Stampa

La norma biopolitica e il conflitto possibile

on .

di CRISTINA MORINI [video]

Alcuni avvenimenti di cui siamo stati testimoni appena ieri hanno segnato fatalmente i nostri immaginari. Voglio iniziare il mio ragionamento sul tema “Generi e generazioni” ricordandoli perché, piaccia o meno, essi ci hanno cambiati per sempre. Le nuove generazioni di uomini e donne dell’altra sponda del Mediterraneo, giovani “con buona formazione ma senza lavoro, produttive ma impoverite” come le ha definite Michael Blecher[1], sono scese in piazza e hanno sovvertito regimi. In Spagna hanno invaso le strade rendendo evidente lo scandalo di aver vent’anni e nessuna prospettiva in un mondo fatto come è fatto oggi, e di non sentirsi rappresentate dalla cosiddetta “democrazia”, occupata da una classe politica adulta indifferente alle loro sorti. In Turchia hanno eletto un parco a loro simbolo, costringendo il governo a confrontarsi con nuove esigenze che parlano anche dell’eco-sostenibilità del mondo, della precarietà del territorio e degli spazi metropolitani, entità mutevoli, in continua trasformazione e alla ricerca di nuove connessioni.

Da noi, in Italia, il regime di esclusione, repressione e manipolazione statalista e familista della voce dei giovani è forse più pesante che altrove e questo spiega, almeno parzialmente, il perché siano mancate insorgenze simili. I ragazzi e le ragazze vengono nominati solo all'interno della retorica politica sulla fuga dei cervelli o in quella commerciale dei talent show, sono invece inascoltati o pesantemente zittiti quando chiedono una scuola e un’università non impoverite, una cultura libera, accesso ai saperi e a un mondo del lavoro che si accorga di chi non ci è mai entrato.

Discorsi estremamente penalizzanti e mortificanti che servono a giustificare il fatto che a pagare la crisi strutturale nella quale siamo immersi siano soprattutto loro, le nuove generazioni precarie. Attualmente, sembra infatti essere più il dato generazionale (trasversale ai generi) che non l'appartenenza al genere femminile a determinare l’esclusione dallo spazio pubblico. Generazioni stratificate ormai l’una sull’altra, una riforma del lavoro dopo l’altra, nell’allargarsi progressivo della disoccupazione giovanile e del fenomeno dei Neet, Not (engaged) in Education, Employment or Training: così il dentro/fuori selettivo dalla cittadinanza (nel lavoro e nella rappresentanza) sembra oggi costruito ancor più sul dato anagrafico che sull'essere “donna”. E proprio i Neet possono essere infine interpretati come una risposta interessante, di rifiuto viscerale dei giovani al credo dell’ideologia dell’individualismo e del merito neoliberista che viceversa ha imbrigliato gli appena meno giovani. Evidentemente, la costruzione ideologica meritocratica, frutto di una falsificazione, non regge più e genera uno scollamento supplementare, che tende a farsi interruzione definitiva di ogni rapporto tra le fasce giovanili e le “istituzioni” (dallo stato all’università). Per anni, si è cercato di mascherare l’assenza di futuro destinata ai ragazzi e alle ragazze dietro la logica darwiniana, funzionale alla dimensione competitiva e individualista implicita nella precarietà che rende ancora più complessa l’esplicitazione di legami sociali e cioè le forme di organizzazione. Le nuove-vecchie forme di lavoro servile, che si moltiplicano ai nostri giorni creando una “plebe sparsa e divisa” incapace di organizzazione e di lotta, con lo sfruttamento degli immigrati nei servizi più umili e il diffondersi di un’intellettualità precaria e disoccupata, sono intatti perfettamente funzionali al mantenimento degli equilibri di potere esistenti. Per questo rifiutare di essere “catalogati” e assumere invece l'atteggiamento degli “spostati”, sentirsi ed essere disorganici e sradicati rispetto ai dispositivi del dover-essere contemporaneo, lungi dal rappresentare una forma di marginalizzazione è, viceversa, una postura che, di per sé, dentro gli ordinamenti biopolitici contemporanei, apre spazi alla radicalizzazione del conflitto.

Siamo però di fronte a un ulteriore passaggio. Mentre il discorso meritocratico arranca e perde attrattiva, ecco che da un lato si approfondisce l’insulto (dai bamboccioni di Padoa Schioppa al Basta piangere di Aldo Cazzullo, dai “choosy” di Elsa Fornero ai “poco ambiziosi” di John Elkann, si aggiungono tinte al ritratto variegato di giovani viziati, capricciosi e grassi grazie a mammà), dall'altro si tenta un aggiornamento del “discorso sul merito”, trapiantandolo nell'orizzonte autoreferenziale e autistico delle start up e dell'autoimpresa. Si prova in questo modo a introdurre il modello americano dell’uomo e della donna che si fanno da sé alle nostre latitudini, dentro il tessuto corrotto del familismo amorale italiano, laddove è evidentemente negata, ormai, la realtà di ogni possibile mobilità sociale.

La crisi del maschio

Spostiamoci adesso sul fronte dei “generi”: fuori dal modello breadwinner che cosa osserviamo? Un fenomeno che negli Usa viene chiamato mencession: un gioco di parole tra “uomo” (man) e recessione (recession) che si potrebbe tradurre in modo abbastanza letterale con “maschio(re)cessione”. È un processo conosciuto e discusso negli Stati Uniti, dove la crisi economica ha colpito in particolare settori a maggioranza di impiego maschile e ha risparmiato i comparti femminili (sanità, istruzione, cura alla persona). Alla fine del 2009 il tasso di disoccupazione americano era del 10,5 per cento, ma quello femminile solo dell’8 per cento. Negli ultimi anni negli Stati Uniti i tre quarti dei posti di lavoro persi erano occupati da uomini.

La “maschiocessione” si è vista in azione anche al di fuori degli Usa, in tutti i paesi dove i settori economici più colpiti dalla crisi economica sono stati quelli con occupazione prevalentemente maschile, come il settore delle costruzioni o il lavoro di fabbrica. E questo si nota anche in Italia, dove il tasso di disoccupazione femminile (tuttora leggermente superiore a quello maschile) è aumentato negli ultimi quattro anni meno rapidamente di quello maschile.

Il Wall street journal, nel descriverlo e riferendosi al nostro paese, ha sottolineato un altro effetto secondario implicito in questo andamento, ovvero proprio quello della femminilizzazione del lavoro. Non solo le donne italiane hanno tendenzialmente mantenuto più degli uomini i loro posti di lavoro, ma decine di migliaia di nuove occupate sono entrate nel mercato del lavoro. Le donne occupate sono aumentate di 110 mila unità nel 2012 e, mentre nel 2008 le donne rappresentavano un fondamentale fornitore di reddito soltanto nel 5 per cento delle coppie sposate, nel 2012 la percentuale è salita all’8,4 per cento.

Le società occidentali favoriscono il permanere di modelli maschili tradizionali ma contemporaneamente ne incoraggiano la decostruzione, innescando un gioco perverso di comunicazioni paradossali che rende vittime (oggi) entrambi i generi messi nelle condizioni di controllarsi e di autoregolarsi reciprocamente. Favorire la spinta emancipativa delle donne - per tutti quegli aspetti interni alla femminilizzazione del lavoro che sono stati più volte, da più parti, ricordati - serve anche a espellere alcuni aspetti della mascolinità non funzionali alla istituzioni biopolitiche attuali. Vuole dire impregnare le forme di vita attuali di tutte le necessità del biocapitale in azione. Uomini privati di un ruolo e di una funzione che aveva il proprio baricentro imprescindibile nel loro ruolo di lavoratori stabili. Donne a cui viene chiesto di diventare il fulcro dei nuovi processi produttivi, ovviamente all'interno della condizione precaria. Insomma, si agisce per la costruzione di una sorta di androginia psicologica ibrida, funzionale al consumo di merci e ai ritmi della riproduzione produttiva del presente.

Un appiattimento dei modelli comportamentali tra maschi e femmine che vede in particolare le femmine spostarsi sempre più sul versante del modello maschile. Ciò comporta due ordini di considerazioni: il permanere di fattori discriminanti nei confronti del ruolo della donna nel contesto socio-culturale, conduce probabilmente anche le giovani donne a incanalarsi in percorsi fino a ieri tipicamente maschili. All’interno di questi percorsi ci si trova di fronte a opzioni, sia professionali che private, che tradizionalmente appartengono a un altro genere. La donna ripiega così su scelte che spesso non tengono conto di tutte le potenzialità e differenze, rischiando di impoverire il proprio orizzonte e il proprio vissuto.

La possibile, tendenziale uniformizzazione delle differenze di genere nei modelli di comportamento indotti dal biopotere della quale stiamo ragionando si pone allora come un’arma a doppio taglio: può rappresentare l’occasione di ripensare i percorsi biografici al femminile ma allo stesso tempo, ricomprende e richiude di nuovo la figura della donna in categorie maschili, come è sempre stato storicamente.

L'attualità dell'insegnamento di Carla Lonzi

Allora, se le giovani generazioni precarie pagano per intero la crisi e per di più vengono svillaneggiate, se le donne vengono spinte a maschilizzarsi mentre il lavoro si femminilizza, proviamo a condurre un ragionamento comune tra generi e generazioni. Proviamo perciò a ragionare di “giovani” e “donne” insieme (e non solo perché sono le due categorie che caratterizzando il governo Renzi, come diremo).

E qui corre l’obbligo di richiamare Carla Lonzi. In Sputiamo su Hegel, Lonzi scrive: “Nell’angoscia dell’inserimento sociale, il giovane nasconde un conflitto con il modello patriarcale. Questo conflitto si rivela nelle istanze anarchiche in cui viene espresso un no globale, senza alternative: la virilità a questo stadio rifiuta di essere paternalistica, ricattatoria. Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza “anarchica” del giovane è velleitaria.

(…) Nessuna ideologia rivoluzionaria potrà più convincerci che le donne e i giovani hanno doveri nella lotta, nel lavoro, nella sublimazione, nello sport. Gli uomini adulti perpetuano il privilegio del controllo su di loro.

(...) Mentre i giovani operano per una rivoluzione politico-sociale che li esenti dal logorare le loro vite amministrando una società in cui non si riconoscono, qualcuno conta sull’entusiasmo neofita delle donne per far rientrare la crisi della società maschile: si concede loro di riempire quei medesimi ruoli e si fa apparire questa manovra come il risarcimento dovuto alla loro esclusione da sempre, una vittoria del movimento femminile. L’industria ha avuto bisogno di una riserva di manodopera nelle donne, la società dei consumi ha in progetto di aggiungerci la loro prestazione nelle attività terziarie”.

Parole profetiche, queste, scritte nell’estate del 1970 e che ci portano all’oggi, all’attualità del governo Renzi, governo del fare, governo smart, governo selfie, governo di “giovani” e “donne”.

Le categorie “giovani” e “donne” - che qui assumiamo senza definizioni ma evidentemente tenendo ben presente la necessità di contestualizzarle e storicizzarle sempre, per evitare ogni precipizio essenzialista - hanno subito, stanno subendo un processo di integrazione (sussunzione) progressiva all'interno del discorso pubblico, messo in atto per evitare che la pressione del biocapitalismo cognitivo a cui sono sottoposti in assenza di ogni potere reale, esploda in forme di ribellione. Questo aspetto diventa clamoroso con il governo del giovane rottamatore, Matteo Renzi. Il rischio (e viceversa la scommessa del sistema) è infatti che attraverso tale processo di progressivo “assorbimento” ideologico, il “giovane” e il suo “storico alleato”, la donna, si ritrovino completamente svuotati di un ruolo che storicamente li ha portati a combattere per sovvertire l’ordine patriarcale, ovvero la società biocapitalistica così come è costituita oggi, ovvero il sistema patriarcale che non può essere riformato.

Oggi le questioni di genere sono sempre più presenti nel dibattito pubblico e sempre più inquadrate nella cultura maschile dominante. Il cruciale tassello che bisogna aggiungere al quadro attuale (e lo avevamo già affermato parlando di femminilizzazione e lo abbiamo osservato ragionando dei processi di maternage delle istituzioni) è che la posizione femminile tende a cambiare completamente: l’esclusione delle donne tout court non c’è più perché essa non serve più tout court al potere contemporaneo. Le donne sono ammesse al gioco della spartizione del potere, diventano perfino un fiore all’occhiello e una risorsa strategica per lo stesso, a patto che dismettano il conflitto traducendo la materialità e la realtà all’interno di stremate e inferme “democrazie” pervertite dalla finzione e dalla crisi economica. Una specie di “maternizzazione” della politica, un tentativo di confezionare un divenire umano della politica nel precipitare del senso collettivo dello stato e della fiducia nella retorica abusata del “bene comune”. Come si cura il distacco dalla rappresentanza, dalle istituzioni? Come si riempie il vuoto tra il palazzo e il popolo? La madre è il “contenitore autentico” cui ci si ispira per superare questa distanza.

Questo cruciale passaggio di “spoliticizzazione del conflitto fra i sessi” serve a sopprimere il conflitto, patalogizzandolo e assicurandosi l’appoggio (o quanto meno il silenzio) dei vilipesi e degli oppressi: i “giovani” e “le donne”.

Come ha scritto giustamente Ida Dominijanni in un articolo recente, molto lucido, pubblicato sul suo blog: “Mai come in questo caso la parità di genere getta la maschera e si rivela per quello che è, un principio di neutralizzazione del conflitto fra i sessi. La cui politicizzazione del resto cominciò giustappunto quando alcune donne si rifiutarono di fare le vestali del ciclostile”.

Per i “giovani” il passaggio è simile, il “giovane” Renzi bene lo rappresenta: "imbrigliamento-embedded”, "inclusione" "integrazione”, inglobamento nella gestione dell’esistente, laddove la parola giovane è poco più che uno slogan, una specie di leva di marketing.

E qui cito ancora Dominijanni: “Nella rottamazione di edipico c’è ben poco: non ci sono padri riconosciuti da combattere ma solo fratelli maggiori giudicati incapaci, non c’è un’eredità da assumere ma solo un passato di cui liberarsi, non c’è conflitto con chi è venuto prima ma solo, appunto, rottamazione, non c’è un’esigenza di rivoluzione dell’ordine costituito ma solo l’urgenza di entrarci e di prenderne il comando”.

Problemi politici del presente

Evidentemente non posso esimermi, a questo punto, dal citare i quattro giovani attivisti No Tav accusati di terrorismo. Questo esempio dimostra come la norma venga imposta per via di normalizzazione delle differenze e come la repressione si faccia più feroce contro chi non accetta il programma più o meno descritto sopra. Non è un caso che sia stato proprio il decreto contro il femminicidio ad aprire varchi alla repressione sui territori, stabilendo un legame malato tra la salvaguardia “democratica” della integrità delle donne prescritta dal diritto positivo in cambio del via libera contro ribellioni e antagonismi radicali. La differenza si fa a sua volta norma-normata ex lege (biopoliticamente), la jeune fille bio diventa figura che interpreta alla perfezione il presente voluto dal biopotere, disponendosi a fare della propria stessa vita un'opera biopolitica e con ciò a diventare pietra di paragone per tutti e tutte coloro che non sono disponibili a “integrarsi”. E allora vanno espunti, scartati, imprigionati, soppressi.

Possiamo non vedere il problema, sul momento: tutto, anzi, congiura perché noi non lo vediamo. In realtà risulta abbastanza chiaro che la faccenda non si risolve indicando la strada di una guerra tra la generazioni. E tuttavia non possiamo che prendere qualche spunto dall’insegnamento di Carla Lonzi e puntare ancora una volta a un'alleanza tra i “giovani” e le “donne” controil biocapitalismo patriarcale. Credo sia cruciale, non eludibile.

Il lavoro creatore di plusvalore nella sua forma tradizionale ha costituito il terreno di un conflitto che ha trovato espressione nella forma politica del sindacato e del partito operaio. I processi di riproduzione che sono altre dimensioni nascoste del lavoro creatore di plusvalore costituiscono il terreno del nuovo conflitto sociale contemporaneo: un conflitto che assume di volta in volta la forma politica delle organizzazioni studentesche, delle reti organizzative femministe, dei gruppi per i diritti dei gay, dei movimenti indigeni, dei gruppi ambientalisti e antinuclearisti e altri tipi di movimenti sociali che non prendono le mosse dalla fabbrica ma direttamente dal territorio.

Questo è il primo elemento: indagare sempre meglio le nuove forme del conflitto e le nuove figure del conflitto. Ovviamente, all’interno di questa interpretazione, e fuori dalla espressione figurata e generalista dei “giovani” e delle “donne”, il tema diventa quello di un’alleanza il più possibile larga tra le figure impoverite dalla crisi, quindi quello di una relazione tra il precariato metropolitano, il giovane femminismo radicale e l’attivismo queer, costituito non da un unicum di donne o donnità ma da diverse figure precarie consapevolmente antagoniste.Le forme di organizzazione devono, a mio avviso, per forza tenere conto della complessità delle vite precarie, della odierna assoluta irriducibilità di ognuno/a a sentirsi ricompreso dentro un “soggetto” solo apparentemente collettivo e in realtà verticale e gerarchico ma continuare a puntare alla costruzione di viralità e trasversalità.

Il secondo elemento diventa - per tutti e tutte - quello di portare avanti percorsi di dis-identificazione dai ruoli assegnati, e dagli incarichi affidati a ciascuno dentro il mosaico ordinato del regime di biopolitica. Dunque quello di uno svincolamento dalle promesse, dalle sirene, dagli abbagli e dai piaceri del potere che richiedono di converso una prestazione compensativa. Tutto si gioca su un crinale incredibile, tra seduzione e repressione, che depotenzia l’autodeterminazione del soggetto, l'autonomo processo di soggettivazione. Per le ragazze adolescenti, per esempio, si moltiplicano gli ordini disciplinari insieme alla contemporanea diffusione di luoghi comuni che hanno come bersaglio il loro corpo e la loro libertà sessuale: non sono capaci di usare i contraccettivi eppure sono iperattive sessualmente, oppure giocano, provocatrici, sciocche, a farsi stuprare dai compagni di scuola. E allora, di converso, viene indicata la strada nel mondo dei ragazzi perbene, che hanno voglia di fare, aprono un ufficio, credono nel co-working, si stipendiano da soli nel prevalere del lavoro gratuito, inseguono i sogni politici dell'uomo forte di turno (Berlusconi o Renzi, a seconda delle fasi). Da questa dicotomia resta ovviamente escluso l’abisso della devianza ritenuta non sussumibile, quella pericolosa per l’ordine pubblico e da scartare, anche dietro approvazione degli intellettuali.

Vale la pena di analizzare con acutezza il contesto e di operare sempre più in modo da deprogrammarsi rispetto a certe ripartizioni che risultano asfitiche e che pretendono di assegnarci, come sempre, ruoli prestabiliti dal potere maschile, come fossero parti in commedia. Ciò vale anche per gli uomini, per i maschi, ovviamente. Per fare un esempio, nonostante il 90% dei padri tedeschi lavorino ancora a tempo pieno, secondo un sondaggio citato recentemente da Der Spiegel il 91% di loro sogna di avere più tempo da dedicare ai propri bambini.

Insomma, il nostro scopo, pur complesso, è quello di re-inventarci fuori dai dettami della bioeconomia, re-inventarci come esseri umani nuovi e liberi da costrizioni che ci impongono di stare muti, zitti, buoni e con ciò sgretolano la nostra essenza e peculiare originalità, la nostra eccedenza e resistenza incomprimibile, non consentendoci di sviluppare legami sociali autonomi e alleanze conflittuali. Per questo dobbiamo osservare e affrontare le difficoltà odierne che imbrigliano le soggettività, rendendo complesse le risposte. Osservarle dentro un orizzonte di lotta radicale che resta obiettivo imprescindibile, vuole dire porsi un problema politico. Il nostro attuale, immenso e tuttavia affascinante, non eludibile, problema politico.



[1] Michael Blecher, Postoperaismo o la trasformazione del capitale lavoro, in Sandro Chignola (a cura di), Il diritto del comune di Sandro Chignola, ombre corte, Verona, 2012. Il saggio di Blecher è pubblicato anche sul sito di UniNomade http://www.uninomade.org/postoperaismo-o-la-trasformazione-di-capitale-e-lavoro/