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Quando inizia la nostra fase 2?

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Riflessioni di Marco Rouge su crisi, restrizioni, prospettive

Passando oltre il desolante entusiasmo per Conte blastatore di Salvini e Meloni, pari solo alla sconsolante vastità dei vuoti di memoria collettivi (in primis di quella sinistra blastatrice di “analfabeti funzionali”), che cosa ha detto il premier venerdì sera? Niente. Niente di sostanziale, di concreto, se non che stanno lavorando, che con l'UE si comincia con le briciole e poi con pazienza ci daranno anche una fetta di torta... Una storia già sentita altre volte, difficile aspettarsi un finale diverso. Chi in questo momento è nella merda fino al collo perché non sa come tirare avanti si aspettava sicuramente qualcos'altro. Forse proveranno a bussare alla porta di Salvini e Meloni, giustappunto…

Nel mentre si prolungano le restrizioni senza un orizzonte chiaro di come e quando partirà questa fase 2 e soprattutto senza un dibattito pubblico su quali devono essere i caratteri di questa fase 2 (perché no, cosa riaprire prima e cosa invece lasciare chiuso, non è per nulla un fatto solo tecnico o sanitario). 60 milioni di persone sono ridotte a una condizione infantile paurosa, come dei bambini che devono fidarsi ciecamente dei governanti-genitori, delle loro rassicurazioni e imposizioni sempre rinnovate, mai debitamente spiegate e sottoponibili a una qualche discussione e revisione critica, neppure nelle aule parlamentari. Senza che tutto ciò desti quasi scandalo. Nel mentre anche loro sembrano non avere idea di che cosa inventarsi per uscire da questa situazione, né a breve né a medio-lungo termine.

Perché sì, l'epidemia da inizio aprile sta probabilmente rallentando, le strutture sanitarie stanno forse cominciando a respirare un po', ma 3500/4500 nuovi contagiati al giorno (solo per restare a quelli accertati) ci sono comunque, e potrebbe andare avanti così anche per parecchi mesi. Per degli anni, se non si trova un vaccino? Il nostro senso di attesa e di paralisi si giustifica solo alla luce di una supposta svolta medica nel contrasto al virus che allo stato attuale è comunque solo ipotetica, non certa. Sappiamo invece che ci sono già stati alcuni casi di nuovo contagio in pazienti precedentemente guariti, mentre dalla Cina arriva uno studio che, se verificato (il condizionale è d'obbligo) attesterebbe l’assenza o la scarsità di anticorpi nei pazienti guariti dal virus, minando quindi anche l’efficacia di un eventuale vaccino. Non proprio incoraggiante come possibile scenario…

Forse bisognerebbe cominciare a definire la questione con chiarezza e onestà di fronte a noi stessi: o ci poniamo il problema di capire come e quando può essere il momento di aprire noi la nostra fase 2, riconquistando la possibilità di tornare collettivamente in strada (sia pure a uno o due metri di distanza e con la mascherina, come è stato fatto giustamente a Roma per il funerale di Salvatore Ricciardi) oppure tutto quello che stiamo pensando, scrivendo, rivendicando in queste settimane, è solo un sogno incantato.

Diciamo "non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema", ma anche noi, compagni e compagne, in tanti casi stiamo scivolando senza accorgercene in una nuova normalità in cui la socialità avviene solo attraverso gli schermi, in cui ai corpi è lecito incontrarsi solo per lavorare e procurarsi il minimo per sostentarsi, in cui il lavoro è entrato ancora più prepotentemente dentro le nostre case e i nostri tempi di vita; una nuova normalità in cui, da ultimo, siamo digitalmente sorvegliati come mai prima.

Onore a quelle realtà che si organizzano per dare una mano, sostenere i deboli, gli anziani e gli ultimi, portando farmaci o facendo una spesa solidale. Ma occorre anche capire come alimentare e porsi in sintonia con quelle pulsioni di insofferenza, rabbia e odio per le cause di questa strage e per le soluzioni adeguate che mancano o che non si vogliono prendere di fronte alla crisi economica che avanza (“che il popolo muoia di fame, ma mai e poi mai si parli di patrimoniale, o di un reddito di base universale!”). Altrimenti il nostro sarà un lavoro ausiliario, e non antagonista rispetto allo Stato e al capitale. Sarà il lavoro del tampone che regge la diga, e non quello della talpa che la scava per determinarne il crollo.

La fase è complessa, tutti quanti siamo un po' disorientati e ci pare di navigare a vista. Identica è la condizione della nostra controparte del resto, almeno per ora. Dovremmo approfittarne. C'è molto da studiare in questo momento, molta inchiesta da fare per misurare la temperatura del disagio sociale che cresce per capire come e dove potrebbe esplodere, ci sono da tenere d'occhio i processi di innovazione a cui il capitale ricorrerà per ricostituire margini di profitto sulla nostra solita pelle. Ma tutto questo acquista senso solo se lo si colloca in un progetto di azione che non può avere un orizzonte temporale di decenni, e nemmeno di anni. Non più. Le crisi, come le rivoluzioni, cambiano il calendario, imprimono accelerazioni inaspettate. Difficile stare al passo, molto facile stare a rincorrere. Ma il problema vero nasce quando a rincorrere siamo sempre noi (noi rivoluzionari, o per dirla in termini più semplici e più aperti ad allargare il fronte dell'amicizia, noi che con questo mondo vorremmo farla radicalmente finita). E chi attende che le cose si rimettano in moto, rincorre per definizione.

