Stampa

La sfida dei movimenti in Spagna (e altrove)

on .

di IVAN BONNIN (@ivnbkn)

[Prosegue la nostra indagine sulle lotte nella Spagna di oggi, per discutere le continuità e le discontinuità con il 15M, le trasformazioni delle soggettività in gioco, le potenzialità e le criticità dei processi organizzativi in atto]

L'oceanica manifestazione del 22M a Madrid – ovvero la convergenza delle marce per la dignità – è stata una imponente prova di forza che esprime da un lato la potenza, quando interconnessa, di una molteplicità di mobilitazioni sui territori, e dall'altro la potenzialità di generalizzazione che le lotte anti-austerity hanno in una Spagna stretta nella morsa assassina del governo di Rajoy e della governance di Unione Europea e finanza transnazionale. Il dato politico, evidente e sotto gli occhi di tutti, è l’indisponibilità di una popolazione sempre più impoverita e sofferente a pagare la crisi e una volontà di rifiuto massificata e trasversale alle politiche di austerity imposte. 

Eccedenza sociale
Data la mole del 22M, l'eccedenza sociale è stata protagonista assoluto della giornata, il riflesso di un'opposizione sociale diffusa. Le “colonne” che hanno attraversato il paese sono state il risultato di un generoso sforzo militante, organizzate attraverso i filtri del sindacalismo conflittuale che fa leva sull'elevatissimo tasso di diosoccupazione e erosione dei diritti sul lavoro. Ma il grande merito degli organizzatori sta nell'aver saputo far coesistere insieme al claim centrale del “Lavoro” – certo, ancorato al retaggio ideologico lavorista che caratterizza non solo la sinistra nazionale spagnola, ma quella mondiale – altre rivendicazioni: reddito di base, no al ripagamento del debito, no ai tagli, no a repressione e corruzione, libertà civili, ma soprattutto dignità. È stata infatti la lotta per la dignità a parlare al cuore e alla pancia della popolazione, visibilmente stremata dall'acuirsi della crisi. Dignità è quel significante capace di catalazzare la ricomposizione di un'irriducibile molteplicità di bisogni e desideri, che senza dubbio eccedono la rivendicazione del Lavoro tout court, e la riprocessano ampliandone il framework di riferimento: dal Lavoro al diritto ad una vita degna nel suo complesso. È la lotta per la dignità, e non per il Lavoro, ad avere innescato il formidabile processo di generalizzazione che si è dato a Madrid, dove la componente giovanile – assente o quasi durante le marce – è emersa con potenza, trasformando sia qualitativamente che quantitativamente la manifestazione, cambiandone il segno, connotandola con i tratti di un'insorgenza sociale.
 
Soggettività e materialità delle rivendicazioni
Il filo invisibile che ha legato l'attivazione di generazioni e soggettività all'apparenza così lontane tra loro e differenti è senza dubbio stata la materialità dei contenuti delle proteste. All'intensificarsi della sofferenza generata dal regime d'austerità europeo-spagnolo, seppur in un processo che non è  lineare e tantomeno scontato, l'antagonismo al sistema tende a saldarsi in un concatenamento di sostanziale (e sempre meno formale) conflitto di classe. L'immaginario anti-sistemico degli Indignados – e soprattutto l'individuazione dell'1% come controparte –  rappresenta tuttora un formidabile collante sociale e un forte antidoto algli impulsi e alle derive reazionarie. Eppure, non si può fare a meno di registrare una significativa evoluzione nei contenuti delle proteste che vanno dal 15M (2011) alla primavera della dignità (2014). In questi tre anni molte cose sono cambiate: la crisi ha scavato in profondità, inevitabilmente trasformando le soggettività coinvolte, al contempo le lotte per la democrazia sono via via divenute lotte per la dignità. La sedimentazione soggettiva del movimento 15M continua certamente ad agire, ma su un tessuto sociale mutato nel tempo, impoverito e incattivito. 
Vediamo allora come tutte o quasi le rivendicazioni delle lotte recenti esprimono contenuti materiali in modo esplicito: le piattaforme contro il debito come dispositivo d'esproprio, un esempio su tutti il successo e la popolarità del movimento della PAH per il diritto all'abitare contro le ipoteche; la vertenzialità conflittuale di un ampio spettro di mobilitazioni che va dai lavoratori di Panrico e Coca-Cola ai pescatori della Galizia, dai minatori asturiani agli spazzini madrileni, etc., in lotta contro licenziamenti e peggioramenti retributivi, e capaci di attivare espressioni di solidarietà sociale diffusa; la resistenza del quartiere Gamonal e le lotte territoriali per un altro modello di sviluppo, che pongono come prima istanza il diritto di decisione sulle modalità di impiego delle risorse pubbliche; le “maree” contro le privatizzazioni e gli attacchi al welfare, gli studenti contro i tagli alle borse di studio e la restrizione dell'accesso all'università; le lotte per il diritto alla metropoli e alla libertà di circolazione, tra cui spicca per radicamento, continuità e potenzialità di generalizzazione Stop Pujades Transport (contro gli incrementi del prezzo dei biglietti dei trasporti) a Barcellona; l’assedio alla Troika ospite indesiderato a Bilbao e i vari escrache a banchieri e politici. Tutte queste mobilitazioni esprimono rivendicazioni di carattere prevalentemente economico e materiale, a partire da cui si dispiega il piano politico. Anche i movimenti per i diritti civili – si pensi alle campagne femministe per il diritto all'aborto e a quelle anti-repressione – individuano obiettivi estremamente materiali piuttosto che formali: non importa tanto il come, ma il risultato. Lo stesso vale per le “orde” di migranti che assediano Ceuta e Melilla, avamposti della Fortezza Europa in Africa: a questi non importa molto né del deficit democratico dell'Unione Europea né delle modalità di funzionamento degli Stati che la costituiscono, ma lottano senza mediazioni contro la feroce imposizione di un regime di controllo (e sfruttamento) dei movimenti della forza-lavoro.
 
Quale “democrazia”?
L'attuale esplicitarsi di rivendicazioni materiali non significa che il 15M ne fosse esente, anzi. Dentro il claim “una vera democrazia ora” erano  ben presenti, seppur non centrali. La centralità discorsiva era occupata dalla cosidetta “strategia democratica” – radicale, non-violenta. Ovviamente, la democrazia a cui si ambiva non era certo quella rappresentativa, che al contrario era esplicitamente contestata e rifiutata. L'accento era sui processi partecipativi dal basso, per sostenere e organizzare dinamiche di opposizione all'1% e di riappropriazione. Non a caso lo slogan che forse meglio sintetizza il 15M era: "non siamo merce nelle mani di politici e banchieri." I movimenti sociali reali – con alti e bassi – hanno e continuano a interpretare e praticare la “democrazia” come strumento organizzativo e prassi decisionale, situata fuori dalle istituzioni, dunque liberandola dalla cattura liberale. La tendenza è evitare di nominarla ossessivamente come un mantra.  
 
Opzioni elettorali e limiti
In una fase in cui l'intensificarsi dell'austerity coincide con il sopraggiungere della scadenza elettorale europea, sono state avviate alcune operazioni di rappresentanza che mirano a un fantomatico '”assalto alle urne”. Le principali opzioni post-15M risultano essere il Partito X e Podemos. Il primo pone enfasi sulla potenza liberatoria della tecnopolitica e sulla partecipazione cittadina. La realtà dei fatti ci dice, però, che la tecnopolitica senza un forte radicamento e intervento politico nelle reti di relazioni “analogiche” del tessuto sociale è uno strumento comunicativamente insufficiente. Talvolta uno striscione in un quartiere proletario o un'azione ben mirata sono più efficace di un hashtag su twitter che non fuoriesce dai circuiti attivisti. La rete può e deve amplificare, non autonomizzarsi. Inoltre, la partecipazione cittadina non è certo così ampia come si sperava: per esempio, meno di 3.000 persone hanno partecipato alle primarie e il partito non è quasi per nulla conosciuto al di fuori delle cerchia di simpatizzanti e addetti ai lavori. La seconda opzione, Podemos, ha invece generato più dibattito ed è forse arrivato a più persone. Oltre a disporre di più mezzi economici, va sottolineata la relativa efficacia di una strategia comunicativa centralizzatrice (di modello chavista?) che ha incentrato l’attenzione mediatica su alcune figure chiave. Il candidato è Pablo Iglesias, uno stimato professore di Scienze Politiche della prestigiosa Universidad Computense e personaggio mediatico che conduce una seguita trasmissione televisiva. Questo fa riflettere sul fatto che l'occupazione della rete, se si vuole concretamente puntare alla generalizzazione del conflitto sul piano comunicativo, deve essere complementare (e non sostitutiva) all'occupazione – per quanto difficile – dei canali di comunicazione mainstream, televisione soprattutto, e deve avvalersi di alcune figure di impatto. La tecnopolitica è un valore aggiunto, peraltro alla portata di chiunque si intenda di strategie di marketing (vedi M5S in Italia). Quello che invece accomuna le due opzioni elettorali è il loro situarsi sull'ostile terreno della rappresentanza liberale, probabilmente senza i rapporti di forza necesari per rovesciarlo e superarlo. Inoltre, entrambi gli esperimenti solo formalmente si nutrono delle istanze anti-sistemiche che i movimenti esprimono: il tentativo di inserire claim non mediabili dentro istituzioni di matrice capitalistica e in una logica da campagna elettorale è una scommessa che inevitabilmente tende a separare il piano dei movimenti sociali, i rappresentati, da quello dei partiti, i rappresentanti. Non a caso, nei cortei ancora eccheggia lo slogan “nessuno ci rappresenta!” 

Contropotere popolare
Le linee di tendenza del conflitto sociale, suggerite soprattutto dal contagio affettivo di esperienze di lotta come quella di Gamonal (vedi hashtag  #efectoGamonal) e dall’eccedenza sociale del 22M, indicano la necessità dello sviluppo di reti di contropotere sociale capaci di imporre alle controparti padronali e istituzionali condizioni non mediabili. Sempre più le mobilitazioni pongono al centro la questione dell’uso collettivo della forza volto al conseguimento di obiettivi concreti, mettendo così in discussione la filosofia d’azione necessariamente non-violenta. La disponibilità allo scontro di molti irrappresentabili si contrappone alla tendenza mediatrice di un discreto numero di organizzazioni situate nei circuiti della rappresentanza "democratica", che invece di catalizzare i processi di rottura talvolta rischiano di frenarli, adattandosi ai linguaggi e alle pratiche tipiche della social-democrazia novecentesca con l'illusione che questi possano avere una vocazione maggioritaria. In questo momento storico, le piazze e le percezioni soggettive delle masse paiono invece suggerire il contrario e ricordare che il potere costituente si esercita sempre e comunque grazie alla potenza destitutente. Potenza destituente che va però organizzata ed esercitata con intelligenza tattica e in modo inclusivo. Dunque, la vera sfida che i movimenti in Spagna si trovano ad affrontare non è tanto quella elettorale, ma quella organizzativa: l'esercizio di una pressione popolare che renda possibile l'innesco di un vero processo costituente non può prescindere dall'investimento di energie militanti nella costruzione e nel coordinamento di reti autonome volte al conflitto e alla trasformazione radicale dell'esistente.