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Punire. Solo punire

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Articolo di Valerio Guizzardi sulle rivolte in carcere di questi giorni

Non serviva la sfera di cristallo per predire ciò che poi è puntualmente accaduto: una catena di sanguinose rivolte che hanno ormai interessato buona parte dell'universo concentrazionario italiano, visto lo stato disastroso già precedente delle carceri. Anni di colpevole sovraffollamento a mezzo di leggi e decreti illiberali promulgati da una delle classi politiche più reazionarie e corrotte d'Europa; il potere sottratto alle direzioni degli istituti e affidato alla discrezionalità dei commissari della Polizia penitenziaria; l'informazione da dentro a fuori a esclusiva cura dei sindacatini corporativi di estrema destra degli agenti penitenziari alla quale si genuflette il mainstream riportando al pubblico fedelmente; una sanità interna disastrata che invece di curare produce morte; un tasso di suicidi per disperazione tra i più alti del continente; una magistratura di sorveglianza che concede, a mezzo di indebita discrezionalità di ruolo, quelli che sarebbero benefici di legge obbligatori con il contagocce privilegiando la sicurezza persino sul differimento pena o al ricovero in sanità pubblica dei detenuti in fin di vita poiché colpiti da gravi e devastanti patologie; un'incidenza di malattie psichiche che colpisce un detenuto su tre dei 61.000 presenti all'oggi; oltre il 70% sofferenti di patologie croniche, su tutte le epatiti C e HIV, per non parlare di quelle cardiocircolatorie e oncologiche; la percentuale dei detenuti stranieri si attesta al 32% (fine 2019) e quella dei tossicodipendenti, o comunque detenuti per reati di consumo e spaccio, al 37% (inizio 2020).

Una catena di sanguinose rivolte occupa le cronache da alcuni giorni; tutto sembra essere partito dal carcere di Modena alla notizia – inizialmente taciuta dalla stampa – di un detenuto trovato positivo al Covid-19 che ha sparso il panico tra i compagni di pena i quali hanno dato luogo alla giusta preoccupazione con l'unico mezzo a loro disposizione per farsi sentire: la sollevazione. Immediatamente dopo, la ferale scoperta di sette morti – dice il mainstream – per overdose da farmaci sottratti dall'infermeria invasa e devastata insieme a tutte le altre strutture interne. A seguire altri ventisei istituti con detenuti sui tetti, incendi, presa in ostaggio di agenti, evasioni, alcune tentate e altre riuscite; ogni giorno altre carceri si uniscono con le stesse modalità e una continuità nel tempo che a oggi, mentre scriviamo queste righe, sembrano non aver ancora trovato termine.

Ciò che si nota subito e che ci sconforta delle rivolte in essere è che non sono partite in seguito a un precedente processo di soggettivazione e organizzazione come fu nei Settanta ma dalla disperazione, dalla paura di rimanere intrappolati senza via d'uscita dall'eventuale propagazione del virus. Nella consapevolezza, questa sì, di non avere scampo poiché ammassati senza rimedio al chiuso delle celle e delle sezioni a fronte delle precarie condizioni generali di salute – che li renderebbe prede certe con risultati nefasti – e di una sanità interna disastrata quando non inesistente. La proibizione dei colloqui con i famigliari, con il totale isolamento, ha fatto il resto. 

Come ha risposto il governo a questa “emergenza”? Con l'unica modalità storicamente prevista dallo stato di eccezione permanente: la cieca repressione e le false promesse. Lo Stato non intende rinunciare, e mai lo farà, al carcere come contenitore deputato all'incapacitazione del conflitto, alla normalizzazione segregata delle classi pericolose; il carcere come luogo sottratto alla vista pubblica in cui si celebra il rito arcaico della vendetta e la rappresaglia sociali sul “reo”, l'afflizione gratuita mutuata dalla mai dimenticata Santa Inquisizione poiché “il martirio del corpo è la salvezza dell'anima”.

Quale risposta invece sarebbe dovuta per la risoluzione, almeno parziale, a questo disastro umano? Semplicemente quello che non da oggi hanno sempre sostenuto le associazioni dei detenuti che operano all'esterno, le Camere penali, i Giuristi democratici, diversi ex magistrati e giudici costituzionali, singolarità sensibili e operatori del volontariato (quel welfare gratuito che sopperisce ai continui tagli delle risorse statali): 

1- immediata scarcerazione dei detenuti malati e anziani tramite l'uso da parte della magistratura di sorveglianza - purché limitata nell'indebito potere di discrezionalità - dei dispositivi alternativi al carcere di legge che già esistono.

2- la rapida promulgazione di un provvedimento di amnistia/indulto generalizzato per alleggerire radicalmente il disumano sovraffollamento ora esistente, il quale impedisce qualsiasi intervento di prevenzione e cura. E che di conseguenza sfoltirebbe pure le centinaia di migliaia di fascicoli concernenti reati minori che giacciono ammucchiati nei cassetti dei tribunali rallentandone enormemente ogni funzionalità.

Vi sarebbe poi un'altra risposta, quella che riteniamo la più efficace: il conflitto agito proprio da quelle classi pericolose che si vorrebbero impotenti e recluse. Un movimento di massa coeso dai bisogni materiali, dall'identità di classe subalterna, da un processo di controsoggettivazione, da uno stile di militanza autonoma, dal senso ferreo dell'organizzazione. Un movimento che rimettesse al centro del discorso pubblico, che ridesse dignità a un termine che da oltre quarant'anni è stato colpevolmente oggetto di esorcismi da parte di sette millenariste (più che da “collettivi politici”) votate all'irrilevanza politica: Rivoluzione. Abbiamo una memoria prodigiosa e una pazienza infinita.