso la società, che qualcosa come l’individuazione è possibile. Marx sottolinea questo fatto attraverso il riferimento al linguaggio, che è la condizione collettiva per l’espressione e l’articolazione individuali. L’individuazione non è opposta alla società, ma si sviluppa solo attraverso di essa. Non c’è bisogno di un’isola deserta per diventare un individuo, ma al contrario di un’intera città[4].

La parola che meglio specifica questo concetto di un’individuazione che attraversa i rapporti sociali, invece che mettersi in contrapposizione con essi, é transindividuale. Il termine transindividuale è preso dal lavoro di Gilbert Simondon e può essere brevemente definito con due postulati di base. Il primo è che l’individuazione è un processo e non un principio. Invece che vedere qualsiasi cosa come già individuata, l’individuazione deve essere intesa come un processo. Le unità costitutive di questo processo non sono gli individui, qualche tipo di blocco costruttivo o qualche atomo di realtà, ma i rapporti che esistono in uno stato metastabile. Ciò che ci individua, il nostro modo di parlare, le nostre abitudini, comportamenti, sono posti in essere non tanto da singoli fattori, ma sono l’esito di relazioni differenziali. Ciò ci conduce al secondo presupposto: la relazione fra individuazione e il collettivo non è un gioco a somma zero,in cui l’individuazione è a spese del collettivo e la coesione collettiva può soltanto sopprimere l’individuazione, invece che porsi come una relazione fra reciproche individuazioni, una relazione transindividuale. Esattamente come la riflessione filosofica di Simondon può essere letta come l’articolazione ontologica, l’ontogenesi, della formulazione di Marx dell’individuo individuato dentro e attraverso la società, la sua ontologia manca della seconda componente, cioè quella del paradossale isolamento attraverso il rapporto che invece definisce l’individuazione capitalista per Marx.

L’affermazione di Marx riguardo alla produzione dell’individuazione non è limitata solamente a quanto scritto in un testo poi pubblicato postumo. È un problema che permea tutti gli scritti di Marx, non è contenuta solo nella famosa critica agli interessi di classe specifici della borghesia che caratterizza i suoi primi scritti sul capitale. Attraverso i lavori più maturi di Marx è possibile afferrare non solo la continuazione della critica all’individuo o alla società borghese, oppure uno sviluppo dell’ontologia dei vari modi di essere, ma un’articolazione della loro intersezione. Marx critica il capitale perché creatore sia di un individuo isolato di “libertà, eguaglianza, proprietà e Bentham” attraverso la sfera dello scambio, sia di una modalità produttiva che fa sempre più affidamento sulla combinazione dei poteri attraverso cui è organizzata la produzione cooperativa. Le sfere dello scambio e della produzione sono differenti “rapporti di individuazione”; nella prima gli individui si confrontano tra di loro sul mercato, confrontando il lavoro degli altri solo e attraverso il feticcio delle merci, mentre nella seconda gli individui hanno capacità collettive messe al lavoro dal capitale.

Nessuna deve essere considerata secondo uno spettro morale che va dal bene al male. Non è un’opposizione fra buon collettivismo e cattivo individualismo. Quanto più il capitale mette al lavoro le forze collettive, tanto più non lo fa solo per il capitale, sfruttando la massimizzazione del profitto, ma per il comando del capitale. Come Marx ci ricorda, il potere collettivo dei lavoratori appare sempre più come il lavoro del capitale stesso, così come il potere produttivo della cooperazione scompare nell’accattivante immagine del capitale che produce capitale. La cooperazione capitalistica non può essere scambiata per la prefigurazione di un futuro comunista. È troppo rigidamente contrassegnata dalla disciplina e catturata all’interno di un costitutivo non riconoscimento, in cui l’energia collettiva appare come l’energia del capitale. Per contro, l'individuo borghese non è semplicemente nascosto in una qualche forma di appartenenza collettiva. O meglio ciò che è nascosto è precisamente il proprio carattere borghese, l’isolamento che confina con “libertà, eguaglianza, proprietà e Bentham”. Piuttosto che affermare semplicemente che la cooperazione è una forma capitalistica, o che distrugge l’individualità nella sua forma borghese, entrambi i casi c'è una cattura, entrambi i lati devono essere superati per costruire l’individuo sociale, un’individuazione che è prodotta dentro e attraverso i suoi rapporti. L’individuo sociale può essere in un certo senso inteso come il punto d’arrivo. Nel frattempo la questione nel presente rimane quella di pensare all’articolazione di due differenti e contraddittorie individuazioni: quella del consumo che riproduce l’umanità come isolata e frammentaria, e quella della produzione, che incide sempre di più sulle relazioni e sui potenziali collettivi.