E allora chiediamoci: se invece di aspettare che parta questa benedetta fase 2, non cominciassimo a rimettere in campo la volontà di decidere, collettivamente e dal basso, quando e come deve essere questa fase 2? Perché ad esempio dovrebbero riaprire alcune attività economiche e non i parchi? Perché dovremmo trovare normale che, come avviene già oggi, fin dall’inizio dell’epidemia anzi, milioni di persone si rechino comunque al lavoro per attività non essenziali, in spazi inadeguati a mantenere le distanze di sicurezza, mentre c’è da avere paura a uscire di casa per fare una camminata, prendere un po’ di sole, salutare qualcuno, anche a 5 metri di distanza (comunque molto più di quanto avvenga davanti a qualunque supermercato), tutte cose abbastanza salutari sia dal punto di vista fisico che psichico?

Col clima di terrore poliziesco indiscriminato e insensato a cui si sta sottoponendo un’intera popolazione, si dovrebbe cominciare a capire ormai, che il permetterci di fare tranquillamente assemblee, cortei, iniziative pubbliche, cioè forme di lotte ed esperienze collettive fisiche e reali (sia pure, ripeto, con tutte le ragionevoli precauzioni del caso) non rientra nella loro fase 2, che prima o poi vareranno, e neppure nella fase 3, 4 o 5... Forse nella 22, e per allora probabilmente saremo morti di altro che di Covid-19.

Nel frattempo le tensioni sociali aumenteranno; già il mese di marzo, dalle carceri ai luoghi di lavoro fino alle prime forme di pressione sui supermercati, ha visto alcuni importanti fermenti. Diversi altri che ancora non vediamo dispiegati, potrebbero manifestarsi anche a breve. Compito di un partito rivoluzionario (ancora non esistente) dovrebbe essere quello di dare un contributo affinché queste tensioni si condensino e si organizzino. Ad esempio, perché no, cominciando a mettere in circolo l'idea di alcuni ultimatum: o ci date questo entro la data x (un reddito di base incondizionato, un attestato di libera circolazione in conseguenza di un tampone negativo) oppure la data y... facciamo qualcosa di non virtuale! E vedere come questi vengono raccolti dalle nostre composizioni sociali di riferimento.

Troppo ardito e prematuro ora come ora? Non ci sono le condizioni? Forse. Ma allora come contribuiamo a crearle queste condizioni? A rischio di essere tacciati di irresponsabilità, cominciare a decostruire e a mettere a critica l'impianto di gestione della crisi fondato sull'"Io resto a casa", è un passaggio sempre più necessario, se aspiriamo a entrare in un qualunque “dopo” su cui avere voce in capitolo.

Immagino già certe critiche feroci pronte ad alzarsi: "così fareste solo danni", "vanifichereste gli sforzi fatti", "vi meritereste tutte le manganellate di questo mondo". E altre domande invece molto serie: "e se così facendo contagiate voi stessi, i vostri parenti, conviventi, amici?"; "se contribuite a reingolfare le strutture sanitarie?"; "se togliete un respiratore a una persona malata o più anziana che altrimenti sarebbe sopravvissuta?".

Già, come rispondiamo a queste domande, prima di tutto a noi stessi? Portare l'attenzione sul fatto che già ora il lockdown è una farsa, perché milioni di persone continuano a lavorare e ad assembrarsi a centinaia in luoghi chiusi, ribadire con forza che le responsabilità generali di questa crisi vanno cercate in scelte recenti e di lungo corso da parte dei nostri governanti e nel sistema economico in cui ci troviamo è ovviamente giusto, ma non elimina la singolare responsabilità dell’uso dei nostri corpi. Se c’è una cosa che manca per ora, nel dibattito sulla fase, sono dei contributi per un'elaborazione personale e collettiva di fronte alla morte e di fronte alla vita (alle vite) che vogliamo o non vogliamo vivere, a cui questa crisi di civiltà necessariamente ci spinge.

Dare per scontato che dopo questo periodo di forzata reclusione in casa di cui ad ora non si intravede la fine, ci sarà davvero tutta questa voglia di tornare a vedersi, abbracciarsi, incontrarci, agire insieme, fare un corteo, è forse un po’ troppo ottimista. Non potrebbe darsi invece, visto il clima che si è creato, il persistere di una paura dell’incontro e della socialità in generale?

Porsi allora la domanda di quale può essere il limite temporale, la soglia oltre cui potrebbe non valere più la pena di sopportare il lockdown (non un lockdown in generale, ma questo tipo di lockdown), non è un capriccio, non sono bizze da bambini viziati a cui manca l'aperitivo. Non si tratta nemmeno di lamentare come insopportabili i disagi della quarantena, che sono nella maggior parte dei casi (ma non in tutti, attenzione) risibili se paragonati a quella che può essere la condizione di chi ha fatto esperienza di una vera guerra, o anche solo quella di un comune detenuto in un carcere o in un Cpr. Si tratta invece di misurarci con l’interrogativo: in che modo il prolungarsi di queste restrizioni a tempo indefinito rischia di cambiare in peggio le nostre sensibilità, i nostri modi di amare, fare amicizia, vivere un’esperienza comune, sentirsi collettività? Quale politica è mai possibile senza questi ingredienti? E prima ancora, quale buona vita?

Con tutto il rispetto che dobbiamo agli sforzi e ai sacrifici degli operatori sanitari impegnati negli ospedali, e con la sensibilità e delicatezza che ugualmente dobbiamo a quelli che ad ora sono malati, ai loro familiari e amici, e a quelli di coloro che sono morti, apriamo il dibattito. Perché la fine di questa quarantena e dell’epidemia Covid-19 non è affatto detto che sia dietro l’angolo come speriamo.