Con riferimento alla prima è necessario pensare attraverso la produzione dell’individuo nei rapporti e nei prodotti del capitalismo contemporaneo. Il primo di questi, come Marx ha notato, è la forma stessa della merce. La merce ci appare non come la forma del lavoro sociale, ma come una cosa isolata, che possiede valore come sua proprietà intrinseca. L’atto dello scambio di mercato riproduce l’indipendenza e l’isolamento non solo della merce, ma anche degli individui che le scambiano. Così come le merci appaiono in quanto cose, il cui valore è una proprietà intrinseca invece che il prodotto dei rapporti di produzione, l’individuo, quello borghese, appare come qualcosa che esiste separatamente da essi, e a priori da questi rapporti[5]. Il modo capitalistico di produzione non solo feticizza le merci, ma produce anche l’individuo come feticcio. Mentre la teoria di Marx sulla forma merce dimostra come una particolare forma sociale produca un particolare modo di individuazione, rimane al livello della forma, fallendo nel tentativo di prendere in considerazione le trasformazioni tecnologiche, culturali e politiche del capitalismo contemporaneo. Bernard Stiegler ha offerto un avanzamento teorico circa il problema dell’individuazione del capitalismo contemporaneo riflettendo sul modo in cui le merci dell’industria culturale, film, musica e televisione, danno nuova forma e strutturano l’individuazione. La differenza fondamentale tra Marx e Stiegler su questo punto è che Marx considera in primo luogo l’oggetto e il soggetto formalmente basati sui rapporti sociali, connettendo la forma delle merce, il feticcio, con la forma di un’astratta individualità; Stiegler, dall’altra parte, considera l’oggetto in questione non nei termini delle sue caratteristiche formali o delle sue relazioni generali, ma nel suo modo di legarsi alla memoria intesa come base fondamentale dell’individuazione. Stiegler delinea così una trasformazione fondamentale delle condizioni di individuazione dell’utensile o anche del libro, che è definito dalla capacità materiale di individuarsi differentemente, e delle merci culturali come film e musica. Questa distinzione è affermata nella fondamentale revisione del concetto di preindividuale di Simondon: per Stiegler il preindividuale, le basi dell’individuazione, è prima di tutto legato alla forma degli oggetti che sono la base della memoria e dell’individuazione. Il preindividuale non è semplicemente fatto di linguaggi, abitudini e percezioni che esistono come una sortadi scenario naturale della formazione di soggettività; tutto questo è invece il prodotto di un determinato processo di transindividuazione, una forma di cultura che non è separabile dalla sua materializzazione[6]. Noi individuiamo noi stessi, o siamo individuati nel modo in cui ereditiamo particolari artefatti, come particolari materializzazioni della memoria. L’industria culturale trasforma in maniera radicale i termini di questa eredità. Inizialmente, l’eredità di uno strumento o di un libro era inseparabile dall’imparare come usarlo, proprio come leggere è inseparabile dallo scrivere. Le merci dell’industria culturale trasformano radicalmente ciò, costituiscono le basi della nostra memoria, ricollocando le memorie che accumuliamo mentre viviamo, ma non ci trasmettono alcuna competenza, alcuna capacità di individuarci in maniera differente, è solo consumo passivo. Al punto estremo di questo processo non c’è altro che la distruzione dell’individuazione stessa. Come scrive Stiegler: “Dire che viviamo in una società individualista è una patente bugia, una straordinaria falsa illusione, ed è straordinaria perché nessuno sembra consapevole di ciò, come se l’efficacia della bugia sia proporzionale alla sua enormità, e come se la bugia non sia responsabilità di nessuno. Viviamo in un società-gregge, come compreso e anticipato da Nietzsche. Alcuni pensano che questa società sia individualista perché, ai più alti livelli di responsabilità pubblica e privata, ma anche nei più piccoli dettagli di tali processi di adozione segnati dal marketing e dall’organizzazione del consumo, l’egoismo è stato elevato a culmine della vita. Ma l’individualismo non ha alcuna relazione con questo egoismo. L’individualismo vuole il fiorire della persona, l’essere sempre e indissolubilmente un noi e un io, un io in un noi o un noi composto di é, incarnato da é. Contrastare l'individuo e il collettivo significa trasformare l’individuazione in atomizzazione sociale, producendo un gregge”[7].

Per Stiegler non c’è individuazione senza transindividuazione, l’individuo è costituito in relazione alle tradizioni e conoscenze collettivamente ereditate. È proprio questo che l’industria culturale contemporanea distrugge, riducendo l’individuo a una serie di gusti negoziabili, il noi in un “loro” che è nel migliore dei casi una totalità statistica e al peggio un nemico ostile. La sfera della circolazione si è spostata da “libertà, eguaglianza, proprietà e Bentham” a “concorrenza, invidia e Bernays”.

In netto contrasto con Stiegler, Paolo Virno ha sostenuto che il processo di produzione contemporaneo ha messo al lavoro la dimensione transindividuale della soggettività. Come con Stiegler, ciò può essere visto come una radicalizzazione dell’affermazione di Marx secondo cui la produzione capitalistica mette al lavoro non solo la capacità individuale di lavoro, ma anche il lavoro collettivo della specie. Ciò che sottolinea Virno, e che giustifica l’uso del termine transindividuale, è che nel processo di lavoro contemporaneo non basta mettere al lavoro gli sforzi congiunti di diversi individui, i loro poteri cooperativi, ma la loro stessa capacità di relazionarsi e di individuare. Come scrive Virno, prendendo a prestito la frase di Marx, nell’individuo sociale, “sociale” dovrebbe essere tradotto come preindividuale, e “individuale” dovrebbe essere visto come il risultato finale del processo di individuazione[8]. Questa è la comprensione di Virno della nascita della dimensione cooperativa e intellettuale della produzione postfordista. Un lavoro che coinvolge la comunicazione, il linguaggio e gli affetti è un lavoro che sfrutta simultaneamente e produce le stesse condizioni per l’individuazione, la riproduzione e la trasformazione dell’esistenza collettiva e individuale.

Seguendo l’uso della terminologia di Simondon di Stiegler e Virno, potremmo sostenere che ciò che definisce la fase attuale del capitalismo è la mercificazione del preindividuale e lo sfruttamento del transindividuale. Ma la divisione è ruvida e non evidenzia una particolare osservazione sottostante le analisi di Stiegler e Virno, che molto di quello che leggiamo, ascoltiamo e guardiamo, la base della nostra sensibilità, viene a noi in forma di merce, mentre fuori il lavoro è sempre più sociale, coinvolge non solo la cooperazione con gli altri, ma la capacità di relazionarsi con gli altri. Questa affermazione ripete e approfondisce l’analisi di Marx della sfera dello scambio e la dimora nascosta della produzione di due individuazioni differenti, due differenti produzioni di soggettività. È possibile comprendere Stiegler e Virno e approfondire questa analisi: ora la sfera dello scambio, la sfera del consumo, non è più quella di individui egoisti, ma della distruzione delle stesse condizioni di individuazione; e la dimora nascosta della produzione non è più semplicemente il luogo che mette al lavoro i poteri cooperativi dell’umanità, ma le condizioni stesse della vita collettiva e individuale. La divisione si approfondisce, e passa non tra due classi, quelli che comprano e vendono sul mercato e coloro che hanno solo la loro forza lavoro da vendere, ma al cuore dell’individuazione transindividuale, della soggettività stessa.

Mentre può essere difficile conciliare queste due diverse prospettive, che insieme possono essere considerate una intensificazione della tendenza “schizofrenica” del capitalismo, collettivo al lavoro ma disindividuato nei consumi, prese insieme dipingono un quadro del capitalismo contemporaneo che può forse solo essere unito da ciò che esclude. Tra la mercificazione del preindividuale e lo sfruttamento del transindividuale vi è la distruzione di quel tipo di individuazioni che hanno definito la politica contemporanea, quelle del cittadino o anche del lavoratore, che si definiscono in relazione a una stabile identità collettiva e individuale. Questo non vuol dire che qualsiasi politica futura debba affrontare solo gli individui e i collettivi in quanto consumatori o imprenditori, adottando le macchinazioni del marketing o delle prospettive tristi del libertarismo. Tuttavia, ciò significa che ogni politica futura non può semplicemente presupporre forme di transindividuazione che sono state radicalmente trasformate, come la cittadinanza. Invece eventuali politiche future devono lavorare sul terreno della individuazione di sé, mobilitando le competenze collettive del lavoro contro le ansie che frammentano del consumismo, trasformando la nostra ansia collettiva e l’impotenza in potere.

 
 


[1] Antonio Negri, The Politics of Subversion: A Manifesto for the Twenty-First

Century, Polity, Cambridge 1989, p. 209.

[2] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, trad. it. Firenze, La Nuova Italia, vol. I, 1968, p. 4.

[3] Ivi, p. 5.

[4] L’idea di Marx dell’individuazione attraverso i rapporti sociali ha uno strano precursorse in Cartesio. Nel Discorso sul metodo, Cartesio riflette sulle condizioni sociali urbane come una combinazione di individuazione e socializzazione. Come scrive Cartesio, “tra la moltitudine di un popolo grande, attivissimo, e più sollecito dei propri affari che curioso di quelli altrui, senza mancare di nessuna comodità delle città più affollate, ho potuto vivere in tanta solitudine e in tanta quiete quanta ne avrei potuta trovare nei più lontani deserti” (Cartesio, Discorso sul metodo, p. 13).

[5] Marx suggersice una connessione tra la merce, in quanto oggetto, e un particolare modo di soggettivazione nella famosa sezione de Il capitale sul carattere di feticcio della merce, quando scrive: “Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri valori privati l’uno all’altro in questa forma di cose, come eguale lavoro umano, il cristianesimo, col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente” (Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, trad. it. Roma, Editori Riuniti, vol. 3, 1994, p. 111).

[6] Bernard Stiegler, Chute et élévation. L’apolitique de Simondon, in “Revue philosophique”, PUF, Parigi, n°3/2006, p. 327.

[7] Bernard Stiegler, Acting Out, Stanford University, Stanford 2009, p. 48.

[8] Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2002